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Responsabilità civile – Danno cagionato da animali

La responsabilità, indicata dall’art. 2052 cod. civ., per il danno provocato da animali è caratterizzata dal fatto che i soggetti indicati dalla norma rispondono per il solo nesso di causalità, fra l’azione dell’animale e l’evento del quale è chiamato a rispondere il proprietario dell’animale, oppure il soggetto che l’abbia utilizzato. Detta responsabilità per danni causati dall’animale è esclusa solo se il responsabile (proprietario o chi si serve dell’animale), “provi il caso fortuito”. Corte di Cassazione Sez. 3, Sentenza n. 7260 del 22/03/2013 (massima a cura della redazione di Foroeuropeo)

Corte di Cassazione Sez. 3, Sentenza n. 7260 del 22/03/2013

 

Svolgimento del processo

Con citazione del 5.11.1993 Ci.Gi., premesso di essere proprietaria di una villa sita in Anacapri, confinante con un terreno di proprietà di At.El., sul quale questi aveva impiantato un alveare di oltre 40.000 api, lamentava che detti insetti infestavano la sua proprietà, creando fastidi e disagi alle persone e che danneggiavano il suo immobile con “propoli”, che lasciavano cadere sui terrazzi, infissi e parti esterne della villa.

Conveniva, pertanto, At.El. davanti al tribunale di Napoli per sentirlo condannare, ex art. 2052 c.c., al risarcimento dei danni ed al rimborso delle spese occorrenti per la riparazione delle parti danneggiate.

Il convenuto contestava l’assunto.

Il tribunale rigettava la domanda.

Proponevano appello Ci.Gi., Tu.Ge., Be., Lu. e Si.

La corte di appello di Napoli, con sentenza depositata il 10.1.2007, accoglieva l’appello e condannava il convenuto al pagamento nei confronti degli appellanti della somma di Euro 2.524,06, oltre gli interessi legali e le spese del doppio grado.

Riteneva la corte di merito che dalla consulenza tecnica disposta in primo grado emergeva che il convenuto aveva 10 arnie e 1 arnietta, con un numero di api eccessivo rispetto all’estensione del suo fondo, posto solo a ml. 180 dalla casa dell’attrice; che le sostanze scure che infestavano le terrazze e gli spazi esterni dell’immobile dell’attrice erano propoli, rilasciati dalle api nella loro attività di “bottinatrici”; che sussisteva la responsabilità del convenuto ex art. 2052 c.c., quale proprietario di dette api.

Avverso la suddetta sentenza proponeva ricorso per cassazione El.At.

Resistono con controricorso gli appellanti. Entrambe le parti hanno presentato memorie.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 2052 c.c., nonché l’omesso, insufficiente e contraddittoria motivazione e l’omesso esame di un punto decisivo della controversia, a norma dell’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.
Assume il ricorrente che la sentenza impugnata ha violato la presunzione di responsabilità ex art. 2052 c.c., poiché egli non era proprietario delle api di cui si discute e poiché i danni non erano stati causati dalle sue api, atteso che la zona è piena di vegetazione mediterranea e quindi anche di animali ed insetti che nella stessa vivono.

2. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2052 e 2967 c.c., nonché il vizio motivazionale dell’impugnata sentenza, a norma dell’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.
Secondo il ricorrente illegittimamente è stato ritenuto il nesso causale tra il fatto materiale di tali api, asseritamente a lui appartenute, e l’evento dannoso lamentato dalla parte attrice, mentre tale nesso doveva essere provato dal soggetto danneggiato.

3. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2052 c.c., per essere stata affermata la sua responsabilità sulla presunzione di una colpa in vigilando o in custodendo, non ipotizzabile in relazione ad animali selvatici, quali appunto le api.

4. Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2052 e 2043 c.c., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per non avere considerato che il preteso danno da “propoli” di api era da ascriversi esclusivamente al fatto che la villa dell’attrice si trovava in mezzo alla macchia mediterranea e quindi la presenza di tali propoli era la conseguenza dell’ubicazione della villa.

5.1. I suddetti 4 motivi vanno esaminati congiuntamente stante la loro connessione. Essi sono infondati e vanno rigettati.
Osserva preliminarmente questa Corte che la responsabilità, indicata dall’art. 2052 cod. civ., per il danno provocato da animali è caratterizzata dal fatto che i soggetti indicati dalla norma rispondono per il solo nesso di causalità, fra l’azione dell’animale e l’evento del quale è, chiamato a rispondere il proprietario dell’animale, oppure il soggetto che l’abbia utilizzato (Cass. 23.1.2006, n. 1210).
Detta responsabilità per danni causati dall’animale è esclusa solo se il responsabile (proprietario o chi si serve dell’animale), “provi il caso fortuito”.
Trattasi della stessa formula esimente adottata dal legislatore nell’ipotesi di responsabilità, per danno cagionato da cosa in custodia, di cui all’art. 2051 c.c.

5.2. Non si tratta, quindi di un caso di presunzione di colpa, ma di responsabilità, e, quindi, di responsabilità, oggettiva.
La responsabilità si fonda sul mero rapporto di uso dell’animale; e solo lo stato di fatto, e non l’obbligo di vigilanza, può, assumere rilievo nella fattispecie.
Infatti il dato lessicale della norma in esame ritiene sufficiente, per l’applicazione della stessa, la sussistenza del rapporto (proprietà o uso) tra il responsabile e l’animale che ha dato luogo all’evento lesivo. Sempre dalla lettera dell’art. 2052 c.c., emerge che il danno è cagionato non da un comportamento (per quanto omissivo) del responsabile, ma dall’animale, per cui detto comportamento è irrilevante.
Responsabile del danno cagionato dall’animale è colui che essenzialmente ha la proprietà o l’uso dell’animale, ma il termine non presuppone né implica uno specifico obbligo di custodire o di vigilare la cosa, e quindi non rileva la violazione di detto obbligo. Ciò è tanto più rilevante se si osserva che il contesto, nel quale trovasi la norma in questione, è relativo ad altre ipotesi (artt. 2047, 2048, 2050, 2054, c.c.) ben diversamente strutturate, in cui la presunzione non attiene alla responsabilità, ma alla colpa, per cui la prova liberatoria, in siffatte altre ipotesi, ha appunto ad oggetto il superamento di detta presunzione di colpa.

5.3. Il limite della responsabilità del proprietario (o utente) costituito dal fortuito, integra il punto nodale del dibattuto tema concernente la natura (soggettiva o oggettiva) della responsabilità, ex art. 2052 c.c. Se si dovesse sostenere la natura soggettiva della responsabilità, in questione (presunzione di colpa) il fortuito dovrebbe consistere solo nella situazione in cui il proprietario è esente da colpa, essendo invece irrilevante l’efficacia causale del fattore esterno sul nesso causale.
Sennonché tale assunto contrasta con il principio che la prova del fortuito non si identifica con l’assenza di colpa e può apparire artificioso, come rilevato dalla dottrina, in quanto la presunzione è logicamente costruibile solo sull’oggetto della prova contraria.
Se così è, il fatto che il proprietario sia stato diligente non esclude la sua responsabilità, per danno cagionato dall’animale, se non è provato il fortuito.

5.4. Poiché la responsabilità si fonda non su un comportamento o un’attività del proprietario, ma su una relazione (di proprietà o di uso) intercorrente tra questi e l’animale, e poiché, il limite della responsabilità risiede nell’intervento di un fattore (il caso fortuito) che attiene non ad un comportamento del responsabile (come nelle prove liberatorie degli artt. 2047, 2048, 2050 e 2054 c.c.), ma nelle modalità di causazione del danno, si deve ritenere che la rilevanza del fortuito attiene al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anziché all’animale che ne è, fonte immediata, il danno concretamente verificatosi. Si intende, così, anche la ragione dell’inversione dell’onere della prova prevista dall’art. 2052 c.c., relativa alla ripartizione della prova sul nesso causale. All’attore compete provare l’esistenza del rapporto eziologico tra l’animale e l’evento lesivo; il convenuto per liberarsi dovrà, provare l’esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.

6.1. Contrariamente all’assunto del ricorrente la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi suddetti. Anzitutto sulla base degli accertamenti effettuati dal C.T.U. la sentenza ha appurato che le api in questione provenivano (nella villa dell’attrice) dagli alveari del convenuto, attuale ricorrente, che si trovavano nel terreno posto a soli 180 ml., mentre non vi erano altri alveari nelle vicinanze; che nella proprietà del convenuto vi erano 10 arnie ed un’arnietta e che il numero delle api era eccessivo rispetto a quello che poteva nutrire il terreno del convenuto, per cui l’eccessivo carico delle api allevate dall’At. comportava necessariamente che queste uscissero dal suo terreno per “bottinare” le sostanze resinose su terreni attigui (nella specie quello dell’attrice); che dalla consulenza di ufficio emergeva la presenza sulla terrazza della villa, sulle pareti e sugli infissi di vistose macchie scure che analizzate sono risultati essere “propoli”, che è sostanza prodotta dalle api mellifere.
Ne consegue che, avendo la corte accertato che le api provenivano dalle arnie del convenuto e che la villa dell’attrice presentava vistose macchie scure costituite dai propoli delle api, correttamente ha ritenuto la responsabilità del convenuto, fondata sulla sola relazione di proprietà (o di uso) tra lo stesso e le api.
La corte ha rilevato, altresì, che il convenuto non ha fornito alcuna prova liberatoria del caso fortuito, anzi risultando accertato che lo sconfinamento delle api era dovuto all’eccessivo numero dello stesso rispetto alle potenzialità nutrizionali del terreno del convenuto.
Tali motivazioni della sentenza impugnata sono immuni da censure rilevabili in questa sede di legittimità.

6.2. Impostata in termini di responsabilità oggettiva è irrilevante ogni questione in merito alla pretesa mancanza di culpa in vigilando o in custodendo del convenuto o di altra forma di colpa.

6.3. Quanto alla censura secondo cui la consulenza non costituisce mezzo di prova, va osservato che la consulenza tecnica, anche se non costituisce, in linea di massima, mezzo di prova, ma strumento per la valutazione della prova acquisita, tuttavia rappresenta una fonte oggettiva di prova quando si risolve nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche (Cass. n. 15630/2000; 1020 del 19/01/2006).
Tanto si è appunto verificato nella fattispecie, in quanto la sentenza impugnata dà atto che solo un tecnico poteva indicare al giudice la natura della sostanza imbrattante la proprietà dell’attrice, il tipo di insetti che la produce, il tipo di apicoltura praticato dal convenuto e l’eccesivo numero di api possedute in relazione al terreno posseduto.
Ne consegue che è infondata la censura mossa dal ricorrente in merito alla circostanza che il giudice di merito abbia ricostruito i fatti di causa sulla base della consulenza tecnica.

6.4. Infondata è anche la censura di inapplicabilità alla fattispecie dell’art. 2052 c.c., vertendosi in ipotesi di animali selvatici.
E’ vero che in linea di principio (Cass. n. 27673 del 21/11/2008; Cass. 10008 del 24/06/2003) il danno cagionato dalla fauna selvatica non è risarcibile in base alla presunzione stabilita dall’art. 2052 cod. civ., inapplicabile alla selvaggina, il cui stato di libertà è incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della P.A., ma soltanto alla stregua dei principi generali sanciti dall’art. 2043 cod. civ., e tanto anche in tema di onere della prova con la conseguente necessaria individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico (cui generalmente fa capo la responsabilità dei danni da animale selvatico).
Sennonché nella fattispecie le api, come correttamente rilevato dal giudice di merito (cui tale accertamento di fatto compete) non sono “animali selvatici”, tenuto conto che essi sono pienamente gestite dall’apicoltore, che attraverso il loro “utilizzo” svolge un’attività economicamente rilevante.

7. Con il quinto motivo di ricorso il ricorrente lamenta il vizio motivazionale dell’impugnata sentenza ex art. 360 n. 5 c.c.
Il ricorrente si limita a dire: “le considerazioni che precedono rendono evidente l’illegittimità della sentenza impugnata anche in ordine alla sussistenza ed alla quantificazione del preteso danno apoditticamente ed immotivatamente affermato e liquidato dai giudici di appello nella sentenza che con il presente atto si impugna”.
Quindi il motivo si conclude con il presente quesito: “ dica la S.C. che ai fini della condanna risarcitoria e della quantificazione del danno ai sensi dell’art. 2052 c.c., deve essere accertato sia il danno sia la responsabilità”.

8. Il motivo è inammissibile sia per genericità sia per violazione dell’art. 366 bis c.p.c.
Va, infatti, osservato che il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ. (Cass. n. 359 del 11/01/2005).
Ne consegue che il motivo, come sopra proposto è inammissibile per genericità.
Inoltre è inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., non presentando un momento di sintesi, (c.d. quesito di fatto), conferente con quanto espresso nella doglianza.

8. Il ricorso va, pertanto, rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese del giudizio di cassazione sostenute dai resistenti.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione sostenute dai resistenti, liquidate in complessivi Euro 2200,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre accessori di legge.