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periodi di sospensione cautelare e di quella penale vanno considerati nella quantificazione della pena conclusiva - Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 20 luglio 2013, n. 126

Nella determinazione definitiva del periodo di sospensione dall’esercizio dell’attività professionale occorre tener conto dell’eventuale periodo di sospensione già scontato medio tempore dal professionista per quei medesimi fatti in forza di decisione cautelare del COA ovvero di provvedimento interdittivo penale (Nel caso di specie, il COA determinava il periodo di sospensione a conclusione del procedimento disciplinare sottraendo il solo periodo di sospensione cautelare già scontato dall’incolpato, senza tenere altresì in considerazione il tempo di interdizione stabilita in sede penale. In applicazione del principio di cui in massima, il CNF ha accolto il ricorso, sottraenedo dalla durata della sospensione disciplinare anche tale secondo periodo di tempo). Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 20 luglio 2013, n. 126 Pubblicato in Giurisprudenza CNF

Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 20 luglio 2013, n. 126

 

FATTO
Con deliberazione del 27 luglio 2011, depositata il 21 settembre 2011, il COA di Rovereto, ritenuta la responsabilità disciplinare dell'avv. M.V. per la maggior parte degli addebiti contestatigli, gli infliggeva la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio professionale per mesi otto, dai quali andava detratto il periodo di sospensione dallo stesso già sofferto in esecuzione della misura cautelare in precedenza applicatagli dal medesimo Consiglio.
Gli addebiti contestati con deliberazione 1 luglio 2009 erano i seguenti:
a) “per aver prestato contemporaneamente il suo patrocinio e la sua consulenza, anche per interposta persona, a favore di parti contrarie nel procedimento civile n. 1625/08 RG pendente davanti al Tribunale di Rovereto promosso dal Condominio M.nei confronti di V.S.Sr, e ciò contravvenendo agli art. 5 e 6 del Codice Deontologico Forense per aver violato i doveri di probità, dignità, decoro, lealtà e correttezza della professione, avendo posto in essere un comportamento non colposo riconducibile al reato di cui all’art. 381 c.p., nonché contravvenendo all’art. 37 del Codice Deontologico Forense per aver prestato attività professionale che ha determinato un conflitto con gli interessi di un proprio assistito. Fatto commesso in Arco e Rovereto, nel mese di novembre 2008.
b) nell’ambito del procedimento civile n. 1625/08 RG pendente davanti al Tribunale di Rovereto promosso dal Condominio M.nei confronti di V.S.Srl, per aver apposto, in calce alla procura alle liti scritta a margine del ricorso ex art. 696 bis cpc depositato nell’interesse del Condominio M., la falsa sottoscrizione dell’amministratore del predetto condominio. Di B. N. L., e quella per autentica dell’Avv. M. M. nonché, in calce al predetto ricorso, la falsa sottoscrizione di quest'ultimo, con le aggravanti di aver commesso il reato per eseguire quello di cui al capo a) e a scopo di lucro, e ciò contravvenendo agli art. 5 e 6 del Codice Deontologico Forense per aver violato i doveri di probità, dignità, decoro, lealtà e correttezza della professione, avendo posto in essere un comportamento non colposo riconducibile al reato di cui all’art. 481, commi I e II, e 61 n. 2 c.p. Fatto commesso in Arco, il 9 ottobre 2008.
c) per aver prestato contemporaneamente il suo patrocinio e la sua consulenza, anche per interposta persona, a favore di parti contrarie nel procedimento civile n. 86/08 RG pendente davanti al Giudice di Pace di Riva del Garda promosso dai sigg. G., F. e C. R. nei confronti di C. D., e ciò contravvenendo agli art. 5 e 6 del Codice
Deontologico Forense per aver violato i doveri di probità, dignità, decoro, lealtà e correttezza della professione, avendo posto in essere un comportamento non colposo riconducibile al reato di cui all’art. 381 c.p., nonché contravvenendo all’art. 37 del Codice Deontologico Forense per aver prestato attività professionale che ha determinato un conflitto con gli interessi di un proprio assistito. Fatto commesso in Arco e Riva del Garda, nel mese di ottobre 2008.
d) nell ’ambito del procedimento civile n. 86/08 RG pendente davanti al Giudice di Pace di Riva del Garda, promosso dai sigg. G.F. e C.R.nei confronti di C.D., per aver apposto, in calce alla procura alle liti scritta a margine della comparsa di costituzione e risposta depositata nell’interesse di C.D., la falsa sottoscrizione per autentica dell’Avv. A.G. nonché, in calce alla predetta comparsa, la falsa sottoscrizione di quest’ultimo, con le aggravanti di aver commesso il reato per eseguire quello di cui al capo c) e a scopo di lucro, e ciò contravvenendo agli art. 5 e 6 del Codice Deontologico Forense per aver violato i doveri di probità, dignità, decoro, lealtà e correttezza della professione, avendo posto in essere un comportamento non colposo riconducibile al reato di cui all’art. 481, commi le II, e 61 n. 2 c.p. Fatto commesso in Arco, il 13 ottobre 2008.
e) nell’ambito del procedimento civile n. 420/08 RG Es. Mob. pendente davanti al Tribunale di Rovereto, per aver apposto, in calce alla procura alle liti scritta a margine dell’atto di pignoramento presso terzi, la falsa sottoscrizione del creditore N. O. e quella per autentica della dott. ssa C. V., nonché, in calce al predetto atto di pignoramento, la falsa sottoscrizione di quest ’ultima, con le aggravanti di aver commesso il fatto a scopo di lucro, e ciò contravvenendo agli art. 5 e 6 del Codice Deontologico Forense per aver violato i doveri di probità, dignità, decoro, lealtà e correttezza della professione, avendo posto in essere un comportamento non colposo riconducibile al reato di cui all’art. 481, commi I e II, e 61 n. 2 c.p. Fatto commesso in Arco, il 25 ottobre 2008.
f) per aver corrisposto compensi all’agente della Compagnia Assicurativa DAS di Riva del Garda per ottenere difese e o incarichi in favore di clienti ivi assicurati, e ciò contravvenendo all’art. 19 del Codice Deontologico Forense per aver violato i divieto di accaparramento dì clientela. Fatto commesso in Arco negli anni dal 2005 al 2008.
g) per aver invitato l’avv. C. V. a prelevare l’originale di una costituzione di parte civile contenuta in un fascicolo penale del Giudice di Pace di Riva del Garda, e ciò contravvenendo agli art. 5 e 6 del Codice Deontologico Forense per aver violato i doveri di probità, dignità, decoro, lealtà e correttezza della professione.”
I fatti che avevano dato luogo all'apertura del procedimento disciplinare possono essere così sintetizzati:
A seguito di segnalazione pervenuta al Presidente del Consiglio dell’Ordine da parte dell'Avvocato C.V., in relazione a presunti comportamenti di rilevanza deontologica ascrivibili all’avvocato M.V., la stessa era invitata a rendere informazioni, che venivano assunte a verbale in data 19 gennaio 2009.
Poiché dalle dichiarazioni emergevano circostanze di possibile rilevanza penale, il verbale veniva trasmesso per le eventuali iniziative di sua competenza alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Rovereto, che avviava nei confronti dell’avvocato V. un procedimento penale.
Con deliberazione del 6 maggio 2009 il Consiglio, previa audizione dell’interessato, applicava all’avvocato V. la misura cautelare della sospensione temporanea (divenuta operativa il 15 maggio 2009) dall’esercizio della professione e con deliberazione del 1 luglio 2009, regolarmente notificata all’incolpato il successivo 9 luglio, veniva aperto il procedimento disciplinare.
Con successiva deliberazione del 15 luglio 2009 “ritenuto che i capi di incolpazione formulati a carico dell’avv. V. riproducono in larga parte le imputazioni penali per le quali lo stesso è indagato”, il COA sospendeva il procedimento disciplinare e, con la medesima deliberazione, ritenuto che nel frattempo le esigenze cautelari si erano notevolmente attenuate, disponeva la revoca (divenuta operativa il 21 luglio 2009) della misura cautelare in precedenza disposta.
Con sentenza n. 580/10 del 25 novembre 2010, divenuta irrevocabile il successivo 29 dicembre, il Tribunale di Rovereto applicava all’avvocato V., ai sensi dell’art. 444 c.p.p., la pena di mesi sei di reclusione ed euro .......... di multa, con conversione della pena detentiva ex art. 53 L. 24 novembre 1981 n. 689, per i reati di cui agli artt. 81, secondo comma, 381 e 481, primo e secondo comma, c.p..
A seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale, veniva acquisita dal Consiglio copia conforme della stessa e, con deliberazione di data 18 maggio 2011, veniva disposta la prosecuzione del procedimento disciplinare con la notifica del capo di incolpazione e la citazione per l’udienza del 15 giugno 2011, poi rinnovata per la successiva udienza del 27 luglio 2011.
Acquisita una memoria difensiva e sentito l’incolpato all’udienza del 27 luglio 2011, il Consiglio deliberava di infliggergli la sanzione della sospensione dall'esercizio professionale per mesi otto per i capi a), b), c), d) ed e), in ordine ai quali era stata emessa la suddetta sentenza penale passata in giudicato. Lo proscioglieva dalle incolpazioni di cui alle lettere f) e g) della citazione, non rientranti nei fatti oggetto della sentenza penale e non assistite, in sede disciplinare, da idonea prova.
Affermava il COA – a sostegno della propria pronunzia - che la statuizione penale, ancorché concretatasi in una sentenza ex art. 444 c.p.p., esplica efficacia di giudicato in sede disciplinare quanto all’accertamento dei fatti, alla loro illiceità penale e all’affermazione che l’imputato li ha commessi (art. 653, comma 1 bis c.p.p.), con la conseguente valutazione dei medesimi fatti anche sotto il profilo disciplinare e quindi con l'affermazione della responsabilità dell'incolpato per violazione dei precetti deontologici.
Non può dubitarsi, invero, - motivava il COA - che i reati di falso in atti costituenti esercizio della professione (falsificazione di firme di clienti e colleghi) e di infedele patrocinio sono tali da integrare la responsabilità disciplinare in relazione agli articoli 5 e 6 del codice deontologico, contestati all’incolpato, essendo evidente che le condotte da lui tenute costituiscono altrettante violazioni dei doveri di probità, dignità, decoro lealtà e correttezza della professione forense, e che il reato di cui all’art. 381 c.p. comporta anche la violazione dell'art. 37 del codice deontologico, contestato con riferimento ai fatti di cui alle lettere a) e b) del capo di incolpazione.
Quanto alla sanzione da irrogare riteneva il Consiglio, in conformità alla giurisprudenza di questo CNF e della Suprema Corte, che non fosse ammissibile l’applicazione di sanzioni basate su meri automatismi e che si dovesse effettuare una valutazione in concreto del comportamento dell'incolpato. Concludeva quindi per la sanzione della sospensione per mesi otto dall'esercizio della professione, che appariva, sempre a giudizio di detto Consiglio, appropriata tenuto conto dell'entità dei fatti, dell'assenza di precedenti disciplinari e dalla previsione che l'incolpato si sarebbe astenuto per il futuro dalla reiterazione di analoghi comportamenti
Avverso detta decisione – notificatagli il 5 ottobre 2011 - l'avv. M.V. proponeva ricorso a questo CNF con atto del 17 ottobre 2011, depositato presso il COA il 25 ottobre 2011.
Il ricorrente, dopo aver premesso che la scelta di definire i reati contestati tramitepatteggiamento era scaturita dal fatto che la stessa Procura non aveva individuato alcuna persona offesa o danneggiata e che vi era dunque la concreta possibilità di chiudere l’intera vicenda con il pagamento di una multa; ed avere precisato che non vi era stato alcun intento fraudolento nei suoi comportamenti; ribadendo che si trattava di fatti di assoluta tenuità, i quali, pertanto, nell’autonomia che caratterizza il procedimento disciplinare, ben avrebbero potuto essere come tali valutati, svolge un'analitica esposizione dei fatti relativi a ciascuno degli addebiti oggetto della deliberazione impugnata, da esso istante ricostruiti con la finalità di illustrare in questa sede la tenuità delle violazioni commesse e l'assenza di danni a terzi, elementi a suo giudizio utili per l'applicazione di una sanzione meno afflittiva di quella irrogatagli.
In particolare sui singoli addebiti deduce: Con riferimento all’addebito sub A),che a) l’ipotizzato patrocinio non aveva alcuno scopo illecito ma mirava solamente all’acquisizione di un accertamento tecnico preventivo, b) le parti erano solo apparentemente contrapposte e c) nessuno scopo di lucro era stato perseguito, considerato che non aveva ricevuto alcun compenso per l’attività svolta.
I clienti, inoltre, erano entrambi a conoscenza della situazione ed erano d’accordo nel promuovere un accertamento tecnico preventivo. La società S. era stata, peraltro, invitata a rivolgersi a un altro legale, come poi aveva effettivamente fatto.
Con riferimento all’addebito sub B), l’avv. V., pur ammettendo l’accaduto e affermando che si era trattato di una leggerezza, precisa di non aver mai percepito alcun compenso nella vicenda in esame.
Con riferimento all’addebito sub C), il ricorrente afferma che entrambe le parti erano a conoscenza della situazione di conflitto e che si erano, comunque, dichiarate soddisfatte del suo operato. Sottolinea inoltre che mentre per quanto riguarda il signor G. si era accontentato di un acconto pari a ....... euro, senza richiedere altro, dal signor C. non aveva percepito alcun compenso.
Con riferimento all’addebito sub D), ribadisce, come già sopra esposto, che il signor C. era a conoscenza del fatto che esso istante difendeva già anche la controparte e che non aveva percepito nessun compenso dallo stesso.
Con riferimento all’addebito sub E), afferma che il signor N., suo cliente, era perfettamente a conoscenza dell’iniziativa processuale posta in essere, come confermato dalle dichiarazioni dallo stesso rilasciate all’avv. M..
Il ricorrente contesta, altresì, l’applicazione dell’aggravante “di aver commesso il fatto a scopo di lucro”, considerato che non ha percepito alcun compenso per l’attività svolta.
Censura quindi l'impugnata deliberazione sotto due profili :
1) violazione degli artt. 2 e 3 del codice deontologico forense nella determinazione della pena;
2) violazione di legge (artt. 2 e 3 Codice deontologico) nella determinazione dell'effettiva pena da scontare laddove non si è tenuto in considerazione anche della misura cautelare applicata dal Tribunale di Rovereto (dal 25.3.2009 al 25.5.2009). Mancanza di motivazione sul punto.
Con il primo motivo il ricorrente lamenta che la sanzione è stata determinata in modo automatico e senza tenere conto della tenuità dei fatti e dell'assenza di danni a terzi, con violazione del principio della proporzionalità.
Con il secondo si duole della omessa considerazione della sospensione inflittagli dal GIP del Tribunale di Rovereto (dal 25.3.2009 al 25.5.2009), anch'essa sottraibile - a suo parere - dal periodo di sospensione deliberato dal COA.
Conclude chiedendo la riduzione del quantum della sanzione, non mancando di sottolineare che ha già sofferto due periodi di sospensione cautelare di cui uno soltanto è stato ammesso a detrazione dal COA.
Richiama tutta la documentazione prodotta davanti al COA e indica a testimoni:
- quanto all'addebito sub A e B i sigg.ri L. P., M. P., L. Di B., Avv. M. M., Avv. A. G.;
- quanto agli addebiti sub C e D il sig. C. R..
D I R I T T O
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2 e 3 del Codice Deontologico Forense relativi ai criteri da adottare nella determinazione della pena.
Egli, difatti, come già sopra esposto, pur non contestando i fatti addebitati e la specie della sanzione adottata, contesta la mancata valutazione di alcune circostanze attenuanti quali la composizione bonaria delle controversie, l’onestà degli intenti “...(la volontà era di chiudere delle controversie bagattellari” (p. 24 del ricorso), la buona fede, la giovane età del sottoscritto, l’autorizzazione del cliente, la modesta gravità dei fatti e “la circostanza che non potendo definire solo alcuni capi di imputazione con la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (art.444 c.p.p.) sono
stato costretto a patteggiare anche per circostanze che, per il loro reale accadimento, non integravano il reato contestato (addebito sub A, ma anche sub C) ” (p. 24 del ricorso).Il motivo è infondato.
Il COA, infatti, ha conseguentemente motivato le ragioni giustificatrici dell'applicazione della sanzione irrogata, precisando che la stessa non derivava automaticamente dalla condanna penale, ma era stata stata determinata previa valutazione in concreto del complessivo comportamento dell'incolpato, particolarmente grave, trattandosi della reiterazione di fatti deontologicamente scorretti riguardanti l'esercizio della professione forense, accertati peraltro con efficacia di giudicato con la sentenza penale. La funzione afflittiva della sanzione disciplinare appare congruamente commisurata, diversamente da quanto assume il ricorrente, al pregiudizio obiettivo che indipendentemente dall'esistenza del danno materiale subito dalle parti assistite.
Fondato è invece il secondo motivo del ricorso con il quale il ricorrente censura la deliberazione impugnata sotto il profilo del difetto assoluto di motivazione sul punto riguardante la deducibilità o meno della sanzione disciplinare della sospensione inflitta dal COA (mesi otto) del periodo di interdizione dell’esercizio professionale disposto dal GIP (mesi due).
La questione è stata totalmente ignorata dal COA e ciò esclude che il CNF possa fare uso della potestà di integrazione, di cui è provvisto, vertendosi, nel caso in esame, di motivazione del tutto inesistente e quindi non suscettibile di essere integrata.
Nel merito la questione va risolta in favore del ricorrente. Ritiene questo CNF che il provvedimento interdittivo del GIP e la misura cautelare disposta dal COA, producano nei confronti del professionista che ne è destinatario il medesimo effetto (la sospensione dall’attività) e presentano quindi, sotto il profilo afflittivo, un’indiscutibile efficacia di cui va dunque tenuto conto al momento della conclusione del procedimento disciplinare e della irrogazione della sanzione definitiva. Nel caso dell’impugnante, inoltre, la misura cautelare disposta dal COA non solo è immediatamente successiva alla pronuncia interdittiva del GIP, ma ciò che più rileva in questa sede, è stata addirittura deliberata con specifico ed esclusivo riferimento alla medesima, tant’è che appare – nell’iter logico che la giustifica – come prosecuzione del provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria, con il quale ha quindi finito per saldarsi, senza soluzione di continuità (addirittura i primi dieci giorni della misura cautelare si sovrappongono agli ulteriori 10 giorni della misura interdittiva).
Il COA ha ignorato siffatta genesi e siffatta sovrapposizione e continuità al momento della pronunzia conclusiva del procedimento disciplinare ed ha omesso di sottrarre il periodo di sospensione de quo. Né si rinviene nella deliberazione impugnata, come già si è osservato, alcuna motivazione che giustificasse siffatta disparità di trattamento posta in essere tra due situazioni di eguale portata afflittiva, che andavano assoggettate alla medesima disciplina ai fini della applicazione della sanzione disciplinare della sospensione di mesi otto.
P.Q.M.
Il Consiglio nazionale forense, riunito in Camera di Consiglio;
visti gli artt. 50 e 54 del R.D.L. 27.11.1933, n. 1578 e gli artt. 59 e segg. del R.D. 22.1.1934, n. 37;
accoglie parzialmente il ricorso e dispone che anche il periodo di interdizione disposto dal GIP venga detratto dalla sospensione di mesi otto, conferma nel resto l’impugnata decisione.
Così deciso in Roma il 18 aprile 2013 .