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Uso della proprietà esclusiva – Corte di Cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 38639 del 06 dicembre 2021 - commento 

Condominio – Destinazione appartamento a casa di riposo per anziani – Regolamento di condominio – Divieto in assenza di autorizzazione dell’assemblea - Corte di Cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 38639    del 06 dicembre  2021 a cura di Adriana Nicoletti – Avvocato del Foro di Roma – Commento

FATTO. La questione oggetto della controversia concerneva l’impugnativa di una delibera assembleare, che aveva vietato a due condomini di destinare le proprie abitazioni a casa di riposo per anziani. Annullata la delibera dal giudice di primo grado per mancanza di specificità dell’ordine del giorno contenuto nell’avviso di convocazione dell’assemblea, il Tribunale specificava che la clausola del regolamento condominiale invocata dal condominio a fondamento del divieto non precludeva la destinazione in parola.

La Corte d’appello, invece, accoglieva parzialmente il gravame proposto dal condominio e dai condomini costituiti in proprio, dichiarando che l’attività di casa di riposo era vietata dal regolamento e che era del tutto irrilevante il fatto che la destinazione a civile abitazione era rimasta immutata, mentre il Tribunale aveva errato nell’interpretare un termine specifico della clausola richiamata (nella specie: “commerci”).

Avverso la decisione di secondo grado veniva proposto ricorso e ricorso incidentale per cassazione, lamentando i ricorrenti che l’attività in essere si qualificava come attività socio-assistenziale, estranea a quanto vietato dal regolamento di condominio. L’errore in cui era incorsa la Corte di appello era, pertanto, riconducibile ad un’interpretazione estensiva della prescrizione regolamentare con conseguente violazione dei canoni ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c.

I giudici di legittimità rigettavano entrambi i ricorsi. 

DECISIONE. Assumeva la Corte che le restrizioni alle facoltà inerenti al godimento della proprietà esclusiva, contenute nel regolamento di condominio, costituiscono servitù reciproche e, quindi, rappresentando l’espressione di una volontà contrattuale devono essere approvate con il consenso di tutti i condomini. Per opporre tali divieti ai terzi, invece, è necessario che la relativa clausola sia trascritta.

E’, altresì, necessario che la clausola limitativa sia enunciata in modo chiaro ed esplicito in modo da potersi desumere, dall’atto scritto, che le parti abbiano voluto costituire un vantaggio a favore di un fondo mediante l’imposizione di un peso o limitazione su un altro fondo appartenente ad un proprietario diverso. Non è, quindi, sufficiente il generico riferimento ai pregiudizi che si intende evitare essendo, invece, rilevante l’elencazione delle attività vietate.

Passando al caso specifico la Corte rilevava che la norma regolamentare, che poneva il divieto di esercitare una serie di attività nelle proprietà esclusive senza apposita autorizzazione assembleare, costituiva una pattuizione contrattuale con la quale erano stati imposti limiti alla libertà di utilizzazione delle porzioni individuali e non all’attività personale dei condomini. Con ciò assumeva rilevanza l’aspetto oggettivo (la pattuizione contrattuale, infatti, era finalizzata ad imprimere all’edificio determinate caratteristiche) del divieto e non quello soggettivo. Pertanto, i ricorrenti avevano errato nel ritenere che la tutela della servitù, costituita dalla clausola del regolamento condominiale, fosse subordinata al concreto pregiudizio derivante dagli atti lesivi.

Per quanto concerne, invece, l’asserita errata interpretazione della clausola regolamentare, da parte della Corte di appello non vi era stata alcuna violazione. Per i giudici del merito, infatti, il termine “commercio” comprende ogni utilizzazione delle proprietà esclusive che fornisca un servizio in cambio di prezzo, per cui la gestione di una casa per anziani costituisce un’attività imprenditoriale, con la conseguente necessità dell’autorizzazione dell’assemblea per il suo svolgimento.

Nessuna violazione, infine, dell’art. 1362 c.c. poiché se è vero che la norma (primo comma) prescrive che l’interprete deve indagare quale sia la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, è altrettanto vero che l’elemento letterale del contratto non è svalutato. Anzi, il legislatore – ad avviso dei giudici di legittimità - ha voluto ribadire che “qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, rivela con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, un diversa interpretazione non è ammissibile” (cfr. Cass. 22 agosto 2019, n. 21576).

Un principio, questo, di carattere generale correttamente applicato dai giudici di merito al caso in esame.