Skip to main content

Risarcimento dei danni connessi ad attivita' medica - errori diagnostici e/o da comportamenti omissivi delpersonale sanitario

Risarcimento dei danni connessi ad attivita' medica - errori diagnostici e/o da comportamenti omissivi delpersonale sanitario -  danno biologico e morale - danno morale soggettivo - capacita'di stare in giudizio in rappresentanza del figlio minore

Risarcimento dei danni connessi ad attività medica - errori diagnostici e/o da comportamenti omissivi del personale sanitario -  danno biologico e morale - danno morale soggettivo - capacità di stare in giudizio in rappresentanza del figlio minore (Cassazione – Sezione terza civile – sentenza 7-31 maggio 2003, n. 8827)

Svolgimento del processo

l. Nel 1987 Dalmazio Fxxxxxx e Nadia Dxxxxxxxxx, in proprio ed in nome del figlio minore Fabio, convennero in giudizio il professor Giovanni Zxxxxxxx, i dottori Fabrizio Sxxxxxxx ed Alessandro Vxxxxxxxx, la Usl n. 9 di Reggio Emilia e L’Arcispedale S. Maria Nuova per il risarcimento dei danni connessi alla tetrapresi spastica ed alla atrofia cerebrale da asfissia neonatale da cui era affetto Fabio Fxxxxxx, assumendo che l’infermità era stata determinata da errori diagnostici e/o da comportamenti omissivi del personale sanitario dell’ospedale dove il bambino era nato il 15.4.1982 a seguito di parto cesareo.

Tutti i convenuti resistettero. Su richiesta dei convenuti Zxxxxxxx, Vxxxxxxxx ed Usl fu autorizzata la chiamata in causa dei rispettivi assicuratori Allianz Pace spa, Vittoria Assicurazioni spa ed Assitalia spa, che a loro volta resistettero.

Espletata consulenza tecnica d’ufficio collegiale, il tribunale di Reggio Emilia respinse la domanda con sentenza 37/1996 sui rilievi che l’Arcispedale era privo di autonoma soggettività giuridica, che il dottor Sxxxxxxx aveva partecipato solo all’esecuzione del parto cesareo (la corretta esecuzione del quale non era controversa), che durante il travaglio erano state prestate cure adeguate e che doveva escludersi un tardivo ricorso al taglio cesareo in conseguenza di un errore prognostico.

2. La decisione è stata riformata dalla Corte d’appello di Bologna che, decidendo con sentenza 177/00 sul gravame degli attori cui avevano resistito tutti gli appellati già convenuti in primo grado, ha solidalmente condannato il dottor Aldo Vxxxxxxxx (nella cui imperita condotta ha ravvisato un apporto causale colposo quantificato nel 50%) e la Usl n. 9 a pagare:

- a Fabio Fxxxxxx lire 1.200.000.000 a titolo di risarcimento dei danni biologico e morale complessivamente liquidati, nonché lire 36.000.000 milioni annue, da rivalutarsi periodicamente, a titolo di danno patrimoniale futuro fino a quando lo stesso fosse rimasto in vita;

- ai genitori, in solido, di lire 648.000.000 a titolo di risarcimento del danno patrimoniale da loro direttamente subito nei primi diciotto ani di vita del figlio;

- a ciascuno dei genitori lire 250.000.000 a titolo di risarcimento del danno morale soggettivo nella sua tradizionale accezione di sofferenza acuta e di quello ulteriore di natura esistenziale correlato al totale sconvolgimento delle loro abitudini ed alle aspettative di una normale vita familiare e di una serena vecchiaia, nonché alla necessità di provvedere perennemente alle esigenze di un figlio ridotto in condizioni pressoché esclusivamente vegetative.

3. Avverso detta sentenza ricorre per cassazione Aldo Vxxxxxxxx, affidandosi a quattro motivi, illustrati anche da memoria, cui resistono con unico controricorso Nadia Dxxxxxxxxx e Dalmazio Fxxxxxx, che hanno a loro volta depositato memoria.

L’Assitalia ha aderito con controricorso al ricorso del Vxxxxxxxx. Tutti gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

1.1. I resistenti pregiudizialmente eccepiscono l’inammissibilità del ricorso (avverso la sentenza pubblicata il 22.2.2000) per essere stato lo stesso proposto nei confronti dell’altro litisconsorte Fabio Fxxxxxx come se ancora fosse minore e quindi con evocazione in giudizio dei genitori già esercenti la potestà, benché egli fosse divenuto maggiorenne il 15.4.2000, circa un anno prima della notifica del ricorso (avvenuta nell’aprile del 2001), com’era noto al ricorrente Vxxxxxxxx in relazione all’oggetto della causa, nella quale era prospettata la sua responsabilità per la colposa condotta tenuta proprio il giorno della nascita di Fabio Fxxxxxx (15.4.1982), del resto indicata nello stesso ricorso per cassazione.

Assumono che si verta in ipotesi di nullità dell’intero ricorso e non solo della notificazione e che, comunque, trattandosi di cause scindibili, il ricorso sarebbe inammissibile quantomeno nei confronti di Fabio Fxxxxxx.

1.2. Il ricorso è stato proposto nei confronti di “Nadia Dxxxxxxxxx, Dalmazio Fxxxxxx e Fabio Fxxxxxx, rappresentato in giudizio dai genitori Nadia Dxxxxxxxxx e Dalmazio Fxxxxxx” e notificato mediante consegna di tre distinte copie presso il domicilio del difensore avvocato Gianni Scagliarini.

Non si pone alcuna questione quanto ai rapporti processuali che direttamente riguardano Nadia Dxxxxxxxxx e Dalmazio Fxxxxxx, nei confronti dei quali il ricorso è stato ritualmente proposto.

Non si è invece costituito alcun rapporto processuale in questa fase nei confronti di Fabio Fxxxxxx, che aveva acquistato la capacità di stare in giudizio col raggiungimento della maggiore età ed al quale il ricorso avrebbe dunque dovuto essere direttamente notificato presso il suo domicilio reale (a meno che non fosse stato interdetto, ma avrebbe dovuto in questo caso essere evocato in giudizio in persona del tutore e non anche dei genitori). Vertendosi in ipotesi di cause scindibili ed essendo ormai preclusa l’impugnazione nei confronti di Fabio Fxxxxxx a seguito del decorso del termine superiore all’anno dalla pubblicazione della sentenza, non ricorrono i presupposti per la notifica del ricorso al medesimo ai sensi dell’articolo 332, comma 1, Cpc.

Né, con riferimento al caso del raggiungimento della maggiore età “dopo” la conclusione della fase processuale nella quale il minore era rappresentato in giudizio dai genitori, vi è contrasto di indirizzi - come prospettato dal ricorrente - sulla persona nei cui confronti l’impugnazione va proposta. Le sentenze richiamate in memoria (Cassazione, 15220/01, 1646/01, 11996/98, 5593/98, 5181/98, 2486/98, 6561/97) concernono invero il diverso caso nel quale il raggiungimento della maggiore età (con la cessazione della rappresentanza da parte dei genitori) intervenga nel corso del processo; caso disciplinato dall’articolo 300 Cpc, che subordina l’interruzione alla dichiarazione o alla notifica da parte del procuratore della parte costituita. Nell’ambito di tale fattispecie effettivamente la giurisprudenza di questa Corte non è univoca, essendosi per un verso affermato che la non automatica cessazione della rappresentanza processuale dei genitori per il solo fatto che il minore abbia raggiunto la maggiore età (e dunque la continuazione della rappresentanza degli stessi in difetto di notifica o comunicazione della circostanza con un atto del processo) opera tuttavia soltanto nell’ambito della stessa fase processuale, stante l’autonomia dei singoli gradi del giudizio, con la conseguenza che l’impugnazione va proposta nei confronti del minore appellante senza possibilità di sanatoria mediante rinnovazione della notifica (Cassazione,  8380/00, 9387/01, 1206/02); ed essendosi per altro verso sostenuto che il raggiungimento della maggiore età da parte del minore costituito per mezzo del suo legale rappresentante, se non dichiarato o notificato, resta privo di incidenza nel corso del processo, che prosegue regolarmente nei confronti del suo legale rappresentante, al quale pertanto ben vengono notificate le impugnazioni avverso le sentenze pronunciate nelle diverse fasi del giudizio (Cassazione, 1814/95, 11966/98, 1646/01, 15220/01 e, da ultimo, 1268/03).

Per converso, nel caso in cui la perdita della capacità di stare in giudizio dei genitori in rappresentanza del figlio e il correlativo acquisto di tale capacità da parte ,del minore divenuto maggiorenne intervengano “dopo” la sentenza che chiude il relativo grado di giudizio, si rendono applicabili i principi enunciati dalle Sezioni unite con sentenza 11394/96, che giudicò insuperabile l’esigenza che “il processo di impugnazione si instauri tra i soggetti reali” ed inaccettabile “la tesi che vuol comunque ed in generale condizionare il dovere di indirizzare l’impugnazione contro i soggetti reali al fatto che l’impugnante abbia avuto notizia dell’evento morte o perdita della capacità, senza di che l’impugnazione stessa, per una sorta di perpetuatio del precedente soggetto e dunque, ancora una volta per effetto di una fictio, sarebbe validamente instaurata nei confronti della parte defunta o divenuta incapace”. Con la stessa sentenza si chiarì anche come fosse del tutto improprio il riferimento al rimedio della rinnovazione della notificazione ex articolo 291 Cpc, “in quanto si tratta non di semplice nullità della notificazione ma di errata identificazione del soggetto passivo della vocativo in ius”, precisandosi che il vizio in questione andava ricondotto “al combinato disposto degli articoli 163, n. 2 e 164 Cpc in quanto vizio attinente alla individuazione dei soggetti dell’impugnazione, con l’effetto che, almeno stando alla disciplina anteriore alla novella di cui alla legge 353/90, non sarebbe possibile la rinnovazione dell’atto”. E si adombrò un possibile dubbio di costituzionalità per la mancata previsione di un rimedio di restituzione in termini in riferimento all’ipotesi in cui sussistessero ampi margini possibile incolpevolezza dell’errore.

Il rigore del principio è stato in seguito mitigato dalla conservazione degli effetti del l’impugnazione male indirizzata allorché l’impugnante non fosse in condizione di accertare senza difficoltà il raggiungimento della maggiore età e la conseguente cessazione della rappresentanza dei genitori.

Deve allora affermarsi, in linea con quanto già enunciato da questa corte (Cassazione, 8612/90, 12758/00 e 3349/01, 491/03) e con le integrazioni connesse alle osservazioni sopra svolte, che qualora la capacità di stare in giudizio in rappresentanza del figlio minore venga meno per il raggiungimento della maggiore età da parte di quest’ultimo dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, l’impugnazione va proposta nei confronti dell’ex minore divenuto maggiorenne (e notificata presso il suo domicilio reale) e non nei confronti dei genitori (ovvero del figlio rappresentato dai genitori), in quanto il problema della instaurazione della fase di gravame va risolto non già alla luce dei principi di ultrattività del mandato al procuratore costituito, bensì in base alle disposizioni contenute nell’articolo 328 Cpc, secondo cui l’evento interruttivo incide non più sul processo ma sul termine per la proposizione dell’impugnazione. Ne deriva che, se l’impugnazione sia proposta nei confronti dei genitori, l’atto è nullo per erronea identificazione del soggetto passivo della vocatio in ius ai sensi dell’articolo 164, comma 1, Cpc e ne va disposta d’ufficio la rinnovazione ai sensi dell’articolo 164, comma 2, Cpc nel testo novellato dalla legge 353/90 (se la controversia non era già pendente alla data del 30.4.1995 e salvo, nell’ipotesi che lo fosse, il possibile dubbio di costituzionalità in relazione alla mancata previsione della remissione in termini in caso di ignoranza del tutto incolpevole).

Nel caso in esame, nel quale la possibilità della rinnovazione é preclusa dalla inapplicabilità dell’articolo 164, comma 2, Cpc (nel testo successivo alla novella) alle controversie che, come la presente, erano già pendenti alla data del 30.4.1995 (ex articolo 9, decreto legge 432/95, convertito nella legge 534/95), il dubbio cui si è accennato è eliso non solo dal rilievo di generale valenza che un minore è naturaliter destinato a diventare maggiorenne e che i margini di incolpevolezza dell’errore sono dunque sempre assai ristretti, ma dall’obiettiva circostanza che la data di nascita di Fabio Fxxxxxx era, prim’ancora che nota al medico (attuale ricorrente) per essere stato quegli evocato in giudizio proprio in relazione al comportamento tenuto nell’imminenza della nascita, addirittura esposta nel ricorso per cassazione.

Il ricorso va pertanto esaminato con esclusivo riferimento alla posizione dei controricorrenti genitori di Fabio Fxxxxxx, per essere stato validamente proposto soltanto nei confronti degli stessi.

2.1. Col primo motivo è dedotta violazione e falsa applicazione degli articoli 2043, 2056, 2059, 1223 e 1226 Cc, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in riferimento all’articolo 360, nn. 3 e 5, Cpc, per avere il giudice d’appello arbitrariamente equiparato l’incidenza causale del ritardo imputabile e di quello non imputabile al dottor Vxxxxxxxx.

Il giudice di secondo grado - afferma il ricorrente - aveva ritenuto che, essendosi la brachicardia manifestata sul tracciato cardiotografico alle ore 7,10, il suo perdurare per ulteriori dieci minuti avrebbe dovuto indurre ad un immediato intervento cesareo, deciso invece solo alle 7,40 (anziché alle 7,20) ed eseguito alle 8,05 in considerazione del tempo tecnico necessario per la preparazione e l’esecuzione dell’intervento. Si duole dunque che la corte d’appello, nell’ambito del lasso temporale di 55 minuti intercorso tra il primo manifestarsi di uno stato fetale non rassicurante ed il parto, abbia inesplicatamente ed irragionevolmente determinato nel 50% l’incidenza causale del ritardo di venti minuti imputato a colpa del dottor Vxxxxxxxx in ordine al danno biologico verificatosi, benché tale frazione del tempo complessivo fosse inferiore a quella di 35 minuti decorsa senza colpa di alcuno. E sostiene che, in altra parte della motivazione, abbia contraddittoriamente ristretto in venti minuti il tempo necessario tra il primo manifestarsi della sofferenza e l’intervento proprio al fine di ripartire in parti uguali la valenza dannosa degli eventi.

2.2. La censura è infondata.

Con motivazione assolutamente limpida la corte d’appello, dopo aver accertato la “macroscopica” imperizia del ginecologo di turno per non aver saputo ravvisare e congruamente affrontare i chiari segni di una rilevante sofferenza fetale (brachicardia ed altri concorrenti sintomi) evidenziati dal tracciato cardiotografico per dieci minuti e che il colpevole ritardo nel far venire alla luce il bambino fu di almeno venti minuti, ha ritenuto che, poiché tra il primo manifestarsi della sofferenza fetale e l’effettivo intervento occorrono almeno venti minuti durante i quali alcune lesioni si vengono inesorabilmente a produrre, il ritardo colpevole potesse essere apprezzato solo in termini di aggravamento delle stesse.

Ha poi osservato che, ai fini della determinazione dell’entità di tale aggravamento, in considerazione della gravità della patologia del Fxxxxxx (prossima al 100% sotto il profilo biologico) risultasse pertinente la considerazione “che una gravità anche di poco inferiore avrebbe rappresentato un miglioramento ben superiore a quello desumibile da una valutazione puramente tabellare della funzionalità corporea, di talché il danno biologico, valutato in una prospettiva non statica ma dinamica, sarebbe risultato grandemente inferiore: la limitata possibilità di movimento anche di un solo arto, una sia pur modesta capacità di comprensione. avrebbero costituito un miglioramento fondamentale rispetto alla attuale condizione vegetativa del soggetto” (pagina 20 della sentenza). Ha dunque concluso la corte d’appello che, “dovendo necessariamente, per motivi di quantificazione monetaria, esprimersi in termini percentuali”, l’aggravamento del danno biologico conseguente al colpevole ritardo potesse essere valutato nel 50%.

La parificazione dell’incidenza causale degli “almeno20 minuti di ritardo imputabile ai 35 (tutt’al più) di ritardo non imputabile non è, dunque, affatto immotivata, ma spiegata in relazione alla esponenziale attitudine di una funzionalità sia pur minima ad attenuare gli effetti finali.

Sicché, sotto il profilo del risultato, la valenza negativa, degli ultimi venti minuti di ritardo è stata ritenuta pari a quella degli altri trentacinque, considerandosi che nei venti minuti comunque necessari per far nascere un bambina mediante taglio cesareo alcune lesioni inesorabilmente si producono e che, dunque, il ritardo imputabile non potesse apprezzarsi se non in termini di aggravamento.

Il ragionamento avrebbe potuto essere inficiato solo dal rilievo che, dopo 35 minuti, il danno è comunque interamente prodotto e che, per questo, doveva nella specie essere negato il nesso causale tra il ritardo dipeso da imperizia e lo stato finale del bambino. Ma di tanto la corte d’appello si è fatta puntuale carico rilevando (a pagina 19), sulla scorta del parere del consulente, che “i primi segni di sofferenza già costituiscono l’indice della asfissia che, a seconda della intensità e della durata, può portare alla cerebropatia, con conseguenze tuttavia di diversa intensità sia sul fisico che sulla mente. Ciò che, d’altra parte, rende evidente che in simili situazioni anche pochi minuti possono risultare preziosi, almeno al fine di ridurre la gravità delle lesioni; senza tuttavia dimenticare che, tra il prima manifestarsi della sofferenza fetale e l’effettivo intervento occorrono almeno 20 minuti durante i quali lacune lesioni si vengono inesorabilmente a produrre, sicché ogni ulteriore ritardo si può porre solo in termini di aggrava,mento delle stesse”.

Il riferimento a tali venti minuti è dunque operato in funzione dell’indagine sul nesso causale e del contenimento della responsabilità del medico in ordine a parte soltanto delle conseguenze derivate dal ritardo, e non già in funzione di una parificazione dei lassi temporali da comparare, come infondatamente assume il ricorrente.

3.1. Col secondo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione degli articoli 2043, 2056, 1223 e 1226 Cc e vizio di motivazione per avere la corte d’appello determinato in lire 648.000.000 le spese di cura e assistenza affrontate dai genitori nei primi e già trascorsi diciotto anni della vita del figlio in base allo stretto criterio di quantificazione equitativo adottato per le spese future (lire 6.000.000 mensili, metà delle quali poste a carico del Vxxxxxxxx in relazione al suo apporto causale colposo), mentre avrebbe dovuto liquidare le prime sulla scorta delle prove anche documentali che la parte interessata avrebbe dovuto e (in larga misura) potuto offrire.

3.2. Col quarto (del terzo si dirà più avanti) sono dedotti gli stessi vizi in punto di liquidazione equitativa del danno biologico e morale senza indicazione dei criteri utilizzati e delle ragioni per le quali il danno non poteva essere provato nel suo preciso ammontare.

3.3. Entrambe le doglianze, che possono essere congiuntamente esaminate, sono infondate.

Quanto al danno biologico e morale basta osservare che unica possibile forma di liquidazione di ogni danno privo delle caratteristiche della patrimonialità è quella equitativa, sicché la ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura del danno e nella funzione del risarcimento realizzato mediante la dazione di una somma di denaro, che non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico. È dunque escluso che si possa far carico al giudice di non aver indicato le ragioni per le quali il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare - costituente la condizione per il ricorso alla valutazione equitativa di cui all’articolo 1226 Cc -giacché in tanto una precisa quantificazione pecuniaria sarebbe possibile in quanto esistessero dei parametri normativi fissi di commutazione, in difetto dei quali il danno non patrimoniale non può mai essere provato nel suo preciso ammontare.

Altro è, evidentemente, il dovere del giudice (nella specie compiutamente adempiuto) di dar conto delle circostanze di fatto che ha considerato nel compiere la valutazione equitativa e dell’iter logico che lo ha condotto ad un determinato risultato. Ma non di questo si duole il ricorrente.

3.4. Quanto alla liquidazione equitativa delle spese affrontate in diciotto anni dai genitori del minore cerebroleso, la corte d’appello ha anzitutto determinato in lire 6.000.000 mensili le spese occorrenti per la “necessaria, pressoché costante, ancorché non necessariamente infermieristica, assistenza di un soggetto assolutamente incapace di svolgere anche le più elementari funzioni”. Ed ha poi assunto lo stesso importo (metà del quale da corrispondersi dai soggetti obbligati) ai valori monetari dell’epoca della pronuncia (com’è corretto in relazione alla natura di debito di valore dell’ obbligazione risarcitoria) per liquidare il danno subito dai genitori (lire 36.000.000 x 18 = lire 648.000.000).

Benché non siano state indicate le ragioni del ricorso del giudice alla valutazione equitativa, le stesse caratteristiche del caso di specie attentano come fosse in re ipsa l’impossibilità ovvero la grande difficoltà (sufficiente ad integrare i presupposti di cui all’articolo 1226 Cc: (cfr. Cassazione, 1474/96, 11202/94, 4609/95) per i genitori di provare nel loro preciso ammontare l’entità delle spese affrontate, nel corso di diciotto anni, per l’assistenza del minore ridotto ad uno stato vegetativo. Appartiene invero alla nozioni di comune esperienza che in ipotesi siffatte si impongono esborsi straordinari per soddisfare le più variegate esigenze, spaziandosi dai necessari adattamenti della casa di abitazione ai presidi sanitari, dagli accorgimenti particolari per l’alimentazione e l’igiene personale alla vigilanza (costante) ed alle cura, con inevitabile pervasione di ogni aspetto dell’esistenza di chi si occupi del soggetto, anche sotto il profilo strettamente economico; sicché la predisposizione delle “prove” delle spose si tradurrebbe nell’impossibile (o gravemente difficoltosa) contabilizzazione della vita stessa, inesigibile soprattutto da parte di chi abbia preoccupazioni ben più incombenti di quella costituita dalla imputazione di ogni singola erogazione di denaro, tra l’altro non sempre documentabile e non sempre univocamente collegabile alla situazione che la abbia provocata. Entrambe le censure vanno pertanto rigettate.

4.1. Col terzo motivo - che va a questo punto esaminato - la sentenza è censurata per violazione e falsa applicazione degli articoli 2043, 2056, 2059 e 1223 Cc, nonché per vizio di motivazione su punto decisivo della controversia.

Il ricorrente si duole che il giudice di merito, dopo aver offerto una rassegna delle posizioni della giurisprudenza sul cosiddetto “danno riflesso” e ritenuto che altro è il danno morale ed altro il danno biologico patito dai congiunti della vittima (primaria), abbia poi ritenuto che “... al danno morale per il nefasto evento in sé considerato si è aggiunto quello consistente nel più totale sconvolgimento delle loro (dei genitori, n.d.e.) abitudini e delle normali aspettative, unitamente all’esigenza di provvedere perennemente alle esigenze del figlio ridotto in condizioni pressoché esclusivamente vegetative. Danno, quindi, di natura esistenziale, che si aggiunge e sovrappone a quello morale, nella sua accezione tradizionale di sofferenza acuta, ma ristretta esclusivamente al campo interiore: danno esistenziale che - qualora non lo si voglia classificare come biologico nella più ampia accezione sopra specificata certamente trova ingresso e tutela nell’ambito del danno morale”.

Sostiene che la sentenza gravata ha in tal modo, per un verso, qualificato il danno biologico riflesso come diverso da quello morale al fine di superare le limitazioni che si pongono per il danno morale; e che, per altro verso, ha contraddittoriamente ritenuto che il danno biologico possa trovare ingresso e tutela nell’ambito del danno morale, col risultato che dello stesso danno viene ad un tempo affermata e negata la riconducibilità a quello morale.

4.2. Questa corte ha da tempo affermato, innovando il precedente restrittivo orientamento secondo il quale solo in caso di morte del soggetto leso è configurabile un danno morale risarcibile a favore degli stretti congiunti (cfr., ex plurimis, Cassazione, 1421/98, 11396/97, 11414/92, 6854/88, 1845176, 1056/73, 2915/71), che non sussistono ostacoli teorici ad ammettere il risarcimento a loro favore anche in caso di sopravvivenza alle lesioni del soggetto direttamente colpito, purché la sofferenza si presenti come effetto normale dell’illecito secondo un criterio di regolarità causale (Cassazione, 4186/98).

Si è in particolare ritenuto che la struttura della norma che prevede il danno morale (articolo 2059 Cc) non è di ostacolo all’applicazione anche a tale ambito dei principi elaborati a proposito dei cosiddetti “danni riflessi” (o “di rimbalzo, secondo la definizione della giurisprudenza d’oltralpe, costituiti dalle lesioni di diritti di cui siano portatori soggetti diversi dalla vittima iniziale del fatto ingiusto ma in significativo rapporto con la vittima stessa), che avevano già indotto a ravvisare la risarcibilità del danno biologico a favore degli stretti congiunti del soggetto leso e sopravvissuto al fatto (cfr., tra le altre, Cassazione, 8305/96 e 12195/98).

Si è chiarito come non sia sostenibile che, per gli effetti di cui all’articolo 1223 Cc, richiamato dall’articolo 2056 Cc, il danno morale dei prossimi congiunti costituisca conseguenza immediata e diretta dell’illecito se la vittima delle lesioni sia deceduta e perda, invece, tale connotazione se sia sopravvissuta, quand’anche si ritenga che l’articolo 1223 Cc regoli il nesso di causalità giuridica, restando quello di causalità materiale esclusivamente disciplinato dagli articoli 40 e 41 Cp.

La citata Cassazione, 4186/98 ha anche posto in evidenza che diverso problema è quello del paventato allargamento a dismisura del risarcimento del danno morale; problema da risolversi, tuttavia, sul piano probatorio, esigendo la prova rigorosa del danno stesso, evitando il disinvolto ricorso alle presunzioni e considerando le peculiarità del caso (nella specie caratterizzato dalla richiesta di danno morale da parte dei genitori di una bambina di tre anni che aveva subito lesioni gravemente invalidanti e deturpanti).

Tali rilievi - ribaditi anche da Cassazione, 13358/99, 4852/99 e 1516/01 (esclusa solo Cassazione, 2037/00) -sono stati da ultimo condivisi dalle sezioni unite che, componendo il contrasto che si andava di nuovo profilando, hanno enunciato il seguente principio di diritto, che va qui riaffermato: “ai prossimi congiunti della persona che abbia subito, a causa del fatto illecito costituente reato, lesioni personali, spetta anche il risarcimento del danno morale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima, non essendo ostativo il disposto dell’articolo 1223 Cc, in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso, con conseguente legittimazione del congiunto ad agire iure proprio contro il responsabile” (Cassazione Sezioni unite, 9556/02).

Dunque, non sussistono più ostacoli al risarcimento del danno morale a favore dei prossimi congiunti del soggetto che sia sopravvissuto alla lesioni seriamente invalidanti.

Resta il problema di stabilire se i pregiudizi che la corte d’appello ha inteso indennizzare rientrino nel danno biologico ovvero in quello morale e se, dunque, la sentenza sia censurabile nella parte in cui ha riconosciuto il risarcimento di un danno, definito di “natura esistenziale”, sul sostanziale rilievo che era in definitiva ininfluente la esatta collocazione dei pregiudizi in questione nell’una o nell’altra tipologia di danno.

4.3. Va premesso che questo stesso collegio, con sentenza resa in data odierna (sui ricorsi riuniti iscritti ai numeri nn. 12989 e 16386 del ruolo generale del 2001, Zani C. Sai e Mazzunno e viceversa, rel. ed est. Preden) in fattispecie nella quale era stato riconosciuto a favore della moglie, della figlia e della madre della vittima deceduta il risarcimento del danno biologico, sotto il profilo esistenziale, pur in difetto di prova di una patologia che potesse fare affermare la lesione del diritto alla salute intesa come integrità fisica e psichica, ha ritenuto che l’ammissione a risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione di congiunto, consistente nella perdita del rapporto parentale (inserito da un’ormai cospicua giurisprudenza di merito nell’ambito del cosiddetto danno esistenziale), fosse sostanzialmente da condividersi, pur se con le seguenti, testuali precisazioni:

« Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall’articolo 2059 Cc (“Danni non patrimoniali”), secondo cui: “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge.” All’epoca dell’emanazione del codice civile (1942) l’unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell’articolo 185 del Cp del 1930.

Ritiene il Collegio che la tradizionale restrittiva lettura dell’articolo 2059, in relazione all’articolo 185 Cp, come diretto ad assicurare tutela soltanto al danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell’animo transeunte determinati da fatto illecito integrante reato (interpretazione fondata sui lavori preparatori del codice del 1942 e largamente seguita dalla giurisprudenza), non può essere ulteriormente condivisa.

Nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione - che, all’articolo 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo -, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona.

Tale conclusione trova sostegno nella progressiva evoluzione verificatasi nella disciplina di tale settore, contrassegnata dal nuovo atteggiamento assunto, sia dal legislatore che dalla giurisprudenza, in relazione alla tutela riconosciuta al danno non patrimoniale, nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica (in tal senso, v. già Corte costituzionale, sentenza 88/1979).

Nella legislazione successiva al codice si rinviene un cospicuo ampliamento dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell’ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali (articolo 2 della legge 117/88: risarcimento anche dei danni non patrimoniali derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall’esercizio di funzioni giudiziarie; articolo 29, comma 9, della legge 675/96: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; articolo 44, comma 7, del decreto legislativo 286/98 adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; articolo 2 della legge 89/2001: mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).

Appare inoltre significativa l’evoluzione della giurisprudenza di questa Suprema Corte, sollecitata dalla sempre più avvertita esigenza di garantire l’integrale riparazione del danno ingiustamente subito, non solo nel patrimonio inteso in senso strettamente economico, ma anche nei valori propri della persona (articolo 2 Costituzione). In proposito va anzitutto richiamata la rilevante innovazione costituita dall’ammissione a risarcimento (a partire dalla sentenza 3675/81) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale (diverso dal danno morale soggettivo) che è il danno biologico, formula con la quale si designa l’ipotesi della lesione dell’interesse costituzionalmente garantito (articolo 32 Costituzione) alla integrità psichica e fisica della persona. Non ignora il Collegio che la tutela risarcitoria del cosiddetto danno biologico viene somministrata in virtù del collegamento tra l’articolo 2043 Cc e l’articolo 32 Costituzione, e non già in ragione della collocazione del danno biologico nell’ambito dell’articolo 2059, quale danno non patrimoniale, e che tale costruzione trova le sue radici (v. Corte costituzionale, sentenza 184/86) nella esigenza di sottrarre il risarcimento del danno biologico (danno non patrimoniale) dal limite posto dall’articolo 2059 (norma nel cui ambito ben avrebbe potuto trovare collocazione, e nella quale, peraltro, una successiva sentenza della Corte costituzionale, la 372/94, ha ricondotto il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria) . Ma anche tale orientamento, non appena ne sarà fornita l’occasione, merita di essere rimeditato.

Nel senso del riconoscimento della non coincidenza tra il danno non patrimoniale previsto dall’articolo 2059 e il danno morale soggettivo va altresì ricordato che questa Suprema Corte ha ritenuto risarcibile il danno non patrimoniale, evidentemente inteso in senso diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche; soggetti per i quali non è ontologicamente configurabile un coinvolgimento psicologico in termini di patemi d’animo (v., da ultimo, sentenza 2367/00).

Si deve quindi ritenere ormai acquisito all’ordinamento positivo il riconoscimento della lata estensione della nozione di danno non patrimoniale”, inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona, e non più solo come “danno morale soggettivo”.

Non sembra tuttavia proficuo ritagliare all’interno di tale generale categoria specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo: ciò che rileva, ai fini dell’ammissione a risarcimento, in riferimento all’articolo 2059, è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica.

Venendo ora alla questione cruciale del limite al quale l’articolo 2059 del codice del 1942 assoggetta il risarcimento del danno non patrimoniale, mediante la riserva di legge, originariamente esplicata dal solo articolo 185 Cp (ma v. anche l’articolo 89 Cpc), ritiene il Collegio che, venendo in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, clave escludersi che il risarcimento del danno non patrimoniale che ne consegua sia soggetto al limito derivante dalla riserva di legge correlata all’articolo 185 Cp.

Una lettura della norma costituzionalmente orientata one di ritenere inoperante il detto limite se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti. Occorre considerare, infatti, che nel caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente protetto, la riparazione mediante indennizzo (ove non sia praticabile quella in forma specifica) costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non é assoggettabile a specifici limiti, poiché ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi (v. Corte costituzionale, sentenza 184/86, che si avvale tuttavia dell’argomento per ampliare l’ambito della tutela ex articolo 2043 al danno non patrimoniale da lesione della integrità biopsichica; ma l’argomento si presta ad essere utilizzato anche per dare una interpretazione conforme a Costituzione dell’articolo 2959).

D’altra parte, il rinvio ai cani in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.

La sentenza così prosegue: «Venendo ora ad esaminare la questione della ammissione a risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione di congiunto, consistente nella definitiva perdita del rapporto parentale (con tale espressione sinteticamente lo designa una ormai cospicua giurisprudenza di merito, che lo inserisce nell’ambito del cosiddetti danno esistenziale ), osserva il Collegio che il soggetto che chiede iure proprio il risarcimento del danno subito in conseguenza della uccisione di un congiunto lamenta l’incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute del quale è titolare (la cui tutela ex articolo 32 Costituzione, ove risulti intaccata l’integrità biopsichica, si esprime mediante il risarcimento del danno biologico), sia dall’interesse all’integrità morale, la cui tutela, agevolmente ricollegabile all’articolo 2 Costituzione, ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo. L’interesse fatto valere nel caso di danno da uccisione di congiunto è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli articoli 2, 29 e 30 Costituzione.

Si tratta di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell’articolo 2043, nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad un risarcimento (o meglio: ad una riparazione) ai sensi dell’articolo 2059, senza il limite ivi previsto in correlazione all’articolo 185 Cp in ragione della natura del valore inciso, vertendosi in tema di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato.

Il danno non patrimoniale da uccisione di congiunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, si colloca quindi nell’area dell’articolo 2059 in raccordo con le suindicate norme della Costituzione. Il suo risarcimento postula tuttavia la verifica della sussistenza degli elementi nel quali si articola l’illecito civile extracontrattuale definito dall’articolo 2043. L’articolo 2059 non delinea una distinta figura di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, consente, nei casi determinati dalla legge, anche la riparazione di danni non patrimoniali (eventualmente in aggiunta a quelli patrimoniali nel caso di congiunta lesione di interessi di natura economica e non economica).

Per quanto concerne il nesso di causalità, va rilevato che, nel caso in cui la perdita del rapporto parentale sia determinata dall’ uccisione di un congiunto, il medesimo fatto (uccisione di una persona) lede in pari tempo situazioni giuridiche di soggetti diversi legati da un vincolo parentale.

L’evento naturale “morte” non causa soltanto l’estinzione della vita della vittima primaria, che subisce il massimo sacrificio del relativo diritto personalissimo, ma causa altresì, nel contempo, l’estinzione del rapporto parentale con i congiunti della vittima, che a loro volta subiscono la lesione dell’interesse alla intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che connota la vita familiare. Si ripropone, in questo caso, il fenomeno della propagazione intersoggettiva delle conseguenze di un medesimo fatto illecito. Figura nota, della quale la giurisprudenza, in tema di danni non patrimoniali, ha fatto governo in varie ipotesi, ammettendo a risarcimento: il danno morale soggettivo da morte di congiunto (sentenza 2915/71; 1016/73; 6854/88; 11396/97); il danno morale soggettivo cagionato da lesione non mortale sofferta da un congiunto, come statuito, innovando il precedente orientamento restrittivo (di cui sono espressione le sentenze suindicate) , dalla più recente giurisprudenza di questa Suprema Corte (sentenza 4186/98; 4852/99; 13358/99; 1516/01; Sezioni unite,  9556/02); il danno consistente nella impossibilità di intrattenere rapporti sessuali a causa delle lesioni subite dal coniuge (sentenza 6607/86); il danno subito dalla moglie e dai figli di un infortunato, rimasto in coma profondo, per la lesione dei diritti riflessi di cui siano portatori, ai sensi degli articoli 143 e 147 Cc (sentenza 8305/96). Ma ricadono nel paradigma, sia pur in materia di danni patrimoniali, anche l’ipotesi della lesione del diritto di credito ad opera di un terzo (secondo quanto affermato nel caso Meroni dalle Sezioni unite con la nota sentenza 174/71) e del danno patrimoniale subito dai congiunti della vittima (ai quali viene equiparato il convivente more uxorio: sentenza 2988/94) per la perdita delle contribuzioni che da quella ricevevano ed avrebbero presumibilmente ancora ricevuto in futuro, sempre pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza civile (sentenza 3929/69; 2063/75; 4137/81; 11453/95; 1085/98; ma v. anche Corte costituzionale, sentenza 372/94).

In questi casi si suole parlare di “danno riflesso o di rimbalzo”. Ma la definizione non coglie nel segno: dovendosi aver riguardo alla lesione della posizione giuridica protetta, nel caso di evento plurioffensivo la lesione è infatti contestuale ed immediata per tutti i soggetti che sono titolari dei vari interessi incisi (sentenza 1561/01; Sezioni unite, 9556/02).

Ciò posto, il problema della causalità va affrontato e risolto negli stessi termini in cui questa Suprema Corte lo ha affrontato e risolto in relazione alle menzionate ipotesi di propagazione intersoggettiva delle conseguenze di uno stesso fatto illecito.

Al fine di individuare il responsabile dell’evento lesivo (incidente sulle posizioni giuridicamente protette facenti capo alla vittima primaria ed a quelle che si suole definire come vittime secondarie) dovrà essere accertato il nesso di causalità materiale intercorrente tra la condotta dell’uccisore e la morte della vittima primaria alla stregua delle regole dettate dagli articoli 41 e 42 Cp, secondo i criteri della cosiddetta causalità di fatto o naturale, impostati sul principio della condizione sine qua non o della equivalenza, con il correttivo del criterio della “causalità efficiente” (v., per tutte, sentenza 8348/96 e 5923/95, che esprimono un orientamento consolidato) .

Una volta risolto il problema dell’imputazione dell’evento (problema che è proprio della responsabilità extracontrattuale, poiché in quella contrattuale il soggetto responsabile è di norma il contraente inadempiente: sentenza 11629/99), dovrà invece procedersi alla ricerca del collegamento giuridico tra il fatto (uccisione) e le sue conseguenze dannose, selezionando quelle risarcibili, rispetto a quelle non risarcibili, in base ai criteri della causalità giuridica, alla stregua di quanto prevede l’articolo 1223 Cc (richiamato dall’articolo 2056, comma 1, Cc), che limita il risarcimento ai soli danni che siano conseguenza immediata e diretta dell’illecito, ma che viene inteso, secondo costante giurisprudenza (sentenza 89/1962; 373/71; 6676/92; 1907/93; 2356/00; 5913/00), nel senso che la risarcibilità deve essere estesa ai danni mediati ed indiretti, purché costituiscano effetti normali del fatto illecito, secondo il criterio della cosiddetta regolarità causale (sul punto v., da ultimo, Sezioni unite, sentenza 9556/02, in tema di danno morale soggettivo sofferto dai congiunti della vittima di lesioni non mortali, che conferma le argomentazioni della sentenza 4186/98).

Circa l’elemento soggettivo, non sembra esatto ritenere che, essendo necessaria la prevedibilità dell’evento al fine di ritenere sussistente la colpa, il soggetto che ha posto in essere la condotta che ha causato la morte della vittima primaria non dovrebbe rispondere del danno subito dai congiunti per difetto di prevedibilità degli eventi ulteriori, tra i quali rientra la privazione, in danno dei superstiti, del rapporto coniugale e parentale, e, quindi, per mancanza di colpa.

È agevole opporre che la prevedibilità dell’evento .dannoso deve essere valutata in astratto e non in concreto; che l’evento dannoso è costituito, in tesi, dalla lesione ~dell’interesse all’intangibilità delle relazioni familiari; che tale lesione deve ritenersi prevedibile, rientrando nella normalità che la vittima sia inserita in un nucleo familiare, come coniuge, genitore, figlio o fratello.

Per quanto concerne, infine, la prova del danno, osserva il Collegio che il danno non patrimoniale da uccisione di congiunto non coincide con la lesione dell’interesse protetto; esso consiste in una perdita, nella privazione di un valore non economico, ma personale, costituito della irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare; perdita, privazione e preclusione che costituiscono conseguenza della lesione dell’interesse protetto.

Volendo far riferimento alla nota distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza (introdotta da Corte costituzionale 184/86, che ha collocato nella prima figura il danno biologico, ma abbandonata dalla successiva Corte costituzionale 372/94), si tratta di danno-conseguenza. Non vale pertanto l’assunto secondo cui il danno sarebbe in re ipsa, nel senso che sarebbe coincidente con la lesione dell’interesse. Deve affermarsi invece che dalla lesione dell’interesse scaturiscono, o meglio possono scaturire, le suindicate conseguenze, che, in relazione alle varia fattispecie, potranno avere diversa ampiezza e consistenza, in termini di intensità e protrazione nel tempo.

Il danno in questione deve quindi essere allegato e provato. Trattandosi tuttavia di pregiudizio che si proietta nel futuro (diversamente dal danno morale soggettivo contingente) , dovendosi aver riguardo al periodo di tempo nel quale si sarebbe presumibilmente esplicato il godimento del congiunto che l’illecito ha invece reso impossibile, sarà consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base degli elementi obbiettivi che sarà onere del danneggiato fornire.

La sua liquidazione, vertendosi in tema di lesione di valori inerenti alla persona, in quanto tali privi di contenuto economico, non potrà che avvenire in base a valutazione equitativa (articoli 1226 e 2056 Cc) , tenuto conto dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza, e di ogni ulteriore utile circostanza, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti.

Ed é appena il caso di notare che il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, in quanto ontologicamente diverso dal danno morale soggettivo contingente, può essere riconosciuto a favore dei congiunti unitamente a quest’ultimo, senza che possa ravvisarsi una duplicazione di risarcimento.

Ma va altresì precisato che, costituendo nel contempo funzione e limite del risarcimento del danno alla persona la riparazione del pregiudizio effettivamente subito dalla persona, il giudice di merito, nel caso di attribuzione congiunta del danno morale soggettivo e del danno da perdita del rapporto parentale, dovrà considerare, nel liquidare il primo, la più limitata funzione di ristoro della sofferenza contingente che gli va riconosciuta, poiché, diversamente, sarebbe concreto il rischio di duplicazione del risarcimento. In altri termini, dovrà il giudice assicurare che sia raggiunto un giusto equilibrio tra le varie voci che concorrono a determinare il complessivo risarcimento».

4.4. Tali osservazioni evidentemente si attagliano anche al caso di specie, nel quale la elisione delle potenzialità interrelazionali del rapporto parentale dei genitori col figlio costituisce diretta conseguenza dello stato pressoché vegetativo al quale quest’ultimo è ridotto. In tal senso va infatti inteso il riferimento della sentenza impugnata al “più totale sconvolgimento ... delle normali aspettative dei genitori”; aspettative evidentemente diverse da quelle relative al (possibile) futuro contributo economico del figlio, essendo stato il danno patrimoniale autonomamente liquidato.

4.5. Si pone invece un problema ulteriore. La corte d’appello ha infatti considerato anche lo sconvolgimento delle “abitudini” dei genitori e “l’esigenza di provvedere perennemente” ai bisogni del figlio (anche qui su un piano diverso da quello economico). Occorre allora stabilire se tali pregiudizi rientrino o no nell’ambito del rapporto parentale tutelato dagli articoli 29 e 30 Costituzione, giacché, ove lo si escludesse, la sentenza andrebbe cassata per una rideterminazione equitativa del quantum debeatur, poiché potrebbero essere stati risarciti danni non conseguiti alla lesione di un interesse di rango costituzionale.

La soluzione è, peraltro, affermativa. Il riconoscimento dei “diritti della famiglia” (articolo 29, comma 1, Costituzione) va invero inteso non già, restrittivamente, come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere meramente interno, ma nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell’individuo alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto parentale ispira, generando bensì bisogni e doveri, ma dando anche luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni e significati.

Allorché il fatto lesivo abbia profondamente alterato quel complessivo assetto, provocando una rimarchevole dilatazione dei bisogni e dei doveri ed una determinante riduzione, sia non un annullamento, delle positività che dal rapporto parentale derivano, il danno non patrimoniale consistente nello sconvolgimento della abitudini di vita in relazione all’esigenza di provvedere perennemente ai (niente affatto ordinari) bisogni del figlio deva senz’altro trovare ristoro nell’ambito della tutela ulteriore apprestata dall’articolo 2059 Cc in caso di lezione di un interesse costituzionalmente protetto.

4.6. Si risarciscono così - come si è detto sopra e solo nel caso di conseguenze pregiudizievoli derivanti, secondo i richiamati principi della regolarità causale, dalla lesione di interessi di rango costituzionale - danni diversi da quello biologico e da quello morale soggettivo, pur se anch’essi, come gli altri, di natura non patrimoniale.

Il che non impedisce, proprio per questo e nell’ottica della concezione unitaria della persona, che la valutazione equitativa di tutti i danni non patrimoniali possa anche essere unica, senza una distinzione - bensì opportuna, ma non sempre indispensabile - tra quanto va riconosciuto a titolo di danno morale soggettivo e quanto a titolo di ristoro dei pregiudizi ulteriori e diversi dalla mera sofferenza psichica, ovvero quanto deve essere liquidato a titolo di risarcimento del danno biologico in senso stretto (se una lesione dell’integrità psico-fisica sia riscontrata) e quanto per il ristoro dei pregiudizi in parola; ovvero, ancora, che la liquidazione del danno biologico, di quello morale soggettivo e degli ulteriori pregiudizi risarcibili sia espressa da un’unica somma di denaro, per la cui determinazione si sia tuttavia tenuto conto di tutte le proiezioni dannose del fatto lesivo.

La prassi giudiziaria ha infatti attuato, anche se non sempre in modo dichiaratamente consapevole, una dilatazione degli originari ambiti concettuali del danno alla salute e di quello morale soggettivo, ricomprendendo nel primo (danno biologico in senso lato, nell’accezione indicata da Corte costituzionale, 356/91) tutti i riflessi negativi che la lesione della integrità psico-fisica normalmente comporta sul piano dell’esistenza della persona, inducendo un peggioramento della complessiva qualità della vita; e, nel secondo (o, alternativamente, nel primo, come prospettato anche nella sentenza in questa occasione gravata), tutte le rinunce collegate alle sofferenze provocate dal fatto lesivo costituente reato: queste ultime riguardate inoltre, non di rado, nella loro perdurante protrazione nel tempo e non già come patema d’animo o stato d’angoscia transeunte (secondo l’indicazione offerta da Corte costituzionale, 327/94). Si è fatto leva, in particolare, sulle constatazioni che il danno biologico, a seguito di una valutazione che deve essere nel più alto grado possibile personalizzata, è liquidato in precipua considerazione di quanto il soggetto non potrà più fare; che il dolore psichico ha spesso ripercussioni sul modus vivendi di chi lo patisce nel senso di attenuarne il desiderio di attività; che alcuni tipi di patemi d’animo hanno un’intrinseca attitudine ad essere ineluttabilmente permanenti, piuttosto che meramente transeunti.

Si coglie allora come le già effettuate liquidazioni del danno biologico e del danno morale soggettivo da parte dei giudici di merito possano non lasciare spazi ulteriori per indennizzare i consequenziali pregiudizi non patrimoniali da lesione di interessi costituzionalmente protetti, in ipotesi risarciti in passato mediante la sussunzione degli stessi nell’ambito di quelle voci di danno; segnatamente del danno morale, dove il difetto di materialità del bene inciso, invece ricorrente per il danno alla salute, ha dato luogo ad innegabili difficoltà nella distinzione di pregiudizi che, pur ontologicamente diversi tra loro, concernono ambiti che tendono talora a sovrapporsi.

Non può insomma negarsi che proprio il difetto di tutela risarcitoria degli interessi costituzionalmente garantiti ora invece riconosciuta - abbia provocato una tendenza alla dilatazione degli spazi propri di altre voci di danno, che non ha più ragione di essere. 4.8. È conclusivamente il caso di chiarire che la lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 Cc va tendenzialmente riguardata non già come occasione di incremento generalizzato della poste di danno (e -mai come strumento di duplicazione di risarcimento degli stessi pregiudizi), ma soprattutto come mezzo per colmare la lacuna, secondo l’interpretazione ora superata della norma citata, nella tutela risarcitoria della persona, che va ricondotta al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale: quest’ultimo comprensivo del danno biologico in senso stretto, del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso e dei pregiudizi diversi ad ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto.

Deve anche dirsi che, tutte le volte che si verifichi la lezione di un tale tipo di interesse, Il pregiudizio consequenziale integrante il danno morale soggettivo (patema d’animo) è risarcibile anche se il fatto non sia configurabile come reato. E va ribadito che nella liquidazione equitativa dei pregiudizi ulteriori, il giudice non potrà non tenere conto di quanto già eventualmente riconosciuto per il risarcimento del danno morale soggettivo, in relazione alla menzionata funzione unitaria del risarcimento del danno alla persona

4.9. Nella specie deve senz’altro escludersi che la corte d’appello sia incorsa in una duplicazione risarcitoria delle stesse conseguenze pregiudizievoli, avendo avuto cura di chiarire puntualmente che la liquidazione - legittimamente effettuata, come s’è detto, con l’indicazione di una somma omnicomprensiva - è stata riferita sia alla “sofferenza acuta, ma ristretta esclusivamente al campo interiore”, sia alla frustrata aspettativa dei genitori - ad una normale vita familiare dedita all’allevamento della prole, ad una normale conduzione di vita, ad una serena vecchiaia”, sicché “al danno morale per il nefasto evento in sé considerato si è aggiunto quello consistente nel più totale sconvolgimento delle loro abitudini e delle normali aspettative, unitamente all’esigenza di provvedere perennemente alle esigenze del figlio ridotto in condizioni pressoché esclusivamente vegetative”.

Per quanto, dunque, la motivazione della sentenza vada corretta nella parte in cui la corte di merito ha ritenuto di poter alternativamente ricomprendere i predetti pregiudizi nell’ambito del danno biologico, che non è invece configrurabile ne manchi una lezione dell’integrità psico-fisica secondo i canoni fissati dalla scienza medica (in tal senso si è di recente orientato il legislatore con gli articoli 13 del decreto legislativo 38/2000 e 5 della legge 57/2001, prevedendo che il danno biologico debba essere suscettibile di accertamento o valutazione medico legale), ovvero nel danno morale soggettivo, il cui ambito resta quello proprio della mera sofferenza psichica e deve anzi a questa essere esclusivamente ricondotto, ha tuttavia adottato una soluzione conforme a diritto laddove, in presenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto, ha liquidato l’intere danno non patrimoniale anche in riferimento al pregiudizio ulteriore consistente nella permanente privazione della reciprocità affettiva propria del più stretto tra i rapporti parentali.

5. Il ricorso deve essere pertanto respinto.

La natura delle questioni poste e la novità di taluna delle soluzioni adottate integrano giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

PQM

Rigetta il ricorso e compensa le spese.

 

Documento pubblicato su ForoEuropeo - il portale del giurista - www.foroeuropeo.it