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Omicidio aggravato - Responso peritale non vincola ilgiudice - valutazione dei risultati peritali e corrispondente obbligo di motivazione

Omicidio aggravato - Responso peritale non vincola ilgiudice - valutazione dei risultati peritali e corrispondente obbligo di motivazione -liberta' di apprezzamento del giudice temperata dall’obbligo di motivazione

Omicidio aggravato - Responso peritale non vincola il giudice - valutazione dei risultati peritali e corrispondente obbligo di motivazione - libertà di apprezzamento del giudice temperata dall’obbligo di motivazione (Cassazione – Sezione prima penale (pp) – sentenza 8-28 maggio 2003, n. 23461)

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 23 marzo 2001, il Gup presso il Tribunale di Genova, in esito a un giudizio celebrato con il rito abbreviato, assolveva Dxxxxxxxxxx Stefano dal delitto di omicidio aggravato in danno della madre Petrucci Silvana avvenuto nella stessa città la mattina del 22 ottobre 1999 riconoscendolo incapace di intendere e di volere al momento del fatto e lo condannava alla pena di otto mesi di reclusione, con la sospensione condizionale, in relazione al delitto di simulazione del reato, costituita dalla falsa denuncia di un furto, originariamente aggravato dalla finalità di conseguire l’impunità dal matricidio.

Secondo la ricostruzione fatta dal Gup, la donna era stata uccisa a martellate e a coltellate dal figlio per futili motivi, tali dovendo considerarsi quelli di aver fatto credere alla vittima di aver discusso una falsa tesi di laurea e di non rivelarle la vera situazione dei suoi studi. Prima di commettere il delitto, il giovane aveva trascorso una nottata movimentata, vagabondando da un locale all’altro in compagnia della fidanzata, acquistando cocaina, consumando un rapporto sessuale con la ragazza, andando poi a ballare da solo in una discoteca del centro e facendo infine colazione in un bar per poi rientrare a casa. Dopo aver ucciso la madre, aveva simulato le tracce di una rapina prelevando i soldi e i gioielli della donna, si era liberato del giubbotto sporco di sangue e dei gioielli trattenendo il denaro ed era tornato al bar. Quindi era ritornato a casa, aveva inscenato la scoperta del delitto e aveva chiamato il 113, riferendo alla polizia che il delitto era probabilmente opera di rapinatori che gli avevano sottratto una settimana prima te chiavi di casa dall’interno della macchina, furto che egli aveva prontamente denunciato ai carabinieri.

Il problema centrale del processo era costituito dalla necessità di verificare la sussistenza della capacità di intendere e di volere dell’imputato al momento del fatto, ciò che aveva indotto il Pm ad affidare al dr. Mongodi una consulenza di parte e il Gup, in sede di udienza preliminare, a disporre una perizia psichiatrica d’ufficio di carattere collegiale.

La sentenza faceva proprie pressoché interamente le valutazioni espresse dalla perizia di ufficio (giudicata “approfondita, pienamente coerente, senza alcuna contraddizione”), che aveva concluso, in contrasto con gli esiti della consulenza tecnica disposta dal Pm, che il Dxxxxxxxxxx, al momento dei fatti per cui era imputato, era “affetto da una psicosi confusionale acuta, caratterizzata da una grave compromissione della coscienza dell’Io” e che tale psicosi si era manifestata all’improvviso in presenza di una situazione psicologicamente intollerabile, sulla base di una personalità predisposta, connotata da disturbo istrionico e da tratti narcisistici. (p. 55).

Con la sentenza ora impugnata (che è del 23 gennaio 2002), la Corte di Assise di appello di Genova - a seguito dell’impugnazione proposta dal Pm, dal Pg e dallo stesso imputato - ribaltava in parte le conclusioni espresse dal primo giudice, dichiarando il Dxxxxxxxxxx colpevole del delitto di omicidio volontario, con tutte le aggravanti contestate (premeditazione, futili motivi, rapporto di parentela) e di simulazione di reato aggravata dal nesso teleologico e lo condannava alla pena di trent’anni di reclusione. Alla condanna seguivano le pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dello stato di interdizione legale per l’intera durata della pena.

Secondo i giudici di secondo grado, i periti di ufficio, sposando in modo aprioristico la tesi del raptus, avevano ignorato, se non addirittura travisato, alcuni tra i fatti più importanti del processo, dimostrando un distacco preoccupante dai reali accadimenti. Il collegio peritale, in particolare, non aveva tenuto conto di importanti gesti di autonomia dell’imputato, capaci di alterare non poco il quadro di totale dipendenza dalla madre come il perseguimento di un modello di tipo sportivo (il nuoto) tutt’altro che “nettamente fallito”, l’aver svolto di nascosto il servizio militare, l’essersi trovato un lavoro presso una ditta informatica, l’aver sperimentato una breve convivenza con la fidanzata in casa di lei.

I periti di ufficio - proseguiva la corte - avevano elaborato la tesi della pseudologia fantastica e della menzogna patologica, abbracciando l’idea sicura di trovarsi davanti a un mentitore patologico, senza riscontrare alcun altro episodio che quello della falsa carriera universitaria vantata peraltro solo col suo più immediato entourage (la madre, la fidanzata e alcuni conoscenti).

Seguendo questa scia, i periti avevano del tutto ignorato nella loro ricostruzione un episodio assolutamente centrale come quello della falsa denunzia del furto delle chiavi di cosa, escludendo qualunque suo legame con l’omicidio, insistendo sulla tesi del corto circuito patologico che aveva per pochi momenti reso incapace l’imputato, che aveva ucciso la madre in un impeto incontrollato ed incontrollabile, senza rendersene conto, facendo leva sulla forza dirompente di una frase pronunciata a suo dire dalla madre (È arrivato il gran giorno, festeggiamo..), che niente provava peraltro che fosse stata effettivamente pronunciata (p. 92).

La serrata critica dei giudici investiva anche il profilo squisitamente medico-legale della perizia di ufficio, che non era stata capace di ribattere praticamente a nessuna delle censure rivolte dal consulente tecnico del Pm: il quale aveva escluso che il Dxxxxxxxxxx fosse affetto da un disturbo istrionico della personalità inquadrabile nosograficamente difettando oltretutto prove concrete di comportamenti sintomatici di questa malattia (come pure della pseudologia fantastica e della menzogna patologica asseritamene rilevata dai periti) e di una condotta di dissociazione. Il dottor Mongoli non aveva esitato a contestare che ci fossero state nel Dxxxxxxxxxx manifestazioni nevrotiche gravi e fosse presente in lui qualche tratto psicotico.

Quanto all’idea dei periti che l’imputato fosse stato colpito da uno stato crepuscolare e/o confusionale e/o reazione acuta da stress che gli aveva fatto perdere il senso di proprietà dei propri atti di coscienza e delle proprie azioni, la corte evidenziava, in contrasto con la loro ricostruzione, che i comportamenti tenuti prima durante e dopo il delitto erano stati perfettamente lucidi, lineari e coerenti, specie se riferiti alla vita e alle abitudini di un giovane di 24 anni e riguardati in funzione dello scopo perseguito che era di dar corpo ad una precisa strategia difensiva facendosi “notare e riconoscere altrove” (p. 102). La stessa dinamica del delitto (caratterizzata dalla doppia ricerca di un’arma idonea – prima il martello e poi un coltello da arrosto – e da un triplice assalto alla madre – colpita una prima volta nel letto, poi in cucina e da ultimo sul terrazzo), lungi dal far pensare ad allucinazioni e a un distacco persistente della realtà, appariva concentrata nell’esecuzione di “azioni logiche, adeguatamente finalizzate all’obiettivo” avuto di mira (p. 104). Così come lucida fredda logica coerente e “astuta” si presentava la messa in scena della rapina (perpetrata mediante l’uso delle chiavi di casa rubate e oggetto di una denunzia sicuramente falsa presentata ai Carabinieri sette giorni prima) e l’intera condotta serbata successivamente al delitto (caratterizzata da “callidità, prontezza e improntitudine”: p. 110), compreso il racconto fatto al magistrato inquirente (“vigile e per nulla disposto a lasciarsi imbeccare”: p. 109).

Pacifica, secondo la Corte di merito, era anche la sussistenza dell’aggravante della premeditazione, perché la sua condotta nella notte del delitto “durante la quale ogni suo spostamento o atteggiamento era inteso a obiettivare una sua presenza lontano da casa protrattasi senza interruzione fino al momento della “scoperta” del delitto ed era “frutto di un progetto meditato lucidamente e la cui attuazione era iniziata proprio con la falsa denuncia” (p. 115). Nel momento in cui aveva presentato la falsa denuncia di furto delle chiavi di casa, il Dxxxxxxxxxx aveva progettato di uccidere la madre: un proposito, questo, che aveva covato dentro di sé per almeno una settimana, senza mai tradirsi, senza mai deflettere, seguendo una strategia lucida e precisa (p. 116).

2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia del Dxxxxxxxxxx, che, nei due motivi attraverso i quali si articola l’atto di impugnazione, si duole, sotto il profilo della violazione della legge penale sostanziale e processuale e del vizio di motivazione, che la Corte di assise di appello abbia ritenuto insussistente il vizio totale di mente del suo assistito ed abbia affermato altresì la sussistenza dell’aggravante della premeditazione dell’omicidio.

La difesa contesta innanzitutto le valutazioni di aperture dei giudici di appello, che, mostrando di preferire le conclusioni tecnico-giuridiche rassegnate dal consulente tecnico del Pm rispetto a quelle dei periti nominati di ufficio, avevano accusato questi ultimi di inquietante superficialità per non aver valorizzato i tentativi dell’imputato di affermarsi in settori estranei alla dipendenza della madre (perseguendo modelli di tipo sportivo e conseguendo anche dei buoni risultati, compiendo importanti gesti ei autonomia e di emancipazione, come testimonierebbero le vicende del servizio militare, il reperimento di un posto di lavoro e la breve convivenza con la fidanzata), limitandosi a recepire una mera petizione di principio del consulente tecnico del Pm, arrogandosi un potere decisorio svincolato da qualsivoglia effettivo parametro motivazionale.

L’“arroganza” motivazionale della sentenza investe – ad avviso del difensore – anche la tesi centrale della perizia di ufficio (quella della cosiddetta “menzogna patologica”), che viene smantellata, sovrapponendo ad essa una conclusione di segno opposto senza indicare le ragioni di carattere tecnico che la suffragano. I giudici avevano particolarmente accentuato la menzogna dell’imputato che, nel corso dell’interrogatorio reso davanti al Pm, dopo aver confessato l’omicidio della madre, aveva riferito che gli mancavano sette esami alla laurea in scienza dell’informazione anziché dieci, senza verificare se e in che modo una simile bugia potesse correlarsi alla patologia evidenziata dai periti. Inoltre, avevano rovesciato immotivatamente la generale presunzione di affidabilità dei periti circa la confusa situazione psichica del Dxxxxxxxxxx nel momento della reazione violenta nei confronti della madre, sostituendo ad essa una incontrollata sensazione personale: i giudici di appello, infatti, avevano ritenuto di opporre alla frase profferita dalla vittima al falso annuncio del figlio che la discussione della tesi di laurea sarebbe dovuta avvenire quello stesso pomeriggio (È arrivato il gran giorno, oggi finalmente festeggiamo) una contortesi aprioristica ed immotivata, volta a revocare in dubbio la veridicità delle affermazioni dell’imputato, ipotizzando il suo ingresso di soppiatto nell’abitazione, e a criticare il “profilo squisitamente medico” della perizia, giudicato tout court non convincente. Allo stesso modo non apparivano condivisibili, perché mancanti di logica motivazione, le considerazioni svolte sulle “dinamiche infantili edipiche” come inidonee a costituire la base del “corto circuito” descritto dai periti.

Peraltro – proseguiva la difesa del ricorrente – la successiva esposizione della sentenza era un condensato delle critiche mosse alla perizia di ufficio dal consulente tecnico del Pm, con un’acritica ed aprioristica adesione alle medesime, senza che fosse dato di capire perché non erano ravvisabili nel comportamento del Dxxxxxxxxxx i sintomi indicatori di un disturbo istrionico della personalità come avevano affermato invece i periti, che avevano evidenziato l’esistenza di manifestazioni “conclamate” di un disturbo dissociativo. La corte aveva ritenuto apoditticamente e inaccettabilmente lucidi e lineari i comportamenti tenuti a cavallo del delitto dall’imputato, che decise di simulare il furto delle chiavi di casa e andò a denunziarlo ai carabinieri, senza però – continuava ad osservare la difesa – raccontarlo in giro e alle persone a lui vicine; circostanza, questa, spiegabilissima solo come espressione per così dire “necessitata” della patologia di cui era affetto, evidenziata dai periti di ufficio.

La sentenza impugnata era carente di motivazione – come si sostiene nel secondo motivo di ricorso – anche nella parte in cui sviluppava laconiche osservazioni circa la sussistenza dell’aggravante della premeditazione, ancorata alla pretesa volontà dell’imputato di “porsi in mostra” la sera precedente all’omicidio.

Con motivi nuovi depositati proprio a ridosso dell’odierno dibattimento, la difesa del ricorrente insisteva sulla insussistenza dell’aggravante della premeditazione, osservando che l’argomento posto dai giudici a fondamento della sua sussistenza era stato anche “riciclato” come argomento per escludere la concessione delle circostanze attenuanti generiche, attraverso un discutibile modus operandi che lo aveva indotto a non prendere in considerazione elementi meritevoli di considerazione, come la giovane età dell’imputato e le sue peculiari condizioni psichiche. Allo stesso modo appariva censurabile la pretesa di utilizzare la ritenuta sussistenza dell’aggravante dei futili motivi come elemento ostativo alla concessione delle invocate circostanze attenuanti generiche, posto che la effettiva situazione universitaria del Dxxxxxxxxxx aveva costituto la ragione determinante dell’azione omicidiaria.

Motivi della decisione

L’impugnazione del Dxxxxxxxxxx è sostanzialmente imperniata sul mancato assolvimento da parte del giudice di appello dell’obbligo della motivazione in un settore come è quello dell’imputabilità dell’autore del reato, la cui delicatezza, correlata al tecnicismo dell’approccio interpretativo, imporrebbe al giudice di merito il ricorso a strumenti di valutazione (leggi: perizia) che non potrebbero prescindere dall’apporto di esperti. Soprattutto quando, come nel caso in esame, il giudice di appello ha completamente ribaltato le conclusioni cui era pervenuto il giudice di primo grado, che aveva fatto proprie le valutazioni del collegio peritale.

È bene dir subito che il responso peritale non è vincolante per il giudice, anche se, ove maggiore è la complessità dell’accertamento tecnico-scientifico, maggiore dovrebbe essere il “tasso di aderenza” alle relative risultanze.

Le posizioni della giurisprudenza in punto di valutazione dei risultati peritali e corrispondente obbligo di motivazione, pur diversificate, sono tutte espressive del riconoscimento della piena libertà di apprezzamento del giudice, temperata dall’obbligo di motivazione. La giurisprudenza di questa Corte, in particolare, è orientata nel senso che il giudice, qualora non ritenga attendibili le conclusioni del perito sottoposte a motivata critica dalle parti o da una di esse, è tenuto a dare logica e adeguata ragione del suo dissenso, fornendo un’analitica motivazione tecnico-scientifica del caso oggetto del suo esame e dimostrando così di essersi soffermato sulla tesi che ha ritenuto di non dover seguire (Cassazione, sezione prima, 24 maggio 2000, Stevanin, in Ced Cassazione 216613, dove si evidenzia la necessità che il giudice tenga costantemente presenti, nell’effettuare tale operazione, le altre risultanze processuali, confrontando con queste la tesi recepita). Partendo da tale dato, è di tutta evidenza che il giudice, ove disattenda il merito tecnico di una perizia d’ufficio, non è affatto tenuto a nominare un altro perito, potendo motivare correttamente le ragioni del dissenso in altro modo (cfr., in ogni caso, sul punto p. 110 della sentenza impugnata).

Peraltro, la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cassazione, sezione sesta, 1 febbraio 1995, Albero, in Ced Cassazione 200996; Id, sezione prima, 13 ottobre 1993, Pelliccia, in Cassazione penale. mass. ann. 1995, p. 11547, m. 952) è prevalentemente orientata ad attribuire valore probatorio alle dichiarazioni rese dal consulente tecnico di parte ai sensi dell’articolo 501 Cpp, sul presupposto – modellato sulla figura del “testimone esperto”, export whitness, degli ordinamento anglosassoni – che il consulente tecnico partecipa al dibattimento in una posizione di soggetto di prova, cioè di soggetto che fornisce al giudice elementi idonei alla decisione.

Ciò premesso, avendo la Corte di assise di appello di Genova dimostrato in modo assolutamente lampante e inconfutabile la fallacia delle conclusioni peritali sulla scorta delle argomentazioni puntuali e pertinenti del consulente tecnico del Pm, il ricorso proposto non può ritenersi fondato.

Contrariamente a quanto si afferma nel ricorso, infatti, il consulente tecnico del Pm e il giudice di appello che ha seguito e fatto proprio il suo ragionamento non hanno affatto respinto la tesi centrale elaborata dai periti d’ufficio (della pseudologia fantastica, della menzogna patologica, del disturbo dissociativo, della psicosi confusionale e crepuscolare e di una reazione a corto circuito di carattere psicotico transuente) sulla base di affermazioni apodittiche o personalistiche o arroganti o inquietanti o di mere petizioni di principio come si sostiene, bensì percorrendo un iter motivazionale lineare e coerente con l’insieme dei vissuti dell’imputato e con la dinamica del fatto omicidiario addebitatogli, offrendo una puntuale e convincente spiegazione del collegamento esistente tra la falsa denunzia del furto delle chiavi di casa e l’uccisione della madre, a conferma e riprova dell’esistenza della premeditazione del delitto principale.

Non si fa qui questione di superficialità della valutazione dei periti e nemmeno di preponderatezza dell’approccio “clinico-psichiatrico” da loro operato rispetto a quello “medico-legale” (vedi p. 89). La critica di fondo del convincimento dei periti investe il loro tentativo di inquadrare il problema psichico dell’imputato (che presenta indiscutibili tratti narcisistici della p personalità e un nucleo patologico nel rapporto immaturo con la madre, reciprocamente invadente e vischioso) in un’area nosografia e clinic specifica, quale è quella del mentitore e del manipolatore patologico, malgrado l’assenza di idonei elementi di valenza in questa direzione, ma soprattutto senza descrivere il rapporto di tale asserito stato mentale con la condotta criminosa oggettivamente realizzata. L’incapacità di intendere e di volere del ricorrente, insomma, viene asserita ma non spiegata dai periti con riferimento al fatto-reato commesso.

I periti hanno infatti insistito sulla tesi della reazione omicida da raptus causato dalla paura del crollo dell’ideale dell’Io e del Super Io materno invasivo ed arcaico (essere come sua madre voleva che fosse), come una catastrofe sfuggita ad ogni controllo, focalizzando il discorso sul rapporto fortemente critico vissuto dal ricorrente, figlio unico, con la madre separata che lo condizionava in modo soffocante e travolgente riversando su di lui istanze compensatorie, al punto di proporre una rieducazione sul piano dinamico del matricidio oresteo (Oreste che uccide la madre per allontanare la propria intollerabile causa di sofferenza), innestatasi su uno stato di coscienza confusionale, tale da scatenare una bouffée psicotica acuta.

In questo contesto però i periti hanno mostrato di ignorare o, in ogni caso, di sottovalutare fatti e gesti dell’imputato che il consulente tecnico del Pm e la corte di merito hanno considerato invece giustamente importanti ai fini di una corretta ricostruzione della vicenda reale, perché inducono ad esaminare sotto una ottica diversa il comportamento dell’imputato, proprio alla luce dei fatti concreti succedutisi, prima, durante e dopo l’omicidio (p. 101 ss).

Un ruolo “assolutamente centrale” nella dinamica della vicenda riveste senza ombra di dubbio la denuncia pacificamente falsa del furto delle chiavi di casa presentata dall’imputato ai Carabinieri di Carignano sette giorni prima dell’omicidio, e che i periti hanno completamente ignorato (p. 90) escludendo qualunque suo collegamento con il successivo omicidio e che invece non ha altra spiegazione che quella di essere finalizzata proprio alla sua perpetuazione (p. 113.114). La denuncia del falso furto delle chiavi di casa costituisce, come sottolinea la sentenza impugnata, la “prova del nove” della piena capacità di intendere e di volere dell’imputato e della premeditazione dell’omicidio (p. 110).

L’idea del Super Io arcaico ed onnipotente (la totale dipendenza del ricorrente della madre teorizzata dai periti) subisce poi un duro contraccolpo ove si considerino i tre importanti gesti di autonomia compiuti dal Dxxxxxxxxxx eludendo l’avversione materna, pure rimarcati nella sentenza (l’espletamento del servizio militare, la ricerca di un posto di lavoro presso una ditta informatica, la breve convivenza con la fidanzata) (p. 87). Allo stesso modo è difficile disconoscere che il ricorrente dipinto dai periti come un mentitore patologico, abbia detto in realtà una sola bugia (quella relativa allo stato dei suoi studi universitari) (p. 88) il che non appare certo sufficiente – come hanno correttamente sottolineato i giudici – a dare per certo un disturbo “costituzionale” frutto di dissociazione e/o di stato crepuscolare e/o di stato confusionale.

Tutt’altro che “caotici e confusi” sono inoltre i comportamenti che precedono la commissione dell’omicidio, che testimoniano al contrario il lavoro accurato, meticoloso, costante e “con una qualche dose di astuzia” dell’imputato a “tirar tardi” per costruirsi un alibi (p. 103), facendosi notare e riconoscere “altrove”, il più possibile fuori casa prima delle sei del mattino (ora del delitto) (p. 102).

Ma ciò che appare determinante dell’imputabilità del ricorrente sono le modalità di esecuzione dell’omicidio e la sua condotta immediatamente successiva ad esso.

La corte di merito osserva correttamente che non c’è prova alcuna che la madre abbia pronunciata la frase (dirompente, secondo i periti, perché scatenò il raptus dell’imputato): «È arrivato il gran giorno, oggi finalmente festeggiamo». I vari momenti della dinamica omicidiaria, la messa in scena organizzata subito dopo, la determinatezza di alcuni gesti dell’imputato (il piglio con cui strappa il telefono di mano a tremebondo D’Urso..l’immediata rivelazione e l’insistenza sul primo mai segnalato furto delle chiavi e la prontezza con la quale si fa trovare dalla Ps con la denuncia in mano: p. 106) sono stati correttamente indicati dalla corte come elementi sintomatici di “lucidità e freddezza”.

Diversamente da quello che hanno ritenuto i periti, non c’è niente di “caotico, faragginoso e approssimativo” in un comportamento di questo tipo, che, al contrario, appare caratterizzato fin dalle prime battute “da piena lucidità, ma anche da notevole astuzia” (p. 107).

I giudici hanno fornito una spiegazione logica e accettabile anche dell’apparente occasionalità delle armi utilizzate per il delitto (prima la mazzetta e poi un coltello da arrosto) (p. 107) del movente del delitto (dettato dalla rabbia verso una donna che gli aveva sempre causato una frustrazione e una infelicità intollerabili) (p. 116), nonché di quelle che i periti ritengono di individuare come “crepe e lacune nei ricorsi dell’imputato” (p. 108-109). La tesi del raptus o del corto circuito è stata – come osservava acutamente la sentenza impugnata – solo la difesa preordinata dello stesso imputato, assolutamente vigile e per nulla disposto a farsi imbeccare dagli inquirenti, “specie quando si trattava di ribadire o ogni pié sospinto, come egli avesse agito inconsciamente” (p. 109).

Ampiamente motivata è anche la ritenuta sussistenza della premeditazione dell’omicidio. A parte il già segnalato collegamento (sia sotto il profilo teleologico che quello temporale) tra la falsa denuncia del furto delle chiavi di casa e la perpetrazione dell’omicidio, l’intera condotta da lui tenuta nella notte dell’omicidio (obiettivare la sua ininterrotta presenza lontano da casa) e immediatamente dopo la sua commissione è senz’altro sintomatica di un progetto meditato lucidamente, covato dentro di sé per un apprezzabile lasso di tempo (una settimana), senza mai tradirsi e senza mai deflettere (pp. 115-116).

Per quanto concerne i motivi nuovi posti a sostengo del ricorso e depositati prima dell’udienza pubblica dell’8 maggio 2003, quello relativo alla illogicità della motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche (che il ricorrente avrebbe meritato per la sua giovane età e le sue precarie condizioni psichiche) introduce un thema decidendum totalmente diverso da quelli inizialmente devoluti e, come tale, deve ritenersi inammissibile (Cassazione, Sezioni unite 4683/98, Bono).

Il ricorso deve essere dunque rigettato e al rigetto seguono le conseguenze di legge, meglio precisate nel dispositivo.

PQM

Visti gli articoli 606, 616 Cpp rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.