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Prova testimoniale - Limiti e divieti

Civile - Prova testimoniale - Limiti e divieti - Valore dell'Oggetto Civile - Prova testimoniale - Limiti e divieti - Valore dell'Oggetto - Limite di valore ex art. 2721 cod. civ. - Attinenza all'ordine pubblico - Esclusione - Attinenza al solo interesse di parte - Conseguenze - Immediatezza dell'eccezione di violazione - Necessità - Differimento dell'eccezione ad un successivo grado di giudizio - Possibilità - Esclusione - Contumacia della parte interessata - Corte di Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 3959 del 13/03/2012

Civile - Prova testimoniale - Limiti e divieti - Valore dell'Oggetto

Civile - Prova testimoniale - Limiti e divieti - Valore dell'Oggetto - Limite di valore ex art. 2721 cod. civ. - Attinenza all'ordine pubblico - Esclusione - Attinenza al solo interesse di parte - Conseguenze - Immediatezza dell'eccezione di violazione - Necessità - Differimento dell'eccezione ad un successivo grado di giudizio - Possibilità - Esclusione - Contumacia della parte interessata - I limiti di valore sanciti dall'art. 2721 cod. civ., riguardo all'ammissibilità della prova testimoniale, non attengono all'ordine pubblico, ma sono dettati nell'esclusivo interesse delle parti private, con la conseguenza che, qualora la prova venga ammessa in primo grado oltre i limiti predetti, essa deve ritenersi ritualmente acquisita se la parte interessata non ne abbia tempestivamente eccepito l'inammissibilità in sede di assunzione o nella prima difesa successiva entro lo stesso grado di giudizio; in questo caso, la relativa nullità, essendo rimasta sanata, non può essere eccepita per la prima volta in sede di appello, neppure dalla parte che sia rimasta contumace nel giudizio di primo grado, e, a maggior ragione, non può essere eccepita per la prima volta in sede di legittimità. Corte di Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 3959 del 13/03/2012

Corte di Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 3959 del 13/03/2012

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.1. Prima dell'inizio della discussione parte ricorrente ha prodotto l'avviso di ricevimento della notificazione del ricorso, che è avvenuta a mezzo posta.
p.2. Preliminarmente il Collegio ritiene opportuno osservare che la capacità della ricorrente ai fini della proposizione del ricorso non può essere messa in dubbio in forza della costatazione di quanto si legge nella sentenza impugnata, cioè dell'essere stata la società ricorrente in condizioni di fallimento, per come eccepito nella conclusionale d'appello depositata il 7 maggio 2009 dalla società appellata e qui intimata.
Detta eccezione era stata proposta dall'appellata in funzione dell'assunto che il processo avrebbe dovuto dichiararsi interrotto ai sensi del R.D. n. 267 del 1942, art. 43, u.c., (c.d. Legge Fallimentare), introdotto dal D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 42, e la Corte territoriale l'ha rigettata osservando che la nuova norma no trovava applicazione nella controversia, in quanto applicabile solo ai fallimenti aperti dopo il 16 luglio 2006.
Ciò, evidentemente, è stato ritenuto in applicazione del combinato disposto degli artt. 150 e 153 del citato D.Lgs. e sulla relativa affermazione si è formata cosa giudicata.
Peraltro, dal tenore della motivazione della sentenza impugnata emerge a fortiori che la Corte fiorentina ha dato per pacifico che la società qui ricorrente fosse effettivamente in condizioni di fallimento.
Ne deriva che questa Corte, nel silenzio della parte ricorrente circa l'eventuale chiusura del fallimento, avrebbe dovuto ritenere non solo che la ricorrente si trovasse in condizioni di fallimento al momento della proposizione del ricorso, ma anche che vi si trovasse al momento della proposizione del ricorso e che vi si trovi tuttora. Sarebbe risultata, dunque, la proposizione del ricorso in condizioni di difetto di capacità, per averla persa la ricorrente a beneficio della curatela del fallimento ai sensi dell'art. 43, comma 1, del citato R.D. (e per non avere allegato ne' di agire nell'inerzia del curatore, ipotesi nella quale si ammette che il fallito possa agire, nè di aver voluto agire per ottenere una sentenza condizionale, da valere quando si fosse verificato il ritorno in bonis). Tuttavia, il Collegio, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (relativa alla situazione normativa anteriore alla novità dell'introduzione della L. Fall., art. 43, citato u.c.) non avrebbe potuto rilevare d'ufficio il difetto di capacità, in assenza di elementi che facessero risultare l'interesse della curatela a rivendicare la sua capacità a garanzia delle esigenze della massa (ex multis, Cass. n. 17418 del 2004; n.5226 del 2011; n. 5571 del 2011), fermo restando che, se il fallimento fosse stato tuttora pendente, la presente decisione non sarebbe stata ad esso opponibile, essendo diretta a disciplinare solo i rapporti fra l'intimata e la ricorrente, una volta ritornata in bonis.
p.2.1. In sede di discussione la Corte ha, tuttavia, ritenuto di invitare la ricorrente a prendere posizione sulla questione della sua capacità ed Essa ha, quindi, depositato le osservazioni ai sensi dell'art. 379 c.p.c., comma 4, allegando decreto del 22 marzo 2011 del Tribunale di Firenze che ha dichiarato chiusa la procedura fallimentare per completa ripartizione dell'attivo. Essendo la società ricorrente ritornata dunque in bonis no è necessario fare applicazione della richiamata giurisprudenza.
p.3. Con il primo motivo si deduce "violazione e/o falsa applicazione degli artt. 140, 145, 160 e 354 c.p.c., nonché dell'art. 2193 c.c., comma 2, (art. 360 c.p.c., n. 3). Omesso esame di risultanze istruttorie. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5)".
Vi si prospettano due distinte e gradate censure.
p.3.1. Con la prima ci si duole della sentenza impugnata per avere essa disatteso il motivo di appello con il quale la ricorrente aveva dedotto la nullità della notificazione della citazione introduttiva del giudizio di primo grado, nel quale era rimasta contumace, per essere stata essa effettuata ai sensi dell'art. 140 c.p.c., il 10 agosto 2001 in Camaiore in un luogo che non era più quello della sua sede, come risultava da una "visura camerale" prodotta in appello. Da tale documento - indicato nel modo seguente: "v. Doc. fascicolo secondo grado ESE" - sarebbe risultato che in data 18 giugno 2001 la ricorrente aveva trasferito la propria sede in Roma, alla via del Corso n. 203 "con relativa iscrizione alla Camera di Commercio di detta città il 16 luglio 2001, prendendo il numero di iscrizione e codice fiscale 01769490465". Il relativo "trasferimento di sede era stato trascritto anche presso il Registro delle Imprese di Lucca, come risulta a per tabulas dalla visura allegata all'atto di appello (v. sempre Doc. 3 fascicolo di parte ESE, pag. 7 di 11)". Sulla base di tali risultanze documentali si sostiene che erroneamente la Corte territoriale avrebbe disatteso il motivo di appello affermando che "il trasferimento della sede sociale a Roma fu reso pubblico nel registro di iscrizione della società in data non antecedente alla domanda di cancellazione presentata il 24.8.2001, divenendo opponibile ai terzi solo da tale data". Questa affermazione non terrebbe conto delle segnalate emergenze della detta documentazione e si porrebbe in contrasto con quanto disposto dalle norme in materia di registro delle imprese, di cui all'art. 2188 e ss., le quali, particolarmente con l'art. 2193 c.c., non subordinerebbero l'opponibilità del trasferimento della sede alla avvenuta cancellazione presso la camera di commercio del luogo della vecchia sede.
p.3.1.1. La censura non è fondata.
Queste le ragioni.
Va chiarito preliminarmente il contesto normativo nel quale si inserì la vicenda del trasferimento della sede della ricorrente sotto il profilo della disciplina della pubblicità delle vicende societarie che ebbe a regolarla.
All'epoca era entrata in vigore la disciplina attuativa del registro delle imprese, disposta - com'è noto - dalla L. n. 580 del 1993, art. 8.
Tale disciplina era stata dettata con il D.P.R. n. 581 del 1995. Il trasferimento della sede della società ricorrente, avente natura di s.r.l., risultava, peraltro, integrare una modificazione dell'atto costitutivo, atteso che l'art. 2475, comma 2, n. 2, nel testo allora vigente, nel regolare l'atto costitutivo della s.r.l. esigeva che esso contenesse l'indicazione della sede e delle sedi secondarie, così determinando la soggezione della modificazione della sede della società al regime di cui all'art. 2494 c.c., il quale richiamava l'art. 2436, dettato in tema di società per azioni e, dunque, rendeva applicabile il regime di cui all'art. 2411 c.c., sul deposito della relativa deliberazione.
All'epoca del trasferimento di cui si discute, viceversa, non era più vigente la norma dell'art. 2451 ter c.p.c., che l'art. 2497 bis dichiarava applicabile alle s.r.l.. L'art. 2457 ter, infatti, era stato abrogato dalla L. n. 340 del 2000, art. 33, (ne consegue che la fattispecie può essere risolta alla stregua del principio di diritto affermato da Cass. n. 2835 del 2009 in questi termini: "Nel regime vigente in epoca anteriore alle modificazioni introdotte dal D.Lgs. n. 5 del 2003, alle società a responsabilità limitata il coordinato disposto degli artt. 2436 e 2494 c.c., prescriveva, in caso di adozione di modificazioni statutarie, la pubblicazione sul Bollettino ufficiale delle società per azioni e a responsabilità limitata del testo integrale dell'atto modificato nella sua redazione aggiornata. L'art. 2457 ter c.c., commi 1 e 2, disciplinava il regime di opponibilità ai terzi degli atti per i quali era prevista la pubblicazione, con l'effetto che, mentre dopo quindici giorni dalla pubblicazione la modificazione statutaria era opponibile ai terzi iuris et de iure, prima di quel termine l'atto era inopponibile solo se il terzo dimostrava di non averne avuto conoscenza, restando nell'ipotesi estrema della mancata pubblicazione e, comunque, per il tempo che l'aveva preceduta l'inopponibilità, sino a quando la società non dimostrava la conoscenza del terzo (principio affermato in tema di inopponibilità all'INPS del trasferimento della sede legale di una società, risultando il trasferimento pubblicato successivamente alla notifica della cartella esattoriale opposta)"). Ne deriva che l'efficacia verso i terzi della deliberazione di trasferimento della sede, che necessariamente la s.r.l. ricorrente dovette adottare in ossequio alle citate norme, era soggetta alla sola forma di pubblicità prevista dall'art. 2411 c.c., il quale imponeva al notaio verbalizzante la deliberazione assembleare modificativa dell'atto costitutivo di richiedere entro trenta giorni l'iscrizione al registro delle imprese, che, se rilevava a regolarità formale della documentazione provvedeva all'iscrizione. All'epoca delle vicenda del trasferimento di cui si discute, peraltro, era vigente, com'è vigente tuttora, un'ulteriore fonte normativa legittimata da un fenomeno c.d. di delegificazione, che espressamente disciplinava il trasferimento della sede del soggetto iscritto nel registro delle imprese da una provincia ad all'altra e, quindi, da una camera di commercio ad un'altra.
Tale fonte era (come è) rappresentata dalla norma del D.P.R. 14 dicembre 1999, n. 558, art. 3, comma 3, secondo la quale "I soggetti che trasferiscono la propria sede in altra provincia presentano la relativa domanda all'ufficio del registro delle imprese della camera di commercio della circoscrizione ove si trasferiscono, la quale ne da comunicazione all'ufficio di provenienza ai fini della cancellazione".
In forza di questa norma si deve ritenere - con la conseguenza della sostanziale giustificazione di quanto ha ritenuto la Corte territoriale senza preoccupasi di motivare in ture la sua affermazione - che successivamente al regime normativo sotto il quale si colloca la vicenda (e che è stato sopra identificato) il trasferimento della sede di un soggetto iscritto soggiace ad un regime di pubblicità nel registro delle imprese per cui l'iscrizione cui allude il D.P.R. n. 558 del 1995, art. 11, in via generale è il risultato di una fattispecie complessa, che si compone da un lato della presentazione della domanda presso l'ufficio del registro delle imprese della circoscrizione in cui avviene il trasferimento e dal'altro della cancellazione da parte dell'ufficio di provenienza. Il fatto che a questo scopo l'ufficio di presentazione della domanda debba comunicare la domanda all'ufficio di provenienza e che lo debba fare ai fini della cancellazione evidenzia che in tanto il fatto del trasferimento e, quindi, la nuova sede, diventa fatto iscritto nel registro ai fini della pubblicità che il registro assicura, in quanto venga rimossa la situazione di iscrizione della sede pregressa. Il che si spiega, perché altrimenti, riguardo alla stessa circostanza di fatto rilevante, cioè la sede, si avrebbero nel sistema del registro delle imprese due distinte risultanze non già soltanto cronologiche, ma meramente locali e, mentre la seconda di esse (cioè la domanda di iscrizione del trasferimento) si presenterebbe idonea a rivelare la sua priorità ed effettività, in quanto necessariamente l'iscrizione rivela il superamento dell'altra, la prima iscrizione, perdurando fino alla cancellazione, ove fosse oggetto di consultazione non avrebbe la stessa, idoneità, per la ragione che non può contenere alcun riferimento alla sopravvenienza del trasferimento. Ne consegue che i terzi si verrebbero a trovare in una situazione di incertezza e confusione.
D'altro canto, la norma sopra ricordata impone la comunicazione ai fini della cancellazione e, quindi, proprio dell'adempimento tendente ad eliminare la situazione di provvisoria iscrizione del soggetto presso due camere di commercio e, quindi, appare finalizzata ad individuare il consolidamento dell'iscrizione del trasferimento della sede. Di modo che prima della cancellazione la sede del soggetto, per quanto attiene alla conoscenza da parte dei terzi, continua ad essere quella originaria.
In sostanza il principio di diritto che viene in rilievo è il seguente: "Nel regime di attuazione del registro delle imprese (e per i soggetti societari persone giuridiche successivamente all'abrogazione dell'art. 2457 ter c.c., richiamato dall'art. 2497 bis c.c.) l'iscrizione nel registro delle imprese del trasferimento della sede del soggetto iscritto, quando tale trasferimento comporti che la sede sia trasferita in altra provincia e, quindi, che l'iscrizione passi da una camera di commercio ad altra, si ha per perfezionata a tutti gli effetti che ne derivano soltanto una volta avvenuta la cancellazione dell'iscrizione di provenienza". In forza delle considerazioni svolte il trasferimento della sede della qui ricorrente divenne opponibile ai terzi e, quindi, alla società intimata soltanto all'atto della cancellazione presso la Camera di commercio di Lucca.
La notificazione venne, dunque, effettuata presso quella che ancora i terzi avevano diritto di considerare sede della società. p.3.2. Con una seconda censura ci si duole che la notificazione sarebbe stata comunque effettuata in modo nullo, per l'incertezza della qualità del soggetto che avrebbe proceduto al ritiro della raccomandata con cui venne effettuato ai sensi dell'art. 140 c.p.c., l'avviso dell'avvenuto deposito presso la casa comunale del plico non potuto notificare presso la sede di Camaiore per il rifiuto di riceverlo della persona trovata dall'ufficiale giudiziaria presso tale sede.
La persona che effettuò il ritiro del plico sarebbe stata, infatti, indicata - peraltro senza specificazione delle sue generalità e del suo rapporto con la società ricorrente - come "addetto alla casa", qualificazione impropria in relazione ad una persona giuridica, anziché come "addetto alla sede". Tanto evidenzierebbe che "risulta, quindi, fortemente improbabile, se non addirittura impossibile, che il destinatario dell'atto sia venuto a conoscenza del procedimento a suo carico".
p.3.2.1. Il motivo è inammissibile.
Della questione con essa prospettata parte ricorrente non ha, infatti, evidenziato in che modo avesse investito il giudice d'appello, che nella sentenza non se ne occupa, cioè non si fa carico di prender posizione sulla contestazione della qualificazione del soggetto ritirante a ricollegarlo alla ricorrente. Viene al riguardo in rilievo il consolidato principio di diritto secondo cui "Qualora una determinata questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata ne' indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, il ricorrente che riproponga la questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa". (Cass. n. 25546 del 2006, ex multis). p.4. Con il secondo motivo si denuncia "violazione delle norme sulla competenza (art. 360 c.p.c., n. 2). Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 38 c.p.c., comma 2, art. 294 c.p.c., e degli artt. 19 e 20 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in merito alla eccezione di incompetenza territoriale proposta dalla ESE ITALIA in sede di atto di appello (art. 360 c.p.c., n. 5)".
Il motivo si duole che la Corte territoriale avrebbe ritenuto inammissibile l'eccezione di incompetenza territoriale sollevata con l'atto di appello perché essa avrebbe dovuto essere proposta nel rispetto delle preclusioni di cui all'art. 38 c.p.c., nel giudizio di primo grado nel quale la qui ricorrente era rimasta contumace. La critica è svolta sul presupposto che, in ragione della pretesa nullità della notificazione della citazione di primo grado la ricorrente fosse rimasta contumace in modo involontario. p.4.1. Il motivo, essendo dipendente dalla fondatezza del primo motivo, il cui accoglimento avrebbe evidenziato l'involontarietà della contumacia in primo grado della ricorrente, risulta automaticamente a sua volta infondato per l'infondatezza del primo motivo.
p.5. Il terzo motivo denuncia "violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1325, 1392, 1399, 2475 bis, 2721, 2725 e 2729 c.c., (art. 360 c.p.c., n. 3). Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa i fatti controversi e decisivi per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.). Vizio di motivazione in ordine al'utilizzo del ragionamento presuntivo".
Vi si critica la sentenza impugnata quanto al ragionamento con cui ha ritenuto dimostrata la conclusione del contratto di sponsorizzazione da parte di un soggetto che vi sarebbe intervenuto con il consenso o la delega del legale rappresentante della ricorrente e, in alternativa, che quest'ultimo avrebbe ratificato l'accordo. La critica è svolta sia con riferimento agli argomenti che la Corte territoriale ha desunto dalle prove testimoniali espletate in primo grado, sia con riguardo agli argomenti desunti da documenti, sia con riferimento ad ulteriori argomenti presuntivi basati su dette risultanze probatorie.
p.5.1. Il motivo è inammissibile, perché non rispetta il requisito di ammissibilità di cui all'art. 366 c.p.c., n. 6, quanto all'indicazione dei documenti e degli atti su cui si fonda. Infatti, vi si critica sotto vari aspetti la motivazione della sentenza impugnata nel punto in cui ha ritenuto che la ricorrente avesse concluso il contratto di sponsorizzazione tramite l'intervento del signor D'Anna nella qualità di delegato del suo legale rappresentante.
La critica si fonda su riferimenti a prove testimoniali che sarebbero state utilizzate all'uopo dalla Corte e delle quali si contesta l'ammissibilità in relazione al valore del contratto, ma di esse non si indica in alcun modo l'udienza nella quale vennero assunte. Inoltre, alla pagina diciannove fa riferimento a una serie di documenti non meglio specificati che sarebbero stati firmati dal D'Anna, nonché ad altri documenti che si allegati all'atto di appello, ma di essi non si fornisce l'indicazione specifica richiesta dall'art. 366 c.p.c., n. 6, norma che costituisce il precipitato normativo del c.d. principio di autosufficienza dell'esposizione del motivo di ricorso per cassazione. In particolare non si riproduce il contenuti dei detti documenti direttamente per la parte che interessa e nemmeno lo si riproduce con specifici rinvii ad essi e, soprattutto, non si dice se e dove siano stati prodotti in questa sede di legittimità (siccome richiede l'esegesi dell'art. 366 c.p.c., n. 6, fatta da Cass. sez. un. nn. 28547 del 2008 e 7161 del 2010).
p.5.2. In disparte tali rilievi il motivo è inammissibile quanto alle deduzioni relative all'utilizzazione della prova testimoniale in materia di contratti, perché, essendo rimasta la ricorrente volontariamente contumace in primo grado ed essendo state le prove dedotte, ammesse ed espletate in primo grado, se ne sarebbe dovuta eccepire l'inammissibilità, riservata al potere della parte, in quella sede nella prima difesa successiva.
Poiché l'impossibilità di formulare l'eccezione è dipesa dall'inerzia nello svolgimento dell'attività difensiva della ricorrente, le prove testimoniali acquisite in primo grado divennero ritualmente espletate per preclusione della possibilità di far valere la loro ipotetica inammissibilità, con la conseguenza che con l'appello la ricorrente non avrebbe potuto far valere la loro ipotetica irrituale ammissione.
Ora, nell'iniziare l'illustrazione del motivo la ricorrente non ha dedotto di aver fatto valere la pretesa violazione delle norme sui limiti di ammissibilità della prova per testi e la sentenza impugnata non si occupa della questione.
Tanto basterebbe ad evidenziare l'inammissibilità del motivo, perché sarebbe stato onere della ricorrente allegare di avere prospettato la questione con apposito motivo di appello. Se la ricorrente lo avesse fatto, il silenzio della Corte territoriale si sarebbe dovuto intendere come un'omessa pronuncia su motivo di appello e denunciarsi come tale in relazione all'art. 112 c.p.c..
La ricorrente, invece, pretenderebbe, in assenza di dimostrazione di avere prospettato la questione con l'appello e di denuncia di vizio ai sensi dell'art. 112 c.p.c., di ottenere che essa venga esaminata in questa sede di legittimità.
Inoltre, se la questione fosse stata oggetto di appello e, quindi, su di essa vi fosse stata omessa decisione e quest'ultima fosse stata denunciata in questa sede, oppure se la Corte territoriale l'avesse disattesa, tanto la denuncia dell'omessa pronuncia quanto la denuncia dell'errore della decisione non avrebbero avuto alcuna prospettiva di portare alla cassazione della sentenza, perché tanto l'omessa decisione quanto l'erronea decisione non sarebbero state in alcun modo decisive.
Questa Corte avrebbe dovuto, infatti, applicare il seguente principio di diritto: "Poiché i limiti di valore sanciti dall'art. 2721 c.c., riguardo all'ammissibilità della prova testimoniale non attengono all'ordine pubblico, ma sono dettati nell'esclusivo interesse delle parti private, qualora la prova venga ammessa in primo grado oltre i limiti predetti, essa deve ritenersi ritualmente acquisita se la parte interessata non ne abbia tempestivamente eccepito la inammissibilità in sede di assunzione o nella sua prima difesa successiva nell'ambito dello stesso grado di giudizio. Ne consegue che la relativa nullità, essendo rimasta sanata, non può essere eccepita e fatta valere per la prima volta in sede di appello neppure dalla parte che sia rimasta contumace volontaria nel giudizio di primo grado ed a maggior ragione non può essere eccepita per la prima volta in sede di legittimità". In precedenza si veda, in termini, Cass. n. 5069 del 1979.
p.5.3. Quanto, poi, alla critica sull'uso diretto di presunzioni direttamene effettuato dalla Corte territoriale, essa per un verso è apodittica, perché si limita a sostenere che le circostanze di fatto assunte come fatti fondativi della presunzione non sarebbero stati sintomatici del consenso ma non fornisce spiegazione dell'assunto ed inoltre, là dove assume che sarebbero stati contrastati da altre circostanze probatorie individua le stesse in documenti riguardo ai quali, come sè detto non adempie al requisito di cui all'art. 366 c.p.c., n. 6.
p.6. Il quarto motivo deduce "violazione e/o falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). Insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5)" e si duole della statuizione sulle spese, ma lo fa esclusivamente in dipendenza della fondatezza dei motivi precedenti: non si tratta, dunque, di un motivo effettivo, bensì solo della superflua richiesta di caducazione di quella statuizione in conseguenza della riforma della sentenza sperata per effetto dell'accoglimento dei precedenti motivi.
p.7. Il ricorso è conclusivamente rigettato.
Non è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile, il 9 gennaio 2012.
Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2012

 

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