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Illegittima iscrizione a ruolo -  Risarcimento dei danni

Tributario - Illegittima iscrizione a ruolo -  Risarcimento dei danni al contribuente - Responsabilità dell’amministrazione ricorrente -Mancata osservanza dell'obbligo di conformarsi al giudicato penale. (Cassazione , sez. III civile, sentenza 27.01.2003 n° 1191 )

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato in data 11 aprile 1995 L.M. convenne innanzi al Tribunale di Milano il Ministero delle Finanze, esponendo: che nei suoi confronti il 17 marzo 1995 era stata iscritta a ruolo, per ‘anno 1983, l’imposta di fabbricazione di oli minerali per £ 9.580.669.100; che, in effetti, egli era stato rinviato a giudizio con ordinanza, sentenza del 22 settembre 1983 del giudice istruttore penale del Tribunale di Milano per i reati di associazione per delinquere, falso continuato in certificati di provenienza, evasione continuata dell’imposta di fabbricazione sugli oli minerali e trasporto illecito degli stessi; che su tali presupposti in data 21 giugno 1984 era stata pronunciata a suo carico ingiunzione doganale opposta davanti al Tribunale di Milano; che l’amministrazione finanziaria, non costituitasi in tale giudizio, aveva esercitato l’azione civile in sede penale; che per i reati fiscali egli, dopo essere stato condannato in primo grado, era stato assolto dalla Corte d’Appello di Milano per insufficienza di prove, mentre la Corte di Cassazione, con sentenza del 13 dicembre 1989, l’aveva assolto in via definitiva per non avere commesso il fatto; che, tuttavia, l’amministrazione finanziaria aveva indebitamente proceduto all’iscrizione dei tributi nei ruoli; tutto ciò premesso, l’attore chiese la declaratoria di illegittimità dell’iscrizione a ruolo e la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni, anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c.

L’Amministrazione delle Finanze si costituì, opponendosi alle domande e facendo valere la definitiva esecutività dell’ingiunzione doganale conseguente all’estinzione del processo di opposizione, non riassunto dopo la cancellazione.

Con sentenza depositata il 5 giugno 1997, il Tribunale adito dichiarò che il Ministero non aveva un titolo idoneo per procedere alla riscossione del tributo preteso nei confronti di L.M. in base all’ingiunzione 21 giugno 1984 e condannò il Ministero al risarcimento dei danni, liquidati in via equitativa in complessive £ 30.000.000, oltre interessi legali e spese.

Su gravame di entrambe le parti, la Corte di appello di Milano, con sentenza depositata in data 6 luglio 1999, respinse l’appello principale del Ministero delle Finanze ed accolse, per quanto di ragione quello incidentale del M., condannando l’amministrazione finanziaria al pagamento della maggior somma di £ 111.386.000, oltre interessi legali con decorrenza fissata dal giudice di prime cure.

Osservò, tra l’altro, in parte motiva la corte distrettuale: che, in effetti, l’amministrazione doganale di Milano aveva notificato a L.M. ingiunzione fiscale con cui si intimava il pagamento di £ 3.081.397.905 a titolo di imposta di fabbricazione evasa su Kg. 53.380.648 di gasolio; che il M. si era tempestivamente opposto, ma la causa, in cui l’amministrazione era rimasta contumace, era stata cancellata dal ruolo il 4 dicembre 1985 e non era stata più riassunta; che, peraltro, una volta pronunciata assoluzione definitiva dall’imputazione penale per gli stessi fatti di contrabbando per cui l’ingiunzione era stata emessa, l’amministrazione non avrebbe più potuto pretendere la riscossione di quei tributi, di cui il giudice penale per gli stessi atti di contrabbando per cui l’ingiunzione era stata emessa, l’amministrazione non avrebbe potuto pretendere la riscossione dei tributi, di cui il giudice penale aveva accertato l’inesistenza dei presupposti, essendo del tutto irrilevante l’argomentazione dell’appellante principale, relativa alla definitività dell’ingiunzione fiscale; che fondatamente l’attore aveva chiesto con la citazione originariamente proposta anche la condanna dell’amministrazione al risarcimento di tutti i danni conseguenti al suo illegittimo operato, e giustamente aveva indicato il titolo dei danni da risarcire nelle spese che aveva dovuto sostenere promovendo le varie procedure per non sottostare all’ingiusta pretesa del pagamento della somma di oltre dieci miliardi di lire; che in ordine alla liquidazione del quantum, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, il danno era oggettivamente determinabile nel suo preciso ammontare, con riferimento all’entità delle obbligazioni che L.M. aveva dovuto assumere per il pagamento del compenso ad un professionista che lo assistesse nei procedimenti tributari e amministrativi proposti, al fine di sottrarsi al pregiudizio sicuramente più grave di un’eventuale espropriazione forzata; che tale forme di danno erano di agevole determinabilità, potendo farsi ricorso al criterio legale sussidiario della determinazione della tariffa professionale, ex art. 2233 c.c., non ai fini della diretta liquidazione degli onorari spettanti all’avvocato che aveva assistito il M., a ma al più limitato fine di determinare in quale misura tali costi professionali potevano essere riconosciuti come misura del danno immediatamente risarcibile.

Per la cassazione della suindicata sentenza il Ministero delle Finanze ha proposto ricorso, sulla base di tre motivi, cui ha resistito L.M. con controricorso, illustrato da memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., deduce che la circostanza che il tributo non fosse più esigibile per effetto della sentenza di assoluzione con formula piena in sede penale, poteva attenere all’infondatezza e non già all’illiceità della condotta, che, invece, presupponeva un comportamento doloso o colposo, che nella specie non ricorreva, stante l’estrema difficoltà della questione di diritto in contestazione e l’irrinunciabilità dell’amministrazione alle proprie pretese fiscali.

Assume, infine, il Ministero ricorrente che la sentenza in esame confondeva l’infondatezza della pretesa fiscale e l’illiceità della condotta, ipotizzando, con grave e pericolosa generalizzazione, che la richiesta di pagamento di un tributo non dovuto fosse fonte di responsabilità extracontrattuale e di obblighi risarcitori da parte della Amministrazione.

La cesura è infondata.

La sentenza impugnata parte dalla considerazione secondo cui l’amministrazione finanziaria non aveva contestato in sede di appello la ragione costitutiva posta a base della domanda risarcitoria del M. e fatta propria dal giudice di prime cure, e cioè che, essendo stato il M. medesimo assolto in via definitiva in sede penale dai fatti di evasione tributaria addebitatigli, l’amministrazione non avrebbe potuto più procedere alla riscossione delle imposte asseritamente non assolte dal contribuente.

La corte distrettuale, poi, evidenzia che il sistema normativo vigente contiene il principio generale dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi al giudicato dei tribunali e che l’adeguamento della fattispecie tributaria all’accertamento dei fatti operato dal giudice penale debba essere compiuto, senza soggiacere al limite temporale della scadenza del termine per l’accertamento tributario.

Inoltre, l’obbligo dell’amministrazione finanziaria di uniformarsi alla sentenza penale definitiva, qualora, siano fiscalmente rilevanti i fatti in essa accertati, era comunque desumibile in via generale dall’art. 4 della L. 20 marzo 1865 n. 2248 all. E, senza che fosse necessario un apposito richiamo alle singole disposizioni fiscali, e ciò anche alla luce delle sentenze n. 120 del 23 marzo 1992 e n. 264 del 13 luglio 1997 della Corte Costituzionale.

Siffatte affermazioni non risultato specificamente impugnate dal Ministero ricorrente, che si è limitato a dedurre che erroneamente era stato ritenuto dal giudice di appello che l’iscrizione a ruolo del tributo in contestazione determinasse responsabilità extracontrattuale e fosse fonte della conseguente obbligazione risarcitoria del M.

Peraltro, in proposito va rilevato che l’ipotesi ricorrente nella fattispecie è del tutto analoga a quella che ha formato oggetto della pronuncia n. 8405 del 10 luglio 1992 di questa Corte regolatrice, emessa proprio in materia di imposta di fabbricazione sugli oli minerali, disciplinata dal r.d.l. 28 febbraio 1939 n. 334.

Come puntualizzato nella sentenza in parola, per il contrabbando di oli minerali il legislatore ha voluto creare debitore di imposta colui che sia stato scoperto autore dei relativi reati, tanto che, nella previsione di ciascuna ipotesi delittuosa, viene usato il termine chiunque per indicare che imposta e pena fanno capo al trasgressore, indipendentemente dalla sua veste di soggetto passivo del tributo prima che il reato fosse stato commesso.

Il presupposto, quindi, dell’obbligazione tributaria si identifica con la perpetrazione del reato, configurandosi il pagamento dell’imposta non come soddisfacimento di un obbligo tributario facente capo ad un determinato soggetto, ma come conseguenza della commissione del reato.

La disposizione normativa, infatti, prevede che il soggetto autore del reato, (che può non identificarsi con il naturale soggetto passivo del tributo, tale essendo soltanto il fabbricante e o l’esportatore di oli minerali, ma che può chiunque compie determinate condotte criminose) è punito con la pena prevista per il reato indipendente dal pagamento dell’imposta evasa: tale pagamento, cioè, si pone come una sorta di sanzione accessoria alla pena e trova pertanto il suo indefettibile presupposto nell’accertamento del reato.

Alla stregua di tali principi, appare evidente che, nella specie, la pronuncia assolutoria in sede penale aveva eliminato in radice il relativo potere impositivo dell’amministrazione, facendo venire meno il presupposto dell’obbligo tributario: donde l’inapplicabilità del meccanismo tributario di opposizione all’ingiunzione e del relativo termine di decadenza.

Al contrario, l’iscrizione a ruolo del tributo dopo l’assoluzione in sede penale del M. costituisce atto illegittimo, fonte di responsabilità dell’amministrazione ricorrente, per effetto della mancata osservanza, da parte della stessa, dell’obbligo dell’amministrazione di conformarsi al giudicato penale.

Tale obbligo del P.A. sussiste, secondo l’insegnamento di questo Supremo Collegio, anche nel campo della pura discrezionalità, dovendo la relativa attività provvedimentale svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge, ma della norma primaria del neminem laedere, per cui è consentito al giudice onorario di accertare se vi sia stato, da parte della stessa amministrazione, un comportamento colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo.

Infatti, stanti i principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione, dettati dall’art. 97 Cost., la P.A. è tenuta a subire le conseguenze stabilite dall’art. 2043 c.c., atteso che tali principi si pongono come limiti esterni alla sua attività discrezionale, ancorchè il sindacato di questa rimanga precluso al giudice ordinario (S.U. 18/5/95 n. 5477).

Pertanto, individuata correttamente dal giudice di merito la colpa della P.A., per avere la stessa violato non solo le regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, significativamente richiamate anche dalla recente legge 27 luglio 2002, n. 212 (c.d. Statuto del contribuente), ma anche l’obbligo di osservare le sentenze del giudice penale, è del tutto evidente la violazione della norma di cui all’art. 2043 c.c. posta in essere dal Ministero ricorrente.

Con il secondo mezzo il ricorrente si duole di violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056 e 1227 c.c., nonché degli artt. 90 e segg. del codice di rito, dei principi in tema di spese del giudizio tributario, oltre che di omessa ed insufficiente pronunzia su punti decisivi della controversia, ex art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5 c.p.c.

Deduce, in primo luogo, che la corte di appello milanese aveva erroneamente qualificato come danni le spese legali asseritamente sostenute dalla controparte per le varie azioni che sarebbe stata costretta ad intraprendere, in sede giurisdizionale ed amministrativa, per resistere alle ingiuste pretese dell’Amministrazione.

L’inquadramento delle spese legali tra i danni risarcibili non appariva corretto, atteso che la legge processuale contiene una disciplina autonoma della ripartizione delle spese di lite, inquadrandole nella disciplina del processo, piuttosto che in quella delle obbligazioni da fatto illecito.

Inoltre, con riferimento alle spese di giudizio sostenuto davanti la commissione tributaria, la corte di appello aveva proceduto alla liquidazione della somma complessiva di £ 50.000.000, senza valutare se si trattasse di spese necessaire o se esse erano state sostenute davanti a giudice competente.

In quest’ultima ipotesi, era del tutto illogica la determinazione di farne gravare i costi sull’Amministrazione, tanto più che alla stregua del previgente rito tributario, non era prevista la condanna dell’amministrazione per il caso di soccombenza.

La censura non merita accoglimento.

In ordine alla prima parte del motivo, va rilevato che, quando le spese di assistenza legale vengono in considerazione come elemento del danno subito in conseguenza di un fatto illecito, esse ben possono essere prese in considerazione a valutate come voce autonoma di danno, mentre la relativa valutazione rientra nell’insindacabile funzione del giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità, se, come nella specie, risulti congruamente motivata.

Per quanto concerne, poi, la pretesa incompetenza del giudice tributario in ordine al ricorso contro l’iscrizione a ruolo, è sufficiente rilevare che le S.U. di questa Corte, con la sentenza n. 126 del 12 aprile 2000 hanno statuito che: in tema di contenzioso tributario, e nel vigore dell’art. 11 D.L. n. 151 del 1991 convertito in legge n. 202 del 1991, l’opposizione avverso il ruolo emesso per il pagamento di imposte di fabbricazione deve essere proposta dinanzi alla commissione tributaria e non dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria, atteso che il citato art. 11 D.L. n. 151 cit. demanda alle commissioni tributarie il ricorso contro il ruolo formato ai sensi dell’art. 67 d.p.r. n. 43 del 1988, senza peraltro distinguere tra i diversi tributi indicati nel suddetto art. 67, dovendosi perciò ritenere che il legislatore abbia voluto estendere la giurisdizione alle commissioni tributarie anche a quelle imposte per le quali è prevista la formazione del ruolo, e perciò l’impugnativa di questo alla predetta commissione, anche quando dette imposte non risultino contemplate nell’art. 1 d.p.r. n. 636 del 1972.

Relativamente, infine, alla mancata previsione di condanna dell’amministrazione alle spese giudiziali per il caso di soccombenza in tema di contenzioso tributario, tale circostanza avvalora la legittimità della liquidazione in questa sede delle spese di assistenza legale per tale titolo.

Inammissibile è, infine , ad avviso della Corte, il terzo motivo del gravame, con il quale il ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 1223 c.c., in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., deduce che la corte di appello aveva proceduto alla liquidazione dei danni sulla base delle sole tariffe professionali, prescindendo da ogni prova affettiva del pagamento delle parcelle asseritamente dovute ai difensori del M., procedendo in tal modo alla liquidazione di danni meramente eventuali

Trattasi, infatti, di censura che come si evince dalla sentenza impugnata non risulta proposta in sede di merito.

In conclusione, il ricorso va respinto, con conseguente condanna del Ministero al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, 168,00 E, oltre onorari, liquidati in 2.000,00 E.

Così deciso alla c.c. del 24 ottobre 2002.

Depositata in Cancelleria il 27 gennaio 2003.