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Rapporti con i colleghi - Doveri di probità, correttezza e lealtà

Avvocato - Rapporti con i colleghi - Doveri di probità, correttezza e lealtà - Omesso pagamento delle prestazioni procuratorie affidate al collega - Illecito deontologico - Accordo di ripartizione dei compensi - Irrilevanza Consiglio Nazionale Forense decisione del 25-10-2010, n. 152

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con i colleghi - Doveri di probità, correttezza e lealtà - Omesso pagamento delle prestazioni procuratorie affidate al collega - Illecito deontologico - Accordo di ripartizione dei compensi - Irrilevanza Consiglio Nazionale Forense decisione del 25-10-2010, n. 152
 

-Consiglio Nazionale Forense decisione del 25-10-2010, n. 152  Pres. f.f. PERFETTI - Rel. VACCARO - P.M. GALATI (conf.) - avv. F.M.

Avvocato - Norme deontologiche - Rapporti con i colleghi - Doveri di probità, correttezza e lealtà - Omesso pagamento delle prestazioni procuratorie affidate al collega - Illecito deontologico - Accordo di ripartizione dei compensi - Irrilevanza

Avvocato - Procedimento disciplinare - Mancata risposta richiesta chiarimenti CdO - Violazione obbligo collaborazione - Sussistenza

Atteso il principio di autonomia del processo disciplinare, non sussiste un rapporto di pregiudizialità tra il procedimento disciplinare stesso e l'eventuale giudizio civile vertente tra esponente ed incolpato, in quanto i due procedimenti perseguono diverse finalità, essendo l'uno diretto ad accertare nella condotta dell'iscritto la violazione di regole deontologiche e l'altro la sussistenza di obbligazioni tra le parti. Ferme restando pertanto le competenze del giudice civile sull'an e sul quantum, costituisce illecito disciplinare, poiché realizzato in violazione dei doveri di correttezza e probità professionali, il mancato pagamento delle prestazioni procuratorie affidate al collega, sia pure in presenza di un accordo con costui avente ad oggetto la ripartizione dei compensi, trattandosi di convenzione in ogni caso inidonea a comprimere il fondamentale diritto al compenso professionale, peraltro regolato dalle tariffe forensi applicabili.

L'avvocato che ometta di fornire i chiarimenti al Consiglio dell'Ordine pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante, in quanto lesivo dei principi di solidarietà e collaborazione con il C.d.O., in ossequio ai quali il professionista è tenuto al rispetto delle disposizioni impartite dai competenti organi nell'attuazione delle proprie finalità istituzionali.

Nell'ambito di un procedimento disciplinare, la mancata risposta dell'iscritto agli addebiti comunicatigli e la mancata presentazione di osservazioni e difese non costituisce autonomo illecito disciplinare, pur potendo in ogni caso tali comportamenti essere valutati dall'organo giudicante nella formazione del proprio libero convincimento ex art. 24, I can. c.d.f.). Tuttavia, laddove, come nel caso di specie, la mancata ottemperanza alla richiesta di chiarimenti in relazione all'esposto presentato da un collega si sostanzi in un comportamento non giustificato da esigenze di difesa, intervenendo in un momento anteriore alla formulazione del capo d'incolpazione e poi reiterato nel corso del procedimento, il contegno omissivo è idoneo ad integrare l'illecito disciplinare (vd. art. 24, II can.). (Rigetta il ricorso avverso decisione C.d.O. di Roma, 5 marzo 2009).

Sentenza integrale:

FATTO e DIRITTO

Con esposto del 24.05.2006 al COA di Roma - reiterato al COA di Catanzaro, che ha
correttamente ritenuto la propria incompetenza per territorio, trasmettendo gli atti al
COA romano - l’avv. B.M. rappresentava di essere creditore insoddisfatto dell’avv.
F.M., dal quale era stato investito del patrocinio di diverse controversie riguardanti lo
stesso avvocato M. in proprio e/o società delle quali questi aveva in qualche misura la
gestione, ovvero ancora persone fisiche dallo stesso rappresentate.
Riferiva, in particolare, l’esponente: a) che in favore dell’avv. F.M. veniva liquidata dal
Tribunale di Roma la complessiva somma di € 475.828,98, disposta in favore dello
stesso a conclusione di procedura esecutiva che ha visto, sin dalla prima introduzione
della domanda principale, il patrocinio, l’assistenza, la difesa e la rappresentanza
dell’avv. B.M.; b) che l’avv. F.M. ebbe regolarmente ad incassare tale somma, sempre
con l’intervento professionale dell’esponente; c) che, nonostante l’esito indubbiamente
favorevole della controversia (vari giudizi proposti contro il Ministero della Pubblica
Istruzione, dai quali il M. ebbe a uscirne vincitore), il M. non avrebbe percepito alcun
compenso, nemmeno quello che i giudici avevano liquidato a titolo di spese legali; d)
che l’avv. F.M. risulta non aver provveduto ad ulteriori compensi professionali ancora
maturati dall’esponente e dovuti per altre vicende processuali, rispetto alle quali
l’esponente medesimo riceveva mandato direttamente dal M. (compensi non
specificamente indicati nella nota presentata al Consiglio, ma delle quali si riservava
analitica richiesta).
Successivamente, ad integrazione dell’esposto, l’avv. M. depositava in atti la
documentazione relativa al giudizio di assegnazione delle somme in favore dell’avv.
F.M. (ordinanza di assegnazione e nota della Banca d’Italia), riferendo di aver
provveduto alla rinuncia ai mandati, e depositando, altresì, la sua comunicazione
inviata direttamente all’avv. F.M..
In sede di convocazione davanti al Consigliere Segretario, in data 11.07.2006, l’avv.
F.M. – a fronte della richiesta da parte dell’esponente di € 90.000,00 (in tal modo
quantificata dallo stesso, considerando circa € 19.143,00 per ogni pratica svolta) –
offriva, in controproposta, la complessiva somma di € 30.000,00, da cui detrarre la
somma di € 5.000,00 già corrisposta all’avv. M., precisando, tuttavia, che tale somma
voleva essere corrisposta a totale definizione di ogni pendenza: tale proposta, al
contrario, sarebbe stata accettata dall’esponente a chiusura della sola posizione
indicata in esposto.
Successivamente, l’avv. B.M. provvedeva ad inviare al Consiglio una dettagliata
relazione di tutte le pendenze dallo stesso trattate in favore dell’avv. F.M.: nello stesso
dettaglio, la quantificazione dei compensi appariva di ingente importo (e le relative
posizioni delle parti particolarmente distanti), onde non fu possibile raggiungere la
conciliazione.
In effetti, l’avv. M., non solo nulla faceva per riscontrare la medesima comunicazione,
ma riteneva di non comparire a seguito di ulteriore convocazione avanti il Consigliere
Segretario nella successiva data del 14.09.2006.
Ritenuta, pertanto, la necessità di proseguire l’istruttoria preliminare (fase nella quale
l’avv. M., nonostante ritualmente informato dal Consiglio delle sue facoltà, non faceva
pervenire proprie deduzioni né rispondeva agli inviti di presentazione avanti il
Consigliere Istruttore del 10.10.2006 e del 20.11.2006), il COA di Roma, nell’adunanza
dell’8 marzo 2007, decideva di aprire a carico dell’avv. M. un procedimento
disciplinare, formulandogli il seguente capo d’incolpazione (regolarmente notificato e
trascritto nella citazione a comparire per l’udienza dibattimentale del 19.02.2009):
“A) Conferiva mandato professionale all’avv. B.M. affinchè questi patrocinasse in
giudizio società e persone fisiche già dallo stesso rappresentate nonché affinchè lo
patrocinasse in giudizio per questioni personali, in particolare nel ricorso promosso
innanzi al TAR del Lazio contro il Ministero della Pubblica Istruzione – giudizio
articolatosi in varie fasi e conclusosi con l’assegnazione della somma di euro
475.828,98 più euro 2.800,00 di spese legali – non provvedendo a corrispondere al
collega gli onorari a lui dovuti per la prestazione professionale effettuata, con ciò
violando i doveri di probità, correttezza e colleganza di cui al codice deontologico
forense. In Roma fino alla data odierna.
B) In sede di tentativo di conciliazione innanzi al Consigliere Segretario si impegnava
a valutare una proposta transattiva previo esame dell’elenco dettagliato degli incarichi
predisposto dall’esponente, omettendo poi invece di riscontrare la lettera in data
31.08.2006 da quest’ultimo inviatagli.
In Roma fino alla data odierna.
C) Ometteva di riscontrare le comunicazioni aventi ad oggetto la richiesta di deduzioni
da parte del Consiglio inviate in data 10.10.2006 e 20.11.2006, con ciò violando
l’obbligo di collaborazione con il Consiglio dell’Ordine.
In Roma fino alla data odierna”.
In sede dibattimentale, dopo aver disposto il rinvio dell’udienza alla data del 5 marzo
2009 per legittimo impedimento del difensore dell’avv. M., il COA – pur senza la
presenza dell’incolpato e del suo difensore, assenti ingiustificati – procedeva ad
escutere il teste avv. B.M., il quale, sostanzialmente, ribadiva il contenuto dell’esposto,
soggiungendo tra l’altro: che i mandati venivano conferiti tra l’anno 1995 e il 2006; che
l’avv. M., di fatto, aveva la gestione di numerose società e che gli incarichi relativi ad
esse società venivano conferiti direttamente all’avv. M.; che il suo credito, relativo ai
fatti esposti, ammontava a circa 80.000,00 €.
All’esito del dibattimento il COA di Roma, ritenuta la colpevolezza dell'incolpato in
ordine a tutti i capi d’incolpazione, gli infliggeva, anche in considerazione dei
precedenti, la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio della professione
per mesi sei.
Ritiene sussistente, il COA di Roma, dal complessivo comportamento dell’incolpato, la
volontarietà della condotta pregiudizievole perpretata in danno dell’esponente,
precisando che l’elemento intenzionale del mancato pagamento delle spettanze
dovute all’avv. M. sia condotta contraria ai doveri deontologici gravanti sul
professionista.
Tale comportamento risulterebbe aggravato – osserva il Consiglio – dalla provata
corresponsione in favore dell’avv. F.M. della ingente somma di € 475.828,98, allo
stesso regolarmente liquidata ed assegnata, a seguito di procedimento incardinato, in
ogni sua fase, con il patrocinio dell’esponente.
Oltre ai doveri di colleganza, per il Consiglio territoriale ad essere violata è anche la
disposizione codicistica che impone agli avvocati l’obbligo di leale collaborazione con il
Consiglio dell’Ordine, in quanto il M. non avrebbe provveduto a riscontrare le
comunicazioni del medesimo Consiglio, disattendendo nei fatti il dichiarato intento di
rendersi disponibile ad una conciliazione e rendendosi assente, senza legittima
giustificazione, nella successiva fase dibattimentale.
Quindi, in punto di dosimetria della sanzione concretamente applicabile, il COA di
Roma teneva in debita considerazione la storia disciplinare dell’incolpato, già
pesantemente sanzionato dal medesimo Consiglio negli anni precedenti, sino alla
cancellazione disposta in data 19.10.1995.
Con l’odierno gravame, l’avv. F.M. ritiene la sanzione concretamente inflittagli ingiusta
e comunque eccessiva in relazione ai fatti addebitati, chiedendone l’integrale
annullamento e/o, in subordine, una significativa riduzione.
In primo luogo contesta che la scelta dell’incolpato di non presenziare al dibattimento
relativo al proprio procedimento disciplinare possa determinare una violazione
dell’obbligo di collaborazione con il Consiglio. A ritenere diversamente vi sarebbe, per
il ricorrente, una grave violazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito, che
è pieno ed inviolabile, potendosi esercitare nel modo che l’incolpato (o l’imputato, nei
procedimenti penali) ritenga più opportuno (quindi anche non presenziando alle
udienze o addirittura rendendosi contumace), senza che nessuno possa sindacarne le
modalità di esplicazione.
Parimenti lesivo del diritto di difesa sarebbe poi l’assunto consiliare per cui il dovere di
collaborazione di cui al codice deontologico possa obbligare il professionista a
riscontrare le richieste di deduzioni formulate dal Consiglio nell’ambito di un
procedimento disciplinare.
Osserva il ricorrente che l’obbligo di collaborazione non può che essere limitato (nel
caso di un procedimento in atto o in fieri) ad un soggetto che rispetto a quel
procedimento sia di necessità terzo e non nel diverso caso in cui questi sia parte
interessata agli accertamenti o al procedimento in atto.
Quindi, in base alla preliminare considerazione che in nessun caso una norma
deontologica possa pregiudicare o limitare le modalità di esplicazione del diritto di
difesa, denuncia l’incostituzionalità dell’interpretazione operata nella decisione
impugnata, considerata paradossale ed in contrasto con i più elementari e
fondamentali principi dell’ordinamento.
Né, per motivi analoghi a quelli esposti, pare al ricorrente sia possibile solo ipotizzare,
sul mancato riscontro di una proposta transattiva, una qualche responsabilità
disciplinare del professionista, soggiungendo che nel caso di specie “è semplicemente
insorta una controversia tra due professionisti relativa alla sussistenza o meno di
reciproci diritti ed obblighi di natura civilistica, di tal chè il COA (o il codice
deontologico) non potrebbero sostituirsi al giudice (o alle leggi civili) al fine di obbligare
una parte in contesa con un’altra a specifici e determinati comportamenti che
involgano proprio i diritti in contesa”.
Conclude, sul punto, il ricorrente che i capi d’incolpazione sub B) e C) sarebbero del
tutto inconsistenti e viziati da un profondo travisamento sia della norma deontologica
che si assume violata sia del ruolo stesso che il Consiglio pretende di assumere nella
vicenda.
Argomenti che vengono ulteriormente riproposti con riguardo al capo A)
dell’incolpazione, in relazione al quale il ricorrente – dopo aver ribadito che nella
vicenda in esame viene soltanto in considerazione una controversia tra l’avv. M. e
l’avv. M. avente ad oggetto la presunta mancata corresponsione di onorari a favore del
secondo ed a carico del primo – denuncia il fatto che il COA avesse di fatto “usurpato”
poteri che “in via esclusiva appartengono al Giudice civile” (…), “unico soggetto
legittimato a stabilire l’esistenza di un obbligo giuridico a carico di una parte ed a
favore dell’altra”.
Insomma, secondo il ricorrente, il COA di Roma ha ritenuto di fare a meno di una
decisione sul punto del Giudice competente e di decidere direttamente una questione
(che si assume strettamente pregiudiziale) che non avrebbe potuto decidere.
Nega, peraltro, che l’avv. M. possa dirsi titolare di alcun diritto di credito nei suoi
confronti, ciò in base a degli accordi che sarebbero intercorsi tra i professionisti in
parola, in base ai quali il M., a corrispettivo dell’utilizzazione dello studio, della
segreteria e di ogni altro servizio, si sarebbe impegnato a collaborare con l’avv. M. ed
a prestare consulenza a favore di società e/o di persone ed enti di interesse dell’avv.
M., di guisa che nulla potrebbe essere richiesto dal M. al M. e/o agli enti che egli
comunque difendeva o che a lui faceva capo.
Inoltre eccepisce il ricorrente che l’avv. M. non abbia svolto reale ed effettiva attività,
rivestendo, nella maggior parte dei casi, una paternità solo formale di attività difensive
svolte da altri o dallo stesso incolpato.
A riprova di ciò il ricorrente evidenzia quanto accaduto a proposito della formazione
dello stato passivo della società A.I., ove il credito ammesso era stato opposto proprio
per le ragioni testè esposte (precisando che il giudizio è tutt’ora in corso ed allegando
l’atto d’impugnazione dei crediti ammessi nello stato passivo).
Sostiene, infine, l’avv. M. che, a prescindere dagli accordi tra loro intercorsi, lo stesso
ebbe a versargli (o a fargli versare), pur non essendone tenuto, in occasione di sue
necessità e richieste, non poche somme di denaro contante, circostanza di cui chiede
conferma a mezzo di testimoni indicati in calce al ricorso.
Insomma per il ricorrente la vicenda de qua non sarebbe limitata ad una semplice
violazione di doveri di correttezza, ma affonderebbe le sue radici in una contesa
largamente più complessa sulla quale sarebbe competente il Giudice civile.
Si insiste, dunque, affinché il Consiglio Nazionale Forense revochi, annulli e
comunque ponga nel nulla la decisione impugnata, eventualmente subordinando ogni
decisione – anche previa sospensione del procedimento – all’accertamento
pregiudiziale dell’esistenza e dell’ammontare dei crediti dell’esponente nei confronti
dell’incolpato.
In estremo subordine (salva espressa riserva di gravame) insiste affinchè il Consiglio
Nazionale riduca sensibilmente la sanzione concretamente inflittagli; allega
documentazione, chiedendo in via istruttoria, in ordine alla circostanza della
erogazione di somme di denaro contante da parte dello stesso incolpato all’avv. M.
nonché sulla intestazione solo formale di difese svolte da altri, l’esame dei testimoni
indicati in ricorso.
All’udienza del 10 dicembre 2009 davanti a questo Consiglio veniva chiesto e disposto
il rinvio, a causa dell’impedimento professionale dell’Avv. A.M., difensore del M..
All’udienza del 25 febbraio 2010 l’Avv. F.M. è comparso personalmente, assistito dal
detto Avv. A.M..
Previa relazione, il P.G. ha chiesto il rigetto del ricorso. L’Avv. M. ha preso
direttamente la parola sui fatti per cui è procedimento. L’Avv. M. ha insistito per
l’accoglimento del ricorso e in subordine ha chiesto il rinvio della trattazione, per
quanto riferito dall’incolpato e per l’audizione dei testimoni.
La decisione impugnata è scevra di errori e non merita le censure mosse con il
ricorso.
Con riguardo al capo A) dell’incolpazione, va subito chiarito che nessuna
“usurpazione” dei poteri, “che in via esclusiva appartengono al giudice civile”, può
essere ravvisata in capo al competente Consiglio territoriale.
Il fatto che la controversia tra l’avv. M. e l’avv. M., avente ad oggetto la presunta
mancata corresponsione di onorari, sia naturalmente questione attinente al diritto
civile, non preclude al COA, in tutta autonomia, di vagliarne le possibili ricadute in
ambito deontologico e disciplinare, certo peraltro essendo che, atteso il principio di
autonomia del processo disciplinare, non sussiste un rapporto di pregiudizialità tra il
procedimento disciplinare stesso e l'eventuale giudizio civile vertente tra esponente ed
incolpato, in quanto i due procedimenti perseguono diverse finalità, essendo l'uno
diretto ad accertare nella condotta dell'iscritto la violazione di regole deontologiche e
l'altro la sussistenza di obbligazioni tra le parti (cfr. Cons. Naz. Forense 30-09-2008, n.
103).
Anche nel merito della contesa tra i due professionisti, alla luce dei fatti accertati, della
documentazione riversata in atti e dei principi seguiti in sede disciplinare, le doglianze
del ricorrente non meritano accoglimento.
L’avv. F.M. contesta fermamente la titolarità in capo al collega M. di alcun diritto di
credito nei suoi confronti, sostanzialmente eccependo l’esistenza di un accordo nel
quale l’avv. M., a corrispettivo dell’utilizzazione del proprio studio professionale e dei
servizi di segreteria, si sarebbe impegnato a prestare consulenza a favore di società
e/o di persone ed enti di interesse dell’avv. M., all’uopo allegando l’atto d’impegno
intervenuto tra i due professionisti, peraltro privo di data.
Si evince dal suddetto atto d’impegno che, a titolo di corrispettivo per i servizi utilizzati
dall’avv. M., lo stesso si è impegnato a versare all’avv. M. la somma di Lire 600.000
(punto 3), mentre con riguardo alle consulenze a favore delle società e/o degli affari di
interesse dell’avv. M., il primo avrebbe percepito un indennizzo forfettario mensile di
Lire 600.000.
Di guisa che tra spese ed indennizzi forfettari, la collaborazione dell’avv. M. sarebbe
stata di fatto prestata senza consentire a questi di percepire alcun reddito effettivo; per
cui già sotto questo profilo la condotta dell’avv. M. andrebbe censurata.
Ma anche a prescindere dai suddetti rilievi, risulta (anche per stessa ammissione
dell’incolpato) che l’avv. M. aveva patrocinato la difesa dell’incolpato in diversi giudizi
proposti contro il Ministero della Pubblica Istruzione, dai quali l’avv. M. sarebbe uscito
vincitore vedendosi attribuite, e concretamente liquidate, somme ingenti (superiori a
400.000,00 €); e tuttavia, nonostante l’esito favorevole della controversia, l’avv. M. (in
qualità di legale rappresentante) non avrebbe percepito alcun compenso
professionale, nemmeno in relazione alle somme che i giudici avevano liquidato a
titolo di spese legali. Tale circostanza è di fatto non contestata dall’avv. M., che, in
relazione alle pretese creditorie del collega: eccepisce l’esistenza di un atto di
impegno, in base al quale l’avv. M. non potrebbe avanzare simili pretese; obietta che
quest’ultimo avesse svolto effettiva attività legale, “avendo mantenuto, il più delle
volte, la paternità semplicemente formale di attività espletata da altri” (vd., in proposito,
atto di impugnazione di crediti ammessi nello stato passivo, in atti); rileva che, in varie
occasioni, segnatamente in occasione di sue necessità e richieste, aveva provveduto
a corrispondergli non poche somme di denaro contante.
Certo perciò è il fatto che l’avv. M., in relazione alle diverse controversie patrocinate,
non ha percepito alcun compenso sugli onorari liquidati a titolo di spese legali,
contravvenendo di conseguenza l’avv. M. ai più elementari principi che presidiano la
professione forense.
L’esistenza di un accordo, come quello sopra riferito (che, peraltro, al punto 5 specifica
che nelle cause trattate congiuntamente gli incassi saranno suddivisi a metà, mentre,
invece, nella vicenda che qui interessa, l’avv. M. è il solo a patrocinare cause di
interesse dell’avv. M.), non può in ogni caso considerarsi efficace ed idoneo a
comprimere il fondamentale diritto al compenso professionale, peraltro regolato dalle
tariffe forensi applicabili.
La mancata corresponsione dei compensi di spettanza dell’avv. M. per l’attività
prestata e l’elemento di prova che si vorrebbe trarre dall’atto d’impegno offerto in
comunicazione gettano discredito sulla dignità e sul decoro dell'avvocato e quindi
sull'immagine dell'avvocatura, così integrando, il comportamento dell’avv. M., la
violazione dei doveri di correttezza e probità professionali.
Ferme restando le competenze del giudice civile sull’an e sul quantum, dunque, non
pare sia dubbio che costituisca illecito disciplinare il mancato pagamento delle
prestazioni procuratorie affidate al collega.
Peraltro, come già correttamente rilevato dal COA, il comportamento dell’avv. M.
risulta aggravato dalla provata corresponsione in suo favore della ingente somma di €
475.000,00, allo stesso regolarmente liquidata ed assegnata, a seguito di
procedimento incardinato, in ogni sua fase, con il patrocinio dell’esponente, rispetto al
quale l’incolpato ha ritenuto di non dover seguire l’adempimento di un proprio obbligo,
segnatamente collegato – per quanto in questa sede di competenza – a quello di
colleganza.
Alla luce di tali fatti, non appare necessaria una ulteriore integrazione istruttoria. I
documenti allegati al ricorso, come già detto, non valgono a supportare le tesi del
ricorrente. Le testimonianze che dovrebbero essere rese da soggetti non meglio
qualificati, su circostanze non meglio articolate, su pagamenti in contanti non
regolarizzati fiscalmente, non appaiono ammissibili davanti a questo Consiglio e
conducenti ai fini del decidere, essendo già sufficienti i fatti accertati e risultanti dalla
documentazione in atti.
Anche con riguardo alle condotte contestate sub B) e C), le doglianze del ricorrente
appaiono prive di pregio.
Si è detto, nella superiore esposizione in fatto, che l’avv. F.M., nonostante si fosse
impegnato a valutare una proposta transattiva previo esame dell’elenco dettagliato
degli incarichi predisposto dall’esponente, ometteva di riscontrare la lettera in data
31.08.2006 da quest’ultimo inviatagli.
In effetti, l’avv. M., non solo nulla faceva per riscontrare la medesima comunicazione,
ma riteneva di non comparire a seguito di convocazione avanti il Consigliere
Segretario nella successiva data del 14.09.2006.
Tale comportamento è stato poi reiterato durante la prosecuzione della preliminare
fase istruttoria, durante la quale l’avv. M., ritualmente informato dal Consiglio delle sue
facoltà, non faceva pervenire proprie deduzioni, né rispondeva agli inviti di
presentazione avanti il Consigliere Istruttore del 10.10.2006 e del 20.11.2006.
Sul punto la decisione impugnata, che censura il comportamento dell’incolpato alla
luce dei principi di correttezza, leale collaborazione e colleganza, appare giusta e
correttamente motivata.
Ed infatti, per giurisprudenza costante di questo Consiglio nazionale, commette un
comportamento deontologicamente rilevante l’avvocato che violi i doveri di correttezza
e lealtà che devono ispirare il comportamento del professionista nei rapporti con i
colleghi (art. 22 c.d.f.) e che non dia i richiesti chiarimenti al Consiglio dell’Ordine (art.
24 c.d.f.).
In quest’ultima ipotesi, l’avvocato che ometta di fornire i chiarimenti al C.d.O., pone in
essere un comportamento deontologicamente rilevante, in quanto lesivo dei principi di
solidarietà e collaborazione con il Consiglio dell’Ordine, per i quali il professionista è
tenuto al rispetto delle disposizioni impartite dai competenti organi nell’attuazione delle
proprie finalità istituzionali.
Ed ancora, la mancata sollecita risposta alle richieste di chiarimenti del Consiglio, in
merito all’esposto presentato, configura un’autonoma violazione disciplinare, ex art. 24
c.d.f.; giacché siffatto contegno disattende il dovere imposto a ciascun professionista
di collaborare con il C.d.O. per l’attuazione delle finalità istituzionali, dovendosi
ravvisare nelle omesse risposte un mancato rispetto verso le istituzioni collettive (vd.
Cons. Naz. Forense: 5.10.06, dec. n. 72; 13.05.02, dec. n. 55; 22.03.06, dec. n. 12;
17.01.05, dec. n. 13; 26.03.07, dec. n. 24).
Del resto, anche nel corso delle udienze dibattimentali, l’incolpato non si è presentato,
ciò senza addurre alcun legittimo impedimento.
E comunque l’assunto del ricorrente relativo alla violazione del diritto di difesa non
coglie nel segno.
Vero è che nell’ambito di un procedimento disciplinare la mancata risposta dell’iscritto
agli addebiti comunicatigli e la mancata presentazione di osservazioni e difese non
costituisce autonomo illecito disciplinare, pur potendo in ogni caso tali comportamenti
essere valutati dall’organo giudicante nella formazione del proprio libero
convincimento (vd. art. 24, II can. compl.). Tuttavia, nel caso di specie, la mancata
ottemperanza alla richiesta di chiarimenti (in relazione all’esposto presentato dal
collega) si è sostanziata in un comportamento non giustificato da esigenze di difesa,
intervenendo in un momento anteriore alla formulazione del capo d’incolpazione (vd.
art. 24, III can. compl.). Comportamento reiterato nel corso del procedimento.
La decisione impugnata va quindi confermata, anche alla luce della costante
giurisprudenza di questo Consiglio. Valgano, oltre a quelle già sopra citate: la
decisione n. 241/2000 con la quale è stato ribadito che “pone in essere un
comportamento rilevante l’avvocato che ometta di pagare le prestazioni procuratorie
affidate al collega …” (con sanzione della sospensione per mesi tre); nonché la
decisione n. 132/2000, che si attaglia alla fattispecie in esame, in quanto è stato
confermato che “viola i fondamentali principi deontologici l’avvocato che conferisca ad
un professionista l’incarico di rappresentarlo e difenderlo in un procedimento giudiziale
e che ometta di corrispondere al collega spese, competenze ed onorari richiestigli e
inoltre non fornisca al C.d.O. i chiarimenti richiesti” (con la conferma della sospensione
per mesi due).
Tornando al caso in esame, i precedenti disciplinari dell’incolpato inducono a
confermare il provvedimento impugnato anche con riguardo alla sanzione
concretamente irrogata, per i tre capi di imputazione, per condotte reiterate e
connotate da gravi violazioni, ritenute giustamente sussistenti dal Consiglio territoriale,
con decisione congruamente motivata, da condividere in toto ed in ogni parte.
Ed invero, tra l’altro: con decisione del 15 giugno 2005 il Consiglio dell’Ordine di
Catanzaro aveva inflitto allo stesso Avv. M. la sanzione della cancellazione dall’Albo;
con decisione n. 68/07 depositata il 30 maggio 2007, questo Consiglio Nazionale, in
parziale accoglimento del ricorso, aveva ridotto la sanzione disciplinare alla
sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per mesi dodici. In tali decisioni di
merito si fa riferimento ad altri precedenti dello stesso iscritto.

P.Q.M.

Il Consiglio Nazionale Forense, riunitosi in Camera di Consiglio;
visti gli artt. 37 del R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 e 59 e segg. R.D. 22 gennaio
1934 n. 37;
rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 25 febbraio 2010.

 

Documento pubblicato su ForoEuropeo - il portale del giurista - www.foroeuropeo.it