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Cessazione degli effetti civili -attribuzione dell’assegno divorzile - principi, sui quali fondare il giudizio di spettanza del diritto all’assegno di divorzio

Cessazione degli effetti civili -attribuzione dell’assegno divorzile - principi, sui quali fondare il giudizio di spettanza del diritto all’assegno di divorzio  - Tenore di vita basso

Cessazione degli effetti civili - attribuzione dell’assegno divorzile - principi, sui quali fondare il giudizio di spettanza del diritto all’assegno di divorzio  - Tenore di vita basso (Cassazione,   sez. I civile, sentenza 16.05.2005, n.10210 )

Svolgimento del processo

1.1 Con ricorso dal 10 febbraio 1995, Giuseppe B. chiese al Tribunale di Torino di dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio, che egli aveva contratto con Nicolina R. il 17 aprile 1955 e dal quale erano nati due figli, ormai maggiorenni, precisando che la separazione personale dalla moglie - che si era protratta dal 18 febbraio 1986 - era stata pronunciata dal Tribunale di Torino con sentenza, passata in giudicato, del 29 maggio 1990, con la quale la separazione stessa era stata addebitata ad entrambi i coniugi ed era stata respinta la domanda della moglie, tendente ad ottenere l’assegno di mantenimento. Costituitasi, la R., non opponendosi alla domanda di divorzio, chiese l’attribuzione di un assegno quantificato in lire 1.000.000 mensili.

Il Tribunale adito, con sentenza non definitiva del 20 novembre 1997, dichiarò la cessazione degli effetti civili del predetto matrimonio e, con successiva sentenza 5770/01, respinse la domanda di attribuzione dell’assegno divorzile.

1.2 A seguito di appello della R. - cui resistette il B. - la Corte d’Appello di Torino. con sentenza 881/02, in riforma della sentenza 5770/01, dichiarò tenuto e condannò il B. a versare alla ex moglie l’assegno di divorzio ammontante ad euro 500,00 mensili, automaticamante ed annualmente rivalutabile secondo gli indici Istat del costo della vita.

In particolare, e per quanto in questa sede rileva, la Corte torinese ha così, testualmente, motivato la decisione:

a)”…ai fini della configurazione dell’an debeatur (dell’assegno divorziale)… è possibile affermare che rileva il criterio assistenziale, inteso nel senso della mancanza di redditi adeguati in capo all’ex coniuge richiedente… L’adeguatezza deve essere valutata in relazione al tenore di vita goduto dall’ex coniuge richiedente in costanza di matrimonio ed alle ragionevoli aspettative in lui maturate durante il matrimonio. Sussiste perciò in capo all’ex coniuge il diritto di ottenere il riconoscimento di un assegno di divorzio quando il suo attuale tenore di vita sia inferiore ed inadeguato rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale e rispetto alle aspettative maturate durante il matrimonio. Si può aggiungere che nell’effettuare tale raffronto rileva l’apprezzabile squilibrio fra le posizioni economiche delle parti”.

B)- “Orbene, è emerso che nel corso dei 35 anni di convivenza i coniugi hanno duramento lavorato nel negozio di colori; la moglie ha inoltre allevato due figli. Con i proventi dell’attività svolta e con una impostazione di vita caratterizzata dal risparmio i coniugi sono riusciti nel corso della lunga convivenza a costituire un patrimonio immobiliare, rientrante nella comunione legale perché acquistato dopo l’anno 1975”.

B1)- “E’ emerso che oggi tale patrimonio comune immobiliare ammonta a quasi un miliardo e ottocento milioni di lire e che la metà dei canoni di locazione, spettanti alla moglie, ha fornito a costei un reddito che nell’anno 1998 è stato caratterizzato dall’imponibile di circa 38.500.000 lire… E’ vero che la R. ha ammesso innanzi all’istruttore che nel 1997 ella aveva percepito canoni per 43 milioni di lire, ma tale ammissione non prova il vero reddito perchè dal predetto importo si devono detrarre le spese.

Quindi il reddito della R. ammonta a circa netti tre milioni di lire al mese. E’ vero che la predotta nel 1985 ha ricevuto dal marito 75 milioni di lire, corrispendenti alla metà del denaro depositato su un conto corrente contestato; la R. ha però dichiarato di aver ormai consumato la prodotta somma, destinata al pagamento dì lavori di ristrutturazione dell’alloggio in cui vive ed a sostenere le spese straordinarie. Ciò è verosimile, tenuto conto del tempo passato”.

B2)- “Il marito, oltre all’eguale reddito tratto dal patrimonio comune, percepisce la pensione e la somma di lire 2.000.000 al mese per canoni riferiti a diversi immobili sui quali non esiste alcun diritto della moglie (circostanza ammessa dal B. nel corso dell’interrogatorio formale). Prima dell’anno 1975, quando non vigeva il regime della comunione dei beni acquistati durante il matrimonio, il B., che nell’ambito della famiglia gestiva le questioni economiche, ha fatto altri acquisti che risultano aver fatto parte dalla sua proprietà esclusiva. Al riguardo il predetto ha venduto dopo la separazione tre ville di cui era proprietario esclusivo (circostanza provata documentalmente).

Inoltre il predetto risultava avere pochi mesi prima della cessazione della convivenza coniugale un capitale di 310 milioni di lire (valuta 1985!) su un conto corrente di corrispondenza intrattenuto da lui solo presso la Banca Commerciale Italiana. La circostanza non è contestata ed è stata documentalmente provata dalla N.… Quindi si può affermare - pur senza parlare della buonuscita di 130 milioni, ammessa dal B. al teste Faccioli, ma smentita dalla documentazione prodotta - che il B. oltre al patrimonio immobiliare cointestato alla moglie, al momento della separazione era titolare, a sua volta ad in via esclusiva, di un parallelo patrimonio la cui consistenza era cospicua”.

B3)- “Indipendentemente da quanto risulta dalla dichiarazione dei redditi si può affermare che la posizione economica del B. sia decisamente migliore rispetto a quella della moglie, la quale alla fine vive con la somma di tre milioni di lire al mese e che, di fronte a esigenze impreviste, può è vero alienare parte dei suoi immobili ma che in tal modo riduca il suo reddito che mensilmente le permette di vivere. La R. può in tal modo vivere decorosamente ma la sua posizione, raffrontata con quella del marito, è decisamente inferiore, atteso lo squilibrio patrimoniale tra i coniugi esistente già al momento della fine della convivenza”.

C)- “Orbene a giudizio di questa Corte il riferimento al tenore di vita avuto dai coniugi nel corso della convivenza matrimoniale non deve fare riferimento a quanto in concreto era avvenuto (come invece ha sostenuto il Tribunale) ma deve consistere in un concetto astratto di tenore di vita, vale a dire che si deve considerare rilevante ai fini della decisione la fascia socio economica consona alle potenzialità economiche della coppia. Il fatto che i coniugi B. in concreto avessero tenuto un tenore di vita basso, all’insegna del risparmio, diviene oggi irrilevante ne si può affermare che i predetti, in relazione alle loro cospicue sostanze (e si parla di patrimonio cointestato e di patrimonio intestato al solo marito), avrebbero potuto avere un tenore di vita alto per cui il raffronto che il giudice del divorzio deve operare fra l’attuale tenore di vita e quello pregresso del coniuge richiedente deve fare riferimento per il passato ad un concetto astratto di tenore di vita. In caso contrario, nel raffrontare i due tenori di vita (quello attuale e quello concretamente avuto durante il matrimonio), si giungerebbe a commettere gravi ingiustizie in danno del coniuge più debole nel caso di tenore di vita modesto, imposto dal marito durante la convivenza matrimoniale nonostante la presenza di un cospicuo patrimonio, inoltre si giungerebbe a compromettere la ratio della legge che, pur volendo escludere che il matrimonio costituisca una mera rendita di posizione, finirebbe però in tal modo per sacrificare i diritti che nascono dal matrimonio.

E’ veramente riduttivo sostenere che oggi la moglie godrebbe dei frutti e delle conseguenza dei sacrifici da lei stessa fatti durante i trentacinque anni di convivenza perché se da un lato ciò è vero, dall’altro si deva però tener presente quanto il marito ha accantonato in piú nello stesso periodo di convivenza coniugale. Appare quindi corretto oggi raffrontare il reddito della moglie con quello astratto che ella avrebbe potuto avere durante la convivenza matrimoniale, tenuto presente il patrimonio comune e quello esclusivo del marito e considerata la fascia socio economica consona alle potenzialità economiche della coppia.

D’altro lato la Suprema Corte, in situazione diversa in cui tale patrimonio ancora non esisteva, ha affermato che il tenore di vita da utilizzare come termine di raffronto non è soltanto quello concretamente goduto in costanza di matrimonio ma anche quello che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, pur se realizzatosi solo al momento del divorzio …ovvero su miglioramenti che costituiscono sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta dal coniuge durante il matrimonio…A maggior ragione è doveroso nel caso in esame fare riferimento ad un concetto astratto di pregresso tenore di vita, considerato che tale patrimonio (comune o in proprietà esclusiva) già esisteva al momento della separazione, anche se non era del tutto noto alla moglie”.

D) – “Raffrontando quindi il pregresso tenore di vita astratto, commisurato all’entità considerevole del patrimonio (compreso quello di proprietà esclusiva del marito) e l’odierno tenore di vita che la moglie può condurre, con la titolarità del patrimonio già comune (la divisione è avvenuta in corso di causa) e con i relativi canoni di locazione, si può concludere osservando che vi è uno squilibrio, considerata la rilevanza in termini economici del patrimonio di proprietà esclusiva del marito che, unitamente a quello comune, avrebbe potuto permettere alla famiglia dì aver un ottimo tenore di vita. Su tali premesse si ritiene che vi sia spazio per un assegno di divorzio, attesa la attuale inadeguatezza del tenore di vita della moglie rispetto all’ottimo tenore di vita che avrebbe potuto avere durante il matrimonio. Considerata la durata della convivenza matrimoniale appare giusto fissare l’importo dell’assegno de quo in 500 euro mensili…”.

1.3 Avverso tale sentenza Giuseppe B. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi di censura. Resiste, con controricorso, Nicolina R..

Motivi della decisione

Con il primo motivo (con cui deduce: “violazione e/o errata applicazione dell’articolo 5della legge 898/70 anche in relazione al disposto degli articoli 156 Cc e 29, 30, 31 della Costituzione”), il ricorrente critica la sentenza impugnata, sostenendo: a) - che l’affermazione della Corte torinese –secondo cui “il riferimento al tenore di vita avuto dai coniugi nel corso della convivenza matrimoniale non deve fare riferimento a quanto in concreto era avvenuto (come invece ha sostenuto il Tribunale) ma deve consistere in un concetto astratto di tenore di vita, vale a dire che si deve considerare rilevante ai fini della decisione la fascia socio economica consona alle potenzialità economiche della coppia” (cfr., supra, n.1.2 lett.c) – si discosterebbe nettamente da quello che la stessa Corte riconosce essere il costante orientamento della Corte di cassazione, giusta il quale “la corretta interpretazione dell’articolo 5 della legge 898/70 impone che sia fatto riferimento al tenore di vita concretamente goduto dai coniugi in costanza di matrimonio e non ad un tenore di vita potenziale od astratto” (cfr. ricorso, pag.5); b) – che le “somme sufficienti a superare l’inadeguatezza alla conservazione del tenore di vita goduto durante il matrimonio costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno”; e che da tale espressione “si evince che l’assegno divorziale non potrà mai procurare all’ex coniuge un tenore di vita superiore a quello concretamente goduto in costanza di matrimonio” (cfr. ricorso, pag.6); c) – che, altrimenti opinando, in conformità a quanto affermato dai giudici a quibus, “lo scioglimento del vincolo coniugale potrebbe comportare (e comporterebbe nel caso in esame) non le conseguenze pregiudizievoli alla cui eliminazione è finalizzato l’assegno divorziale…, ma l’insorgere del diritto ad una rendita di posizione del tutto svincolata da un riferimento concreto alla realtà vissuta nel contesto economico (ma non soltanto economico) della vita coniugale” (cfr. ricorso, pagg. 6-79; con l’ulteriore conseguenza che il divorzio, anche in contrasto con la preminenza riconosciuta dalla Costituzione al fondamento matrimoniale della famiglia, comporterebbe una tutela maggiore, limitatamente all’aspetto patrimoniale, rispetto a quella accordata dal legislatore nella disciplina dell’assegno di mantenimento nella fase della separazione personale.

Con il secondo motivo (con cui deduce. “violazione e/o errata applicazione dell’articolo 5 della legge 898/70 e motivazione omessa od insufficiente od incongrua su un punto decisivo della controversia”), il ricorrente critica la sentenza impugnata, anche sotto il profilo della sua motivazione, sostenendo: a) – che “la Corte d’appello è incorsa in errore, allorché ha ritenuto che l’articolo 5 della legge 898/70 e la sua applicazione imponessero di ricorrere ad un concetto astratto di tenore di vita riferito non alla realtà della vita di coppia, ma astrattamente alla vita di una fascia socio-economica dalla potenzialità economica della coppia”; b) – che “non ha motivato, o ha motivato in maniera insufficiente od incogrua, il proprio scostamento dall’insegnamento consolidato della Suprema magistratura; non ha indicato né i criteri adottati per individuare la fascia socio-economica ritenuta elemento di riferimento, né quale sarebbe il tenore di vita astratto proprio di quella fascia e l’entità dei redditi occorrenti per mantenerlo, né, infine, i motivi che avrebbero reso non più attuale il basso tenore di vita tenuto sino a quel momento dai coniugi… non dice perché il tenore di vita modesto sarebbe inevitabilmente imposto dal marito”; c) – che “la Corte avrebbe dovuto quindi dire e motivare… perché ai coniugi B.-R. sia applicabile la disciplina di un caso particolare, a loro estraneo, tenuta presente la realtà di fatto (come si evince dalla sentenza di separazione, dalla quale risulta che gli addebiti mossi dalla moglie al marito non concernevano l’imposizione di un tenore di vita di sacrificio in contrasto con le disponibilità economiche della coppia) ed anche tenuta presente la verità processuale, posto che le cause e l’addebitabilità del basso tenore di vita non sono state oggetto di indagine né di pronuncia, neppure implicita” (cfr. ricorso, pagg.10-12).

Con il terzo motivo (con cui deduce: “violazione dell’articolo 5 della legge 898/70, omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia”), il ricorrente critica la sentenza impugnata, anche sotto il profilo della sua motivazione, sostenendo che la Corte torinese, nel determinare l’entità dell’assegno divorziale, non avrebbe preso in considerazione – e non avrebbe neppure motivato sull’omissione relativa – i criteri stabiliti dalla legge ed in particolare il criterio delle “ragioni” che avevano condotto al divorzio: ragioni, emergenti chiaramente dalla sentenza di separazione, addebitata ad entrambi i coniugi, dalla quale “risulta però che durante la convivenza coniugale la moglie aveva tenuto, nei confronti del marito ma anche dei figli, un comportamento di sicuro disfacimento della famiglia che indubbiamente non avrebbe mai consentito la ricostruzione del rapporto matrimoniale (cfr. ricorso, pag.13).

Il ricorso deve essere respinto.

Va, innanzitutto, sottolineato che la Corte torinese – nell’individuazione dei principi, sui quali fondare il giudizio di spettanza del diritto all’assegno di divorzio (cfr., supra, n.1.2 lett. a) –ha correttamente applicato alla fattispecie il costante orientamento espresso da questa Corte, a partire dalle pronunce delle Su 11490 e 11492 del 1990, sempre confermato dalle sezioni semplici (cfr., e pluribus e tra le ultime, sentenze 14004/02 e 4040/03), secondo cui l’assegno periodico di divorzio, nella disciplina introdotta dall’articolo 10 della legge 74/1987, modificativo dell’articolo 5 della legge 898/70, ha carattere esclusivamente assistenziale, in quanto la sua attribuzione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante – da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre – a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando, invece, l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali debbono essere tendenzialmente ripristinate, al fine di ristabilire un certo equilibrio.

Ciò premesso, il nucleo centrale delle critiche, mosse dal ricorrente alla sentenza impugnata e formulate nel primo ed in parte nel secondo motivo, sta nel rilievo, secondo cui i giudici a quibus sarebbero incorsi in errore, laddove hanno ritenuto che l’applicazione dell’articolo 5 comma 6 della legge 898/70 imponesse il riferimento ad un concetto “astratto” di tenore di vita e non già,correttamente, al tenore di vita “concretamente” tenuto dai coniugi durante il matrimonio, tenuto conto che, nella specie, i giudici stessi hanno affermato che i coniugi hanno mantenuto “una impostazione di vita caratterizzata dal risparmio” e “tenuto un tenore di vita basso, all’insegna del risparmio” (cfr., supra, n.2.1).

Tale critica è priva di fondamento.

In proposito, deve essere ribadito, in limine, che l’accertamento del diritto all’assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, o all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontate ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l’inadeguatezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della misura dell’assegno; e che, nella seconda fase, il giudice deve procedere alla determinazione in concreto dell’assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso articolo 5 comma 6 (nel testo modificato dalla legge 74/1987), i quali, quindi, agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto e possono, in ipotesi estreme, valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurata dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione (cfr., e pluribus, sentenze 4809/98, 6660/01, 4040/03 cit.).

Più specificamente, questa Corte ha, più volte (cfr., e pluribus, sentenze 6660/01 cit. e 6541/02), affermando che il tenore di vita, cui rapportare il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente l’assegno di divorzio, è quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi – ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e delle loro disponibilità patrimoniali – e non già quello tollerato, o subito, od anche concordato con l’adozione di particolari criteri di suddivisione delle spese familiari e di disposizione dei redditi personali residui.

Orbene, nel caso di specie, la corte torinese – dopo aver minuziosamente analizzato e dato conto dei redditi e dei cespiti patrimoniali disponibili da ciascuno dei coniugi al momento del divorzio (cfr., supra, n.1.2 lett. B1-B2); e dopo avere, conseguentemente, sottolineato, da un lato, come “la posizione economica del B. sia decisamente migliore rispetto a quella della moglie” e, dall’altro, come la N., con un reddito mensile di tre milioni, “può in tal modo vivere decorosamente ma la sua posizione, raffrontata con quella del marito, è decisamente inferiore, atteso lo squilibrio patrimoniale fra i coniugi esistente già al momento della fine della convivenza” (cfr., supra, n.1.2 lett.B3) – ha fondato il giudizio di spettanza dell’assegno di divorzio all’odierna controricorrente sulle concorrenti affermazioni, secondo cui “il riferimento al tenore di vita avuto dai coniugi nel corso della convivenza matrimoniale non deve fare riferimento a quanto in concreto era avvenuto (come invece ha sostenuto il tribunale) ma deve consistere in un concetto astratto di tenore di vita, vale a dire che si deve considerare rilevante ai fini della decisione la fascia socio economica consona alle potenzialità economiche della coppia”; secondo cui “il fatto che i coniugi B. in concreto avessero tenuto un tenore di vita basso, all’insegna del risparmio, diviene oggi irrilevante se si può affermare che i predetti, in relazione alle loro cospicue sostanze (e si parla di patrimonio contestato e di patrimonio intestato al solo marito), avrebbero potuto avere un tenore di vita alto, per cui il raffronto che il giudice del divorzio deve operare fra l’attuale tenore di vita e quello pregresso del coniuge richiedente deve fare riferimento per il passato ad un concetto astratto di tenore di vita”; e secondo cui “appare quindi corretto oggi raffrontare il reddito della moglie con quello astratto che ella avrebbe potuto avere durante la convivenza matrimoniale, tenuto presente il patrimonio comune e quello esclusivo del marito e considerata la fascia socio economica consona alle potenzialità economiche della coppia”.

Al di là di imprecisioni terminologiche e concettuali (laddove si allude ad un “concetto astratto di tenore di vita” ed alla necessità di “raffrontare il reddito della moglie con quello astratto che ella avrebbe potuto avere durante la convivenza matrimoniale “) – che possono essere corrette ai sensi dell’articolo 384 comma 2 Cpc -, non v’è alcun dubbio che, sul punto, la ratio decidendi della sentenza impugnata sia legittima: infatti, i giudici d’appello hanno sostanzialmente affermato che il tenore di vita, al quale rapportare il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione della N., richiedente l’assegno di divorzio, è proprio quello dato dalla “potenzialità economiche della coppia” (espressione, questa, utilizzata più volte) al momento del divorzio, vale a dire dell’ammontare complessivo dei loro redditi e dei loro cespiti patrimoniali, in precedenza minuziosamente analizzati e comparati. In tale prospettiva, perdono consistenza anche le critiche mosse alla motivazione della sentenza impugnata, formulate nel secondo motivo di censura.

Quanto alla pretesa, mancata indicazione specifica dei criteri di individuazione della fascia socio-economica pertinente alla coppia, è sufficiente osservare che dal complesso della motivazione e, in particolare, dalla dettagliata analisi della situazione reddituale e patrimoniale della famiglia e propria del B. al momento della cessazione della convivenza emerge con chiarezza che i giudici d’appello hanno legittimamente inferito le potenzialità economiche della coppia e, quindi, il corrispondente tenore di vita che le si addiceva, definito “ottimo” (cfr., in questo senso, ad es., Cassazione sentenze 8225/00 e 7068/01).

Quanto, poi, alla pretesa, omessa indicazione dei motivi che avrebbero reso non più attuale il basso tenore di vita tenuto sino a quel momento dai coniugi e dei motivi giustificativi dell’affermazione, secondo cui il tenore di vita modesto sarebbe stato “imposto dal marito”, è parimenti sufficiente osservare, per un verso, che la Corte torinese, in conformità all’orientamento di questa Corte dianzi ricordato, ha ritenuto “irrilevante”, ai fini del giudizio di spettanza dell’assegno di divorzio, il basso tenore di vita tenuto dalla coppia in costanza di convivenza rispetto a quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi; e, per l’altro, che l’affermazione, secondo cui detto tenore di vita sarebbe stato “imposto” dal marito, è del pari irrilevante, tenuto conto – si ribadisce – che il tenore di vita rilevante ai fini del giudizio di spettanza dell’assegno di divorzio non può mai essere quello tollerato o subito dal coniuge richiedente, od anche quello concordato tra i coniugi.

Infine, anche il terzo motivo è infondato.

Questa Corte ha più volte (cfr., e pluribus, sentenze 317/98, 12182/99, 13068/01, 13169/04) affermato che, con riguardo alla quantificazione dell’assegno di divorzio, deve escludersi la necessità di una puntuale considerazione – da parte del giudice, che dia adeguata giustificazione della propria decisione- di tutti, contemporaneamente, i parametri di riferimento, di cui all’articolo 5 comma 6 della legge 898/70 (nel testo modificato dalla legge 74/1987), per la determinazione dell’importo spettante all’ex coniuge, anche in relazione alle deduzioni ed alle richieste delle parti, salva restando la valutazione della loro influenza sulla misura dell’assegno.

Ciò posto, la Corte torinese (cfr., supra, n.1.2 lett. b e d), dandone adeguata giustificazione ai fini dell’attribuzione dell’assegno di divorzio all’odierna controricorrente, ha preso in ponderata e bilaterale considerazione i criteri di legge, valorizzando quelli della durata del matrimonio (35 anni), del contributo personale ed economico dato anche dalla N. alla conduzione familiare (l’allevamento di due figli da parte della madre) ed alla formazione del patrimonio comune (“orbene, è emerso che nel corso dei 35 anni di convivenza i coniugi hanno duramente lavorato nel negozio di colori; la moglie ha inoltre allevato due figli. Con i proventi dell’attività svolta e con una impostazione di vita caratterizzata dal risparmio i coniugi sono riusciti nel corso della lunga convivenza a costituire un patrimonio immobiliare, rientrante nella comunione legale perché acquistato dopo l’anno 1975”), della deteriore, rispetto a quella del B., condizione reddituale e patrimoniale della moglie. In questo contesto, l’omessa considerazione del criterio delle “ragioni delle decisioni” appare irrilevante, segnatamente perché la pronuncia di separazione con addebito ad entrambi i coniugi priva sostanzialmente di valore orientativo, ai fini della quantificazione dell’assegno di divorzio – in assenza di specifiche deduzioni delle parti, relative al comportamento dei coniugi successivo alla separazione (cfr. e pluribus, sentenza 15055/00) – il criterio medesimo.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in complessivi euro 1.500,00, ivi compresi euro 1,400,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma il 4 aprile 2005.

Depositata in cancelleria il 16 maggio 2005.