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Risarcimento danni - Medico di fiducia ginecologo - Carenze della struttura ospedaliera - obbligo di informare la partoriente

Risarcimento danni - Medico di fiducia ginecologo - Carenze della struttura ospedaliera - obbligo di informare la partoriente

Civile e procedura - Risarcimento danni - Medico di fiducia ginecologo - Carenze della struttura ospedaliera - obbligo di informare la partoriente (Cassazione , sez. III civile, sentenza  n. 11316  del 21.07.2003)

Svolgimento del processo

1. A.S. e M. G., in proprio e quali eredi del figlio G.S. (nato il 27.11.1981 e deceduto in data 11.11.1992), ricorrono per cassazione, articolando tre motivi di censura, avverso la sentenza 365/01 della Corte d’appello di Napoli che, in totale riforma della sentenza del Tribunale di Napoli 647/99 (con la quale il convenuto ginecolgo F. G. era stato condannato al pagamento della somma di lire 1.450.000.000, oltre agli interessi, già detratte lire 700.000.000 dal maggiore importo liquidato), ha rigettato le domande dello S. e della G. volte al risarcimento dei danni patiti da loro stessi e dal figlio a seguito della anossia di cui questi aveva sofferto alla nascita, che assumevano non adeguatamente trattata e che aveva provocato microencefalite e tetraparesi spastica comportanti un grado di invalidità del 100%.

Espongono che il prof. G. era stato convenuto in altro giudizio promosso con atto di citazione del 7 marzo 1986 anche nei confronti della Clinica Stabia e definito dal Tribunale di Torre Annunziata con sentenza 510/96, che aveva bensì accertato la responsabilità del ginecologo e del personale della casa di cura, condannandola al risarcimento dei danni, ma che aveva dichiarato la domanda inammissibile nei confronti del costituitosi G. per ragioni di rito (il gravame, in punto di danni risarcibili e di quantum debeatur, era stato poi definito in appello con sentenza della corte d’appello di Napoli n. 2191/97, impugnata per cassazione con ricorso principale ed incidentale, non ancora deciso).

Da qui il giudizio promosso nei confronti del solo G. con atto di citazione notificato l’1.4.1997 e conclusosi in secondo grado con la sentenza in questa sede gravata.

2. Al ricorso resiste con controricorso F. G., che ha anche depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

1. Il ricorso si articola in tre motivi, con i quali i ricorrenti si dolgono che la domanda nei confronti del ginecologo sia stata respinta in appello nonostante la palese responsabilità del medesimo, che affermano essere stata correttamente ravvisata, sulla scorta dell’ampia e approfondita relazione di consulenza tecnica redatta dal prof. Zarone, dal giudice di primo grado, che aveva testualmente rilevato: «l’esperita istruzione ha invero consentito di accertare al di là di ogni ragionevole dubbio la sussistenza dell’effettiva responsabilità del G. in relazione ai fatti a lui addebitati con l’atto introduttivo del giudizio».

Con tale atto - espongono i ricorrenti - la responsabilità del ginecologo era stata prospettata sia nella conduzione del parto (nel corso del quale, per sua grave imperizia e negligenza, si produsse l’anossia cerebrale), sia per quanto riguarda il comportamento omissivo posteriore alla nascita, concretatosi nell’incapacità di diagnosticare la sindrome asfittica già in atto e nell’appréstare al neonato le tempestive terapie, quantomeno per ridurne le conseguenze. Si era in particolare dedotto - affermano ancora - che la colpa grave dell’operatore era scolpita nell’istruttoria dell’esaurito giudizio, da cui era emerso che, contrariamente a quanto indicato nella cartella clinica, il parto era stato provocato, aveva prodotto frattura alla clavicola (indice delle difficoltà riscontrate nella fase espusiva e di estrazione, volutamente omesse nel documento ufficiale della sala operatoria) ed aveva causato la sindrome asfittica, per fronteggiare la quale sarebbe stato necessario l’immediato ricovero presso un centro specializzato, mentre il neonato era stato collocato in incubatrice e sottoposto ad ossigenoterapia del tutto inutile; e che l’ipossia anossica era stata gestita con omissione, negligenza ed imperizia nel più assoluto disinteresse del prof. G., medico della G. anche nel periodo di gestazione.

1.1. Col primo motivo è dedotta violazione e falsa applicazione degli articoli 2909 Cc 112, 115 e 116 Cpc, 2336 (ma. recte, 2236) Cc, nonché insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia per avere la corte d’appello ritenuto che i fatti indicati nella comparsa conclusionale depositata in secondo grado (il 26.5.2000) fossero nuovi «perché mai allegati e quindi mai contestati al professionista».

E ciò nonostante che sul punto della loro introduzione nel giudizio di primo grado nel pieno rispetto del principio del contraddittorio si fosse formato il giudicato interne; e benché essi riproducessero quanto già prospettato nella comparsa conclusionale depositata in primo grado sulla base di quanto dedotto con l’atto di citazione, con il quale la responsabilità del professionista era stata chiaramente delineata in relazzazione al comportamento tenuto durante e dopo il parto, e di quanto evidenziato in sede istruttoria.

1.2. Col secondo motivo è denunciata violazione degli articoli 2236 e 2697 Cc, 115 e 116 Cpc, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo per avere la corte ritenuto, dopo avere affermato che la questione fondamentale era costituita dalla presenza di sintomi di anossia per il tempo in cui il neonato era stato sotto le cure e sotto la responsabilità del G. (e cioè dall’inizio del travaglio all’inserimento nell’ incubatrice, non avendo i ricorrenti neppure allegato che egli era stato presente nelle ore successivo), che l’essersi il neonato trovato in condizioni disperate per la gravissima encefalopatia anossica a quindici ore dal parto non provava la responsabilità del G., in quanto sarebbe stato necessario dimostrare che l’alto grado della sindrome asfittica si fosse manifestata già quando, e sino a quando, il neonato era stato sottoposto alle sue cure.

Sostengono i ricorrenti che tanto era invece inequivocamente risultato, essendo stato annotato nella cartella clinica che il feto era “anossico”, essendo pacifico che il neonato era stato posto in incubatrice e sottoposto ad ossigenoterapia,, non essendo controverso che il,G. era stato presente alla nascita, avendo il ctu accertato che la sindrome anossica non poteva essere attribuita a fattori genetici o estranei al parto. Sicché il G. era venuto meno non solo al dovere di annotare nella cartella le cause che avevano determinato la sofferenza anossica e la sua entità, ma anche a quello di assistenza (cui aveva fatto riferimento la stessa corte d’appello), omettendo di effettuare, nonostante la disposta ossigenoterapia, gli opportuni e doverosi controlli.

1.3. Col terzo motivo la sentenza è censurata per violazione e falsa applicazione degli articoli 2236, 2697 e 2727 Cc, nonché per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione laddove aveva ritenuto che le vistose omissioni e contraddizioni della cartella clinica e del certificato di assistenza al parto non potessero assurgere, neppure a livello indiziario, a prova dei fatti causativi del danno lamentato e, in particolare, delle asserite complicazioni che si sarebbero verificate durante il parto. Era stato in tal modo disatteso il principio, enunciato in materia di valutazione dell’esattezza della prestazione medica da Cassazione 12103/00, che le omissioni imputabili al medico nella redazione della cartella clinica rilevano come nesso eziologico presunto, atteso che l’imperfetta compilazione della stessa non può, in via di principio, ridondare in danno di chi vanti un diritto in relazione alla prestazione sanitaria.

La corte aveva invece conferito determinate valenza, per escludere che vi fosse stata anestesia, al fatte che la G. avrebbe affermato che “si sentì uscire il bambino”, prescindendo sia dal rilievo che, a distanza di tempo, ella poteva avere tutt’al più riferito una sensazione, sia dallo state anossico del feto pur riportato in cartella. Ed aveva inoltre, dichiaratamente ma inesplicatamente disatteso una specifica richiesta di prova per testi formulata dai ricorrenti sulla circostanza che la partoriente era stata sottoposta ad anestesia generale, inoltre escludendo che vi fosse in atti la prova che l’attività respiratoria del neonato fosse già alla nascita tale da richiedere il suo immediato ricovero in un centro attrezzato in quante il certificato di assistenza al parto non riporta il “punteggio di Apgar”, così ancora valorizzando in danno della paziente l’omissione del medico.

Da ultimo, la corte, di merito aveva del tutto prescisso dalle valutazioni del ctu e dai dati riportati nella cartella, attestanti la perfetta normalità delle condizioni della G. al momento del ricovero, sicché appariva univoca la conclusione che soltanto la provocazione del parto avrebbe potuto determinare la nascita di un neonato asfittico e con la clavicola fratturata.

Concludono affermando che, quand’anche, in via di mera ipotesi, la patologia asfittica rilevata alla nascita non avesse imposto il trasferimento del neonato in un centro attrezzato, il medico, in quanto consapevole che le sue condizioni erano suscettibili di peggioramento, avrebbe dovuto quantomeno sottoporre il neonato a continue cure, vigilando costantemente sulle sue condizioni.

2. Il controricorrente replica che i ricorrenti inammissibilmente tendono a coinvolgere la corte di legittimità in indagini già compiute in sede di merito e che era stato dal convenuto dimostrato (mediante monografia incorporata nella comparsa conclusionale) che le strazianti, irreversibili condizioni del neonato erano da attribuirsi senza alcun dubbio a fattori genetici.

Afferma in particolare: sul primo motivo, che nella controversia di cui al presente ricorso non vi è stata alcuna istruttoria e che la consulenza tecnica d’ufficio del prof. Zarone è stata svolta in altra causa e non nei confronti del resistente, cui non sono opponibili gli accertamenti svolti nell’altro giudizio (nel quale la domanda nei confronti del costituitosi prof. G. era stata dichiarata inammissibile per difetto di ius postulandi del suo procuratore), sicché non è censurabile la conclusione della corte d’appello in ordine al difetto di prova, che avrebbe dovuto essere appunto offerta nel presente giudizio (e non in quello conclusosi in secondo grado nei confronti della clinica Stabia, come s’è sopra esposto); sul secondo motivo, che non è esigibile - come pretendono i ricorrenti - un obbligo di sorveglianza nelle ore successive al parto da parte.del ginecologo, il cui compito si esaurisce con la nascita del bambino e che era nella specie del tutto estraneo alla struttura della clinica (scelta dalla G.) dove il parto era avvenuto, alla quale soltanto incombeva il dovere di vigilare sulle condizioni del neonato; sul terzo motivo, che non è stata del resto addotta. alcuna prova dagli S.-G., che ne avrebbero avuto interesse, «per tentate di addossare all’ostetrico i compiti non suoi» di cui s’è appena detto.

3. Le censure, che vanno congiuntamente esaminate per la connessione tra le questioni che pongono, sono fondate nei sensi di cui appresso. A pagina 68 della sentenza gravata, la corte d’appello conclude che la domanda andava respinta «per mancanza di prova di una responsabilità professionale dell’appellante (G. n.d.e.) nella determinazione del gravissimo evento lesivo riportato dal piccolo S. Giuseppe» sulla scorta dei rilievi che non era stato provato che la situazione era già alla nascita così grave da dover indurre il ginecologo a disporre un trasferimento immediato del neonato in quanto «le sindromi asfittiche neonatali sono frequenti e si risolvono di norma con l’ossigenoterapia» (pag. 60) e che sarebbe stato dunque necessario dimostrare che la sindrome asfittica si fosse manifestata in alto grado «già quando e sino a quando il neonato era stato sottoposto alle cure del G. stesso (non tanto come ginecologo ma soprattutto quale medico, al di là, quindi, della sua specifica specializzazione professionale)» (pag. 61).

Va subito detto che, in primo grado, la causa era stata decisa sulla base dei documenti prodotti, fra i quali la consulenza tecnica d’ufficio effettuata in altro giudizio, la quale (come osservato dal giudice di prime cure che ne aveva condiviso le conclusioni) aveva assolutamente escluso, in esito alle qualificate indagini fatte eseguire in merito dal consulente d’ufficio, che la patologia fosse collegabile a fattori genetici (come era stato prospettato dai consulenti di parte del G., costituitosi in quel giudizio) ed ha concluso nel senso della ricollegabilità eziologica della gravissima patologia che aveva poi afflitto il minore (tetraparesi spastica e gravissimo deficit intellettivo da microcefalia) al ritardo di quindici /diciassette ore col quale ne era stato disposto il ricovero in un centro clinico attrezzato, avvenuto quando il danno prodottosi al cervello per l’anossia da cui il neonato era affetto alla nascita era ormai divenuto irreversibile.

La conclusione del giudice di prime cure avrebbe potuto essere disattesa dal giudice di secondo grado in relazione alle critiche mosse dal G. alla sentenza - o negando in tutto o in parte la valenza probatoria dei documenti prodotti al fine della dimostrazione dei fatti posti dagli attori a fondamento della domanda (e va qui chiarito che il punto della ritualità della produzione può essere bensì incontroverso ma non suscettibile di formazione del giudicato in senso tecnico), ovvero ritenendo che sulla base degli stessi non potesse affermarsi la responsabilità del G.: e ciò o per difetto di nesso eziologico tra il comportamento del medico e il danno verificatosi, o per mancanza di colpa professionale nel caso in cui rapporto causale vi fosse.

La via prescelta dalla corte d’appello è stata quella di non negare che dalla cartella clinica risultasse che il feto era anossico alla nascita, che era stato infatti posto subito in incubatrice e sottoposto ad ossigenoterapia, che non erano stati dimostrati fattori patologici genetici, che dopo quindici/diciassette ore la situazione era divenuta irreversibile, che vi fossero contrasti tra cartella clinica e certificato di assistenza al parto, che le annotazioni nella cartella clinica erano fortemente carenti, che non vi erano risultanze di sorta sull’indice di Apgar (fondamentale nell’esprimere le condizioni complessive del neonato alla nascita), che nessuna cura ulteriore (rispetto alla ossigenoterapia) era stata somministrata al neonato fino all’arrivo del pediatra nella mattinata successiva. È tata, invece, quella di ritenere che non fosse stato provato che la situazione era già alla nascita così grave da dover indurre il ginecologo a disporre un trasferimento immediato del neonato. E ciò:

a) senza sottoporre ad autonoma critica (ma solo pedissequamente riportando le diverse considerazioni delle difese tecniche svoltesi in causa) le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio, effettuata bensì in altro giudizio ma sulla quale, in esito alla sua produzione, si era certamente instaurato il contraddittorio in quello presente e le cui risultanze la corte d’appello aveva ritenuto opponibili al (ma, recte, valutabili anche nei confronti del) G. (pagine 39 e 40 della sentenza);

b) senza chiarire quale prova ulteriore (che non fosse stata richiesta) avrebbe potuto essere data dagli attori in primo grado rispetto a quelle documentali offerte; e) negando che le pur riconosciute «vistose omissioni e contraddizioni sia della cartella clinica che del certificato di assistenza al parto» potessero avere valore anche solo meramente indiziario delle difficoltà del parto (pag. 61), benché la cartella clinica costituisca un fondamentale documento di cui compete esclusivamente al medico la puntuale formazione, sulla quale il paziente non può in alcun modo incidere;

d) senza aver esaminato se - pure al di là delle modalità del parto: distocico o meno, pilotato o no, provocato o non provocato, con o senza anestesia; circostanze queste di valenza (solo) sintomatica delle possibili cause della sindrome asfittica e non potute accertare con certezza per la carenza e la contraddittorietà della documentazione clinica) - in relazione alle condizioni di un neonato l’anossico, quand’anche in ipotesi non tanto allarmanti da giustificare il trasferimento immediato, al ginecologo (tra l’altro, di fiducia della partoriente, che ne aveva avuto cura anche durante la gestazione e che per questo era intervenuto al parto) incombesse comunque l’obbligo di adottare o sollecitare interventi immediati, ovvero di seguire lo sviluppo della situazione con l’attenzione che il caso evidentemente richiedeva, quand’anche egli non fosse inserito nella struttura sanitaria della clinica.

3.1. Sui punti sub “b” e “c” soccorrono le considerazioni di Cassazione 12103/00 e su quello sub “d” i rilievi di Cassazione 6318/00. Con la prima delle citate sentenze, in fattispecie nella quale si poneva il problema degli effetti della impossibilità della prova della ipotetica causa da sola sufficiente a provocare l’evento (stato morboso indipendente, non potuto accertare a causa della imperfetta tenuta della cartella clinica), si è affermato che la valutazione dell’esattezza della prestazione medica (nella specie ospedaliera e di natura anch’essa contrattuale secondo quanto statuito da Cassazione, 589/99) concerne anche la regolare tenuta dalla cartella clinica e che, ove dalla sua imperfetta compilazione, costituente inadempimento di un’obbligazione strumentale, derivi l’impossibilità di trarre utili elementi di valutazione in ordine all’accertamento della causa dell’evento, le conseguenze non possono in via di principio ridondare in danno ... del creditore della prestazione sanitaria. Si statuì, più specificamente, che «la possibilità, pur rigorosamente prospettata sotto il profilo scientifico, che la morte della persona ricoverata presso una struttura sanitaria possa essere intervenuta per altre, ipotetiche cause patologiche, diverse da quelle diagnosticate ed inadeguatamente trattate, che non sia stato tuttavia possibile accertare neppure dopo il decesso in ragione della difettosa tenuta della cartella clinica o della mancanza di adeguati riscontri diagnostici (anche autoptici), non vale ad escludere la sussistenza di nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici in relazione alla patologia accertata e la morte, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla».

In quella occasione la corte di merito aveva ritenuto che il decesso della paziente ricoverata potesse essere stato conseguenza delle accertate omissioni negli ultimi giorni in ordine agli accertamenti medici da compiere e dei conseguenti interventi da adottare, ma aveva escluso che sussistesse la prova del nesso causale tra condotta omissiva ed evento in quanto, essendo lacunosa la cartella clinica e non essendo stati disposti gli accertamenti clinici necessari, i consulenti non avevano potuto escludere che la morte fosse sopravvenuta per cause autonome e non collegate allo stato patologico preesistente.

Osservò la corte di legittimità che, se quella impostazione fosse stata corretta, la prova della responsabilità professionale del medico (e/o dell’ospedale) da omissione colposa sarebbe di fatto preclusa tutte le volte che, per la mancanza dei dati che lo stesso medico avrebbe dovuto rilevare e degli accertamenti che egli stesso (e/o la struttura ospedaliera) avrebbe dovuto compiere, non possa poi escludersi che la morte sia in ipotesi derivata da cause indipendenti dalla accertata patologia, pur se quest’ultima era in se stessa idonea a provocarla senza interventi adeguati. E si enunciò il sopra trascritto principio di diritto, sintomatico di una linea evolutiva in ordine alla distribuzione dell’onere della prova che, fermi i principi, va sempre più accentuando la considerazione della “vicinanza alla prova” (nel senso,di effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla), consentendo un più frequente ricorso alle presunzioni tutte le volte che la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato. Alla luce di quanto sopra, l’inespicata affermazione della corte d’appello che le vistose carenze della cartella clinica non potessero avere neppure valore indiziario delle difficoltà del parto, a sua volta incidente sul possibile stato di seria sofferenza del feto, appare quanto meno apodittica.

Con la seconda delle menzionate sentenze (Cassazione 6318/00), resa in fattispecie nella quale si trattava di stabilire se il rapporto di natura privatistica instaurato tra il ginecologo e la paziente venisse in rilievo quand’anche il ricovero per il parto fosse avvenuto presso una struttura pubblica ospedaliera dove il medico prestava servizio e dove mancava un cardiotografo, si è affermato che, «benché non possano certo essergli imputate, in quanto medico di fiducia, le carenze della struttura pubblica presso la quale egli svolge le funzioni di medico ospedaliero né le condotte colpose di altri dipendenti dell’ente, connotato da regole organizzative insensibili al rapporto privatistico tra medico e paziente, egli ha tuttavia l’obbligo sia di informare il paziente dell’eventuale, anche solo contingente, inadeguatezza della struttura nella quale è inserito e presso la quale il paziente sia ricoverato, tanto più se la scelta sia effettuata in ragione proprio dell’inserimento del medico di fiducia in quella struttura pubblica, sia di prestare al paziente ogni attenzione e cura che non siano assolutamente incompatibili con lo svolgimento delle proprie mansioni di pubblico dipendente».

La valenza del principio anche nel caso in esame, concerne il punto della persistenza del dovere del medico che abbia partecipato all’intervento in ragione di un rapporto professionale diretto con il paziente, di adoperarsi comunque per il raggiungimento del risultato al di là della sua estraneità alla insufficienze della struttura in cui abbia operato, ed anzi tenendone conto al fine di conformare la propria condotta al raggiungimento dell’obiettivo costituito dall’esito favorevole dell’intervento.

3.2. Sul punto “d” che costituiva la sostanza dell’accertamento e delle valutazioni demandate al giudice del merito -va poi soggiunto che la corte d’appello ha ritenuto, tra gli altri, totalmente nuovi perché mai allegati e, quindi, mai contestati al professionista e, comunque, sforniti di qualsiasi supporto probatorio (pag. 52 della sentenza) i seguenti “fatti”, così espressamente qualificandoli, addebitati dagli S./G. al G. ed integranti a loro avviso «l’inadempimento ... per mancata diligenza», secondo quanto già rilevato «nella comparsa conclusionale di primo grado e nelle incisive note del prof. M.» (pag. 50):

- non aver attivato nulla, pur dopo una diagnosi di anossia cerebrale annotata nella cartella clinica;

- aver atteso «nella più completa e censurabile inerzia, il mattino successivo al parto, l’intervento di altro medico, il prof. Mxxxxx», che «rilevò le evidenti gravissime condizioni del neonato, sfuggite al G., che aveva invece l’obbligo morale e giuridico di attivarsi al momento della nascita»;

- avere omesso «così di attuare oppure di attivare una pronta rianimazione con adeguate provvidenze: laringoscopia, intubazione, ventilazione, somministrazione di alcalinizzanti, etc.» (pag. 51).

In ragione di quella qualificazione (fatti nuovi), peraltro erronea come appresso si dirà, la corte d’appello ha completamente omesso ogni apprezzamento della condotta del ginecologo alla stregua di possibili comportamenti alternativi al trasferimento immediate del neonato in una struttura attrezzata e che avrebbero in ipotesi potuto eliminare o attenuare le conseguenze dell’anossia rilevata alla nascita.

Ma nell’atto di citazione introduttivo del presente giudizio (e riportato pedissequamente alle pagine 46, 47, 48 e 49 della sentenza gravata anche nella parte in cui riproduceva quello col quale era stato promosso l’altro giudizio) era testualmente affermato:

- che il neonato «era stato trattenuto nella casa si cura per oltre venti ore senza che nessuno, dal ginecologo ai medici della Stabia, suggerisse anche solo l’opportunità di una valida ed adeguata terapia per far fronte all’anossia cerebrale o porre rimedio all’ipossia, e che la loro colpa era consistita nel fatto che «non avevano saputo prevenire e tempestivamente curare l’ipossia» (pag. 47 della sentenza);

- che la responsabilità del medico andava ravvisata anche in riferimento al “tempo immediatamente successivo per il modo di come (cosi testualmente) fu gestita l’ipossia anossica insorta durante il parto» (pag. 48);

- che, secondo quanto ritenuto dal prof. Z., «la condizione di ipossia cerebrale e di squilibrio elettrolitico e metabolico, che ad essa fatalmente si accompagna, non congruamente trattata per quindici ore, era divenuta fattore eziologico necessario e sufficiente a determinare, di per sé sola, una encefalopatia con danni anatomici irreversibili, bene in grado di spiegare lo stato clinico evidenziato nel piccolo S.».

Risulta dunque per tabulas che quanto dalla corte d’appello escluso rientrasse invece, a pieno titolo, nel thema decidendum, benché in atto di citazione non fossero testualmente indicati i possibili rimedi immediati che avrebbero potuto, in ipotesi, essere adottati (laringoscopia, intubazione, ventilazione, etc.); i quali non integrano certo i fatti costitutivi della pretesa risarcitoria (fondata sull’addotto inadempimento del medico), ma costituiscono null’altro che parametri di valutazione del suo comportamento, che si assumeva connotato da colpa per non aver adottato i rimedi cui sarebbe stato possibile fare ricorso.

Ora, che il neonato non fosse stato intubato è certo. Che avrebbe dovuto esserlo dallo stesso ginecologo in relazione alla situazione nella quale versava ed all’ambito dei doveri contrattuali che sul medico incombevano, o essere sorvegliato dal medesimo in vista di un’intubazione che poteva palesarsi necessaria, ovvero essere immediatamente trasferito su sua disposizione, era appunto da decidere anche in base ai criteri di distribuzione dell’onere della prova in campo contrattuale, secondo i quali compete al medico -tutte le volte che il caso affidatogli non sia di particolare complessità - provare che l’insuccesso del suo intervento è stato incolpevole e non al paziente dimostrarne la colpa (come pure la corte d’appello aveva osservato nell’ambito della lunga esposizione dei principi in materia di responsabilità del medico, da pag. 55 a pag. 58 della sentenza).

Né la sentenza ha chiarito - ed avrebbe imprescindibilmente dovuto in relazione alle posizioni assunte dalle parti - quale fosse il limite del dovere del ginecologo, legato alla partoriente da un risalente rapporto privatistico: se, cioè, una volta che il bambino era venuto alla luce, egli potesse non interessarsi più della sua sorte, lasciandolo senz’altro alle cure della struttura della clinica privata cui era estraneo, quali che fossero condizione del neonato ed organizzazione sanitaria della casa di cura; ovvero se avrebbe dovuto occuparsene in relazione alla situazione data, costituita dalle condizioni del neonato, dalla loro possibile evoluzione in peius (sulla scorta di un grado di prevedibilità diligentemente valutato alla stregua delle cognizioni specialistiche e della necessaria prudenza), dai presidi medici che la struttura sanitaria era, in concreto, in grado di offrire.

A tale fondamentale quesito la corte di merito non dà alcuna risposta, limitandosi ad osservare che sarebbe stato necessario provare che la sindrome asfittica si era manifestata “in alto grado” già quando e sino a quando il neonato era stato sottoposto alle cure del G. stesso (non tanto come ginecologo ma soprattutto quale medico, al di là, quindi, della sua specifica specializzazione professionale (a pag. 61); ma, per un verso, non considerando che il feto era anossico e non facendo corretta applicazione dei principi in materia di conseguenze processuali, sul piano probatorio, delle insufficienti annotazioni nella cartella clinica e, per altro verso, non stabilendo quale fosse il limite dello spazio temporale per il quale il neonato doveva considerarsi sottoposto (anche) alle cure del G..

4. La decisione è dunque inficiata sia da errori di diritto, sia da gravi contraddittorietà ed insufficienze di motivazione.

Il ricorso va conseguentemente accolto per quanto di ragione, assorbito ogni ulteriore profilo, e la sentenza cassata con rinvio ad altra sezione della stessa corte di appello, che deciderà sull’appello nel rispetto degli enunciati principi e che provvederà anche a regolare le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.

Così deciso in Roma il 23 maggio 2003.

 

Documento pubblicato su ForoEuropeo - il portale del giurista - www.foroeuropeo.it