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Costruzione o riparazione di edifici o di altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata - Difetti costruttivi

In tema di appalto, avente ad oggetto la costruzione o riparazione di edifici o di altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata, l'indagine volta a stabilire se i difetti costruttivi ricadano nella disciplina dell'art. 1669 c.c., che comporta la responsabilità extracontrattuale dell'appaltatore, ovvero in quella posta dagli artt. 1667 e 1668 c.c. in tema di garanzia per le difformità e i vizi dell'opera, rientra nei compiti propri del giudice del merito, coinvolgendo l'accertamento e la valutazione degli elementi di fatto del caso concreto. Al giudice di merito spetta, altresì, stabilire se le acquisizioni processuali sono sufficienti a formulare compiutamente il giudizio finale sulle caratteristiche dei difetti, dovendo egli, al riguardo, non limitarsi alla mera verifica della sussistenza del pericolo di crollo ovvero alla valutazione dell'incidenza dei medesimi sulle parti essenziali e strutturali dell'immobile, bensì accertare anche se, pur afferendo ad elementi secondari ed accessori, essi siano tali da incidere negativamente, pregiudicandoli in modo considerevole nel tempo, sulla funzionalità e sul godimento dell'immobile.Corte di Cassazione Sez. 2, Sentenza n. 3464 del 12/02/2013  (Massima redazionale)

Corte di Cassazione Sez. 2, Sentenza n. 3464 del 12/02/2013

Svolgimento del processo


Con atto di citazione notificato il 13 e 14 febbraio 1995 il Comune di Gr. ed Un. conveniva in giudizio l’impresa Ed. che aveva eseguito i lavori (ultimati il 23 dicembre 1988) di rifacimento del tetto di copertura di villa Ca., ed i progettisti e direttori dei lavori Fa. Cl. e Mo. Gi. perchè, accertati i vizi e difetti dell’opera, rappresentati da infiltrazioni d’acque verificatesi nell’autunno 1993 e nell’inverno seguente, venissero condannati alla eliminazione degli stessi od, in via alternativa e subordinata, al pagamento del corrispettivo ed ai danni.
 Ritualmente costituitisi il Fa. e il Mo., gli stessi contestavano la domanda ed eccepivano la decadenza e la prescrizione dell’azione esperita; alla seconda udienza si costituivano Cu. Al., Os., Er. e Fu., soci della Ed. s.d.f., che eccepivano la tardività della denunzia e contestavano ogni responsabilità.
 Con sentenza del 1021 del 2001 (depositata il 12 giugno 2001), il Tribunale adito condannava il Fa. e il Mo. al pagamento, per il titolo dedotto in giudizio, della somma di L. 14.500,000 ed i Cu., in solido fra loro, al pagamento dell’importo di L. 29.000.000, oltre interessi e spese. La suddetta sentenza veniva appellata dal Fa. e dal Mo. ed in via incidentale dai Cu. La Corte di appello di Milano, nella costituzione del Comune appellato, in parziale riforma della decisione impugnata, con sentenza n. 527/05 (depositata il 24 febbraio 2005), condannava il Fa. e il Mo. al pagamento, ciascuno, della somma di Euro 3.208,49 ed i Cu., in via fra loro solidale, della somma di Euro 6.416,98, oltre accessori (come determinati nella sentenza impugnata) e spese del grado. A fondamento dell’adottata decisione la Corte territoriale rilevava, sul presupposto che era rimasta verificata l’esistenza di un grave difetto ai sensi dell’art. 1669 c.c. (il quale stabilisce una presunzione di colpa), che spettava ai responsabili della costruzione, per averla materialmente realizzata o diretto i lavori, dimostrare in concreto la mancanza della propria responsabilità e la c.t.u., pur escludendo un difetto di progettazione, aveva consentito di ricondurre i vizi dedotti in giudizio alle lacune esecutive dell’impresa appaltatrice ed al mancato sopperimento della direzione dei lavori (in tal senso confermando la sentenza impugnata con riferimento alla valutazione dell’equivalenza dell’apporto causale della condotta sia dei direttori dei lavori che dell’impresa esecutrice). La Corte territoriale rideterminava, tuttavia, gli importi da riconoscere a titolo risarcitorio rispetto a quelli quantificati con la sentenza di primo grado, essendo stato ingiustificatamente incluso in questi ultimi anche quello riconducibile alle spese necessarie all’eliminazione del vizio relativo all’orditura del tetto nonché quello inerente ad altre somme non rientranti nell’ambito delle opere oggetto della progettazione.
La suddetta sentenza di appello è stata impugnata in cassazione dal Mo. e dal Fa. con un unico ricorso riferito a sette motivi, al quale ha resistito con controricorso il Comune intimato. Disposta con ordinanza interlocutoria, adottata all’esito dell’udienza del 10 maggio 2012, l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli intimati Cu. Al., Cu. Os., Cu. Er. e Cu. Fu. con notificazione del ricorso presso il domicilio dagli stessi eletto in Como (nello studio degli Avv. Gi. Pr. e Si. D’An.), il difensore dei ricorrenti ha provveduto al conseguente adempimento, depositando ritualmente l’atto notificato. Gli intimati Cu. non hanno svolto attività difensiva in questa sede. Quindi, il Presidente ha rifissato l’udienza pubblica di discussione per il 10 gennaio 2013.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo i ricorrenti hanno denunciato la violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione al supposto vizio di extrapetizione sulla qualificazione giudiziale della domanda ricondotta al titolo di responsabilità previsto dall’art. 1669 c.c., che non era stato mai dedotto dal Comune committente con l’azione esperita. A tal proposito i ricorrenti hanno chiesto a questa Corte di statuire sulla sussistenza della legittimità o meno del potere del giudice di merito, qualora l’attore non richiami il titolo e la disciplina della responsabilità di cui all’art. 1669 c.c. né la disciplina da esso prevista, di procedere d’ufficio all’autonoma e diversa qualificazione della domanda e decidere il suo accoglimento in base agli artt. 1667 e 1668 c.c..
1.1. Il motivo è privo di fondamento e deve essere, perciò, respinto.
Costituisce principio pacifico che l’interpretazione della domanda giudiziale e la qualificazione dell’oggetto ad essa correlato spettano al giudice di merito sulla scorta delle allegazioni di fatto dedotte dalla parte; pertanto, nella fattispecie, la Corte di appello di Milano, riconfermando la correttezza della ricostruzione operata dal giudice di primo grado, ha rilevato che, in base agli elementi che caratterizzavano la domanda formulata dal Comune di Gr. ed Un., con riferimento ai lamentati vizi di un’opera che l’avevano resa inidonea alla sua funzione ed utilizzazione e ai titoli di responsabilità che erano individuabili a carico dei progettisti e direttori dei lavori nonché della ditta esecutrice, la domanda era stata ritualmente ricondotta all’azione contemplata dall’art. 1669 c.c., senza che, perciò, non risultando operata alcuna sostituzione d’ufficio di una diversa azione rispetto a quella proposta, fosse stato violato il principio di cui all’art. 112 c.p.c.. Del resto, secondo la condivisibile giurisprudenza precedente di questa Corte (cfr. Cass. n. 7080 del 1995 e Cass. n. 7537 del 2004), il giudice del merito, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, non è condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo egli tenere conto piuttosto del contenuto sostanziale della pretesa desumibile dalla situazione dedotta in causa e delle eventuali precisazioni nel corso del giudizio nonché del provvedimento chiesto in concreto, senza altri limiti che quello di rispettare il principio della corrispondenza della pronuncia alla richiesta e di non sostituire d’ufficio una diversa azione a quella formalmente proposta. Pertanto, la domanda con la quale venga chiesta la condanna dell’appaltatore ed, eventualmente, anche del progettista e del direttore dei lavori (per condotte negligenti a loro imputabili) ad eliminare in vizi dell’opera, bene è qualificata dal giudice di merito quale domanda di risarcimento in forma specifica del danno da responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 c.c. anziché quale richiesta di adempimento contrattuale ex art. 1667 c.c., allorché a suo fondamento siano dedotti difetti della costruzione così gravi da incidere sugli elementi essenziali dell’opera stessa, influendo sulla sua durata e compromettendone la conservazione (come verificatosi nel caso di specie).
2. Con il secondo motivo i ricorrenti hanno dedotto la violazione dell’art. 1669 c.c. nonché il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa la natura e la consistenza dei vizi e difetti denunciati con richiami a passaggi della relazione del c.t.u. In particolare, con tale doglianza, i due ricorrenti hanno contestato la riconducibilità dei vizi dedotti in giudizio nell’alveo dell’art. 1669 c.c., non afferendo essi ad elementi o porzioni rilevanti dell’immobile senza diminuirne le ordinarie possibilità di uso, essendosi sostanziati i lavori oggetto dell’appalto nell’esecuzione di opere di mero restauro conservativo di parti od elementi preesistenti dell’immobile, destinato a rimanere completamente inalterato nei suoi elementi essenziali.
2.1. Anche questo motivo è infondato e deve, quindi, essere rigettato. Deve, in primo luogo, ribadirsi che, pacificamente, al giudice di legittimità non è riconosciuto il potere di riesaminare l’intera vicenda processuale in relazione agli accertamenti di fatto acquisiti, bensì il solo potere di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della congruità sul piano della coerenza logica, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito a sostegno della propria decisione, oltre che naturalmente in ordine all’esatta applicazione delle norme di diritto in relazione alla specifica fattispecie dedotta in giudizio (e con riferimento alle violazioni eventualmente rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
 Orbene, anche alla stregua di quanto rilevato con riguardo al primo motivo, deve evidenziarsi che, in tema di appalto, avente ad oggetto la costruzione o riparazione di edifici o di altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata, l’indagine volta a stabilire se i difetti costruttivi ricadano nella disciplina dell’art. 1669 c.c., che comporta la responsabilità extracontrattuale dell’appaltatore, ovvero in quella posta dagli artt. 1667 e 1668 c.c. in tema di garanzia per le difformità e i vizi dell’opera, rientra nei compiti propri del giudice del merito, coinvolgendo l’accertamento e la valutazione degli elementi di fatto del caso concreto. Al giudice di merito spetta, altresì, stabilire se le acquisizioni processuali sono sufficienti a formulare compiutamente il giudizio finale sulle caratteristiche dei difetti, dovendo egli, al riguardo, non limitarsi alla mera verifica della sussistenza del pericolo di crollo ovvero alla valutazione dell’incidenza dei medesimi sulle parti essenziali e strutturali dell’immobile, bensì accertare anche se, pur afferendo ad elementi secondari ed accessori, essi siano tali da incidere negativamente, pregiudicandoli in modo considerevole nel tempo, sulla funzionalità e sul godimento dell’immobile. Alla stregua di ciò, la Corte territoriale ha adeguatamente motivato il suo convincimento in ordine alla riconducibilità dei vizi denunziati alla previsione dell’art. 1669 c.c. e tanto sia dal punto di vista fattuale, con riferimento agli accertamenti tecnici acquisiti, sia sul piano giuridico, con corretto rinvio alla giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 21351 del 2005; Cass. n. 20307 del 2011 e, da ultimo, Cass. n. 84 del 2013), per la quale i gravi difetti di costruzione che danno luogo alla garanzia prevista dall’art. 1669 c.c. non si identificano con i (soli) fenomeni che influiscono sulla staticità, durata e conservazione dell’edificio ma possono consistere in qualsiasi alterazione che, pur riguardando direttamente una parte dell’opera, incidano sulla struttura e funzionalità globale, menomando in modo apprezzabile il godimento dell’opera medesima, come ad esempio si verifica nel caso di infiltrazioni di acqua e di umidità per difetto di idonea realizzazione della copertura dell’edificio.
In particolare, il giudice di appello ha dato adeguatamente conto della natura e della gravità dei vizi riscontrati, considerando che - sul presupposto che l’opera da realizzare non consisteva in una mera manutenzione della copertura dell’edificio comunale, bensì nel totale disfacimento della struttura della copertura e nel suo rifacimento - i vizi ed i difetti non erano qualificabili in termini di scarsa rilevanza, poiché influivano sull’utilità e sulla possibilità di idoneo godimento dell’immobile, dal momento che erano rimaste accertate evidenti e diffuse manifestazioni di infiltrazioni sia sulla parete interna che su quella esterna della muratura, nonché sul sottogronda, le quali non consentivano al tetto dell’edificio di assolvere alla sua funzione di riparazione e di preservazione dalle intemperie della struttura sottostante, rilevando, altresì, anche l’ulteriore incisiva compromissione della funzione alla quale l’immobile pubblico era destinato in dipendenza del rischio di pericolo per i visitatori che non avrebbero potuto accedervi in condizioni di completa sicurezza, in considerazione della possibile caduta dei coppi.
3. Con il terzo motivo i ricorrenti hanno lamentato la violazione dell’art. 1669 c.c. anche in connessione alla mancata o contraddittoria motivazione sul nesso causale tra azioni od omissioni colpose imputabili ai progettisti ed i danni derivanti dai vizi e difetti in concreto riscontrati nella fattispecie, non essendo stato considerato che la loro opera professionale non avrebbe potuto dispiegarsi secondo la normale discrezionalità tecnica nell’ambito di diverse impostazioni di lavoro, ma era strettamente vincolata e limitata sotto vari aspetti, non trascurandosi la circostanza che la scelta dei materiali della copertura esterna era stata fatta dall’impresa appaltatrice.
3.1. Anche questa doglianza, che attiene ad una squisita valutazione di merito, non è meritevole di pregio.
Anche a tal riguardo la Corte milanese ha sufficientemente motivato il profilo relativo all’accertamento della responsabilità concorrente (con l’impresa esecutrice) dei due ricorrenti, sulla scorta dell’acclarata erroneità della scelta tecnica operata (e non contestata) dai due direttori dei lavori di utilizzare lastre sottocoppo inidonee ad impedire lo scivolamento dei coppi, anche in relazione alla pendenza, non modificabile, del tetto. In tal senso, il giudice di appello ha confermato la valutazione operata dal primo giudice in ordine al riscontro dell’omesso controllo, da parte dei due professionisti, sulla regolarità ed il buon andamento dell’opera, soprattutto con riferimento all’osservanza dell’obbligo del rispetto delle prescrizioni contenute nel progetto e nell’esecuzione dello stesso secondo le regole della conferente tecnica. Argomentando in questa direzione la Corte lombarda si è, perciò, conformata al condivisibile indirizzo giurisprudenziale di legittimità (v., in particolare, Cass. n. 11359 del 2000 e Cass. n. 15124 del 2001), in base al quale, in tema di responsabilità conseguente a vizi o difformità dell’opera appaltata, il direttore dei lavori per conto del committente, sebbene presti un’opera professionale in esecuzione di un’obbligazione di mezzi e non di risultati, poiché è chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l’impiego di peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente - preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della “diligentia quam in concreto”; costituisce, pertanto, obbligazione del direttore dei lavori l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica. Conseguentemente non si sottrae a responsabilità ove ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore ed, in difetto, di riferirne al committente.
E’ stato, altresì, precisato in proposito da questa Corte (v. Cass. n. 4366 del 2006) che, in materia di responsabilità conseguente a vizi o difformità dell’opera appaltata, l’attività del direttore dei lavori per conto del committente si concreta nella concreta sorveglianza dell’esecuzione delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento di operazioni di natura elementare, comporta il controllo della realizzazione dell’opera nelle sua varie fasi e pertanto l’obbligo del professionista di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell’impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell’arte e la corrispondenza dei materiali impiegati. E’ importante ancora rimarcare (cfr. Cass. n. 7992 del 1997 e, da ultimo, Cass. n. 8016 del 2012) che il vincolo di responsabilità solidale fra l’appaltatore ed il progettista e direttore dei lavori, i cui rispettivi inadempimenti abbiano concorso in modo efficiente a produrre il danno risentito dal committente, trova fondamento nel principio di cui all’art. 2055 c.c., il quale, anche se dettato in tema di responsabilità extracontrattuale, si estende all’ipotesi in cui taluno degli autori del danno debba rispondere a titolo di responsabilità contrattuale, rimanendo ininfluente la natura dell’obbligazione - se di risultato o di mezzi - che il professionista assume verso il cliente committente dell’opera data in appalto.
4. Con il quarto motivo i ricorrenti hanno censurato la sentenza impugnata per assunta violazione dell’art. 1669 c.c. con riferimento all’aspetto relativo alla decorrenza del termine annuale di prescrizione.
4.1. Anche questo motivo non è meritevole di accoglimento.
Secondo la prospettazione dei ricorrenti la Corte territoriale avrebbe errato nel far decorrere il termine utile prescrizionale per l’esercizio dell’azione di cui all’art. 1669 c.c. dal luglio 1994 allorquando l’ente comunale aveva avuto, in seguito all’espletamento di apposito accertamento tecnico da parte di un professionista incaricato, piena consapevolezza dell’entità e della portata dei difetti riguardanti l’esecuzione dei lavori appaltati e non, invece, dall’invio della lettera del 16 settembre 1993, con la quale lo stesso ente aveva comunicato all’impresa appaltatrice e agli stessi due professionisti ricorrenti l’accertamento di una copiosa caduta di acqua sulle quattro facciate dell’edificio causata dallo scivolamento verso le gronde dei coppi di copertura, i quali non convogliavano più l’acqua nei canali.
Osserva, in proposito, il collegio che, per costante insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, l’identificazione degli elementi conoscitivi necessari e sufficienti onde possa individuarsi la “scoperta” del vizio ai fini del decorso del computo del doppio termine annuale posto dall’art. 1669 c.c. - il primo di decadenza per effettuare la “denunzia” ed il secondo, che dalla denunzia stessa comincia a decorrere, di prescrizione per promuovere l’azione - deve effettuarsi con riguardo tanto alla gravità dei vizi dell’opera quanto al collegamento causale di essi con l’attività progettuale e costruttiva espletata, sì che, non potendosi onerare il danneggiato di proporre senza la dovuta prudenza azioni generiche a carattere esplorativo o comunque suscettibili di rivelarsi infondate, la conoscenza completa, idonea a determinare il decorso del doppio termine, dovrà ritenersi conseguita, in assenza di convincenti elementi contrari anteriori, solo all’atto dell’acquisizione di idonei ed univoci accertamenti tecnici. Da ciò consegue che, nell’ipotesi di gravi vizi dell’opera la cui entità e le cui cause, a maggior ragione ove già oggetto di contestazioni tra le parti, abbiano, anche per questo, reso necessario l’espletamento di apposite indagini tecniche, è consequenziale ritenere che una denunzia di gravi vizi da parte del committente possa implicare un’idonea ammissione di valida scoperta degli stessi tale da costituire il dies a quo per la decorrenza del termine di prescrizione ed, a maggior ragione, tale da far supporre una conoscenza dei difetti di tanto antecedente da implicare la decadenza, solo quando, in ragione degli effettuati inequivoci accertamenti, risulti dimostrata la piena comprensione dei fenomeni e la chiara individuazione ed imputazione delle loro cause (cfr. Cass. n. 2977 del 1998; Cass. n. 1993 del 1999; Cass. n. 4622 del 2002 e Cass. n. 11740 del 2003).
Ciò non significa, come pure ha evidenziato questa Corte con decisioni del tutto coerenti con i principi sopra richiamati, che il ricorso ad un accertamento tecnico possa giovare al danneggiato quale “escamotage” onde essere rimesso in termini quando dell’entità e delle cause dei vizi avesse già avuta idonea conoscenza, ma solo che compete al giudice del merito accertare se la conoscenza dei vizi e della loro consistenza fosse stata tale da consentire una loro consapevole denunzia prima ed una non azzardata iniziativa giudiziale poi, anche in epoca precedente, pur senza l’ulteriore supporto del parere di un perito (cfr. Cass. n. 1016 del 1992 e Cass. n. 1993 del 1999 cit.).
Nel caso in esame, la Corte territoriale, con apprezzamento in fatto adeguatamente motivato, ha condiviso la decisione del tribunale che, sebbene le prime infiltrazioni d’acqua si fossero manifestate fin dall’autunno 1993, secondo lo stesso Comune, l’individuazione della loro effettiva causa nello scivolamento dei coppi cui era seguita la manifestazione della gravità dei conseguenti effetti (con l’acquisizione, quindi, della certezza della sussistenza del relativo nesso eziologico) era avvenuta solo all’esito dell’accertamento svolto dall’arch. Ca. nel luglio 1994, sulla scorta della quale, una volta intervenuta la piena consapevolezza della natura e dell’entità dei difetti, era stata introdotta, nel termine annuale prescrizionale di cui al comma secondo dell’art. 1669 c.c., la controversia risarcitoria (il cui atto di citazione era stato notificato nel febbraio 1995).
5. Con il quinto motivo, formulato in via subordinata, i ricorrenti hanno dedotto la violazione degli artt. 1669 e 1224 c.c. sul presupposto che la Corte di appello aveva errato nel liquidare interessi forfettari nella misura del 6%, con decorrenza dalla fine del 1993, sugli importi determinati dal c.t.u..
5.1. Questo motivo è da ritenere inammissibile per difetto della sua idonea specificità perchè, ancorché nella sentenza di appello qui impugnata i ricorrenti risultano condannati anche al pagamento degli accessori “come determinati nella sentenza di primo grado”, nella doglianza in questione manca ogni preciso riferimento alla correlazione tra il “decisum” del primo giudice e le statuizioni adottate in appello e, conseguentemente, alla possibile individuazione degli errori commessi dal giudice di appello nella determinazione degli accessori in relazione al motivo di gravame proposto.
6. Con il sesto motivo, anch’esso proposto in via subordinata, i ricorrenti hanno lamentato la violazione dell’art. 91 c.p.c. e dell’art. 6 della tariffa professionale in ordine alla determinazione delle spese, sul presupposto che le stesse erano state liquidate dalla Corte di appello in modo forfetario per diritti ed onorari, senza procedere alla distinta tassazione delle spese borsuali e senza porre riferimento allo scaglione di valore del credito riconosciuto.
6.1. Anche questo motivo è da dichiarare inammissibile per genericità della sua formulazione. Ad avviso, infatti, della costante giurisprudenza di questa Corte, la parte che intende impugnare in sede di legittimità il capo relativo alla liquidazione dei diritti e degli onorari ha l’onere di provvedere alla analitica specificazione delle voci di tariffa professionale che si assumono violate e alla individuazione dei corrispondenti importi che sarebbero spettati legittimamente in base alla fascia tariffaria concretamente applicabile. Non avendo i ricorrenti assolto a tale onere, il motivo si prospetta inammissibile.
 7. Con il settimo ed ultimo motivo - anch’esso avanzato in via subordinata - i ricorrenti hanno denunciato il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla graduazione della responsabilità e della colpa per i danni derivanti dai vizi e difetti tra appaltatore e professionisti.
7.1. Quest’ultimo motivo è anch’esso privo di pregio e va disatteso.
Al di là dell’incompatibilità della contemporanea deduzione dell’omessa ed insufficiente motivazione, il collegio rileva che la Corte milanese ha fornito una congrua e logica giustificazione argomentativa del suo convincimento circa la ritenuta equivalenza dell’apporto causale, nella determinazione dei danni, della condotta dei direttori dei lavori e dell’impresa esecutrice, considerando, in relazione al caso concreto ed in difetto dell’allegazione di idonei elementi contrari, come, in effetti, i due professionisti e la ditta appaltatrice avessero concorso (in ordine al disposto dell’art. 2055 c.c., il quale, oltretutto, nel dubbio, prevede che le singole colpe si presumono uguali: cfr. Cass. n. 1 del 1976; Cass. n. 12367 del 2002; Cass. n. 20294 del 2004 e, da ultimo, Cass. n. 14650 del 2012) in pari misura nella realizzazione dell’evento generatore degli effetti dannosi, dal momento che, avuto riguardo alla caratteristiche dell’opera e alle inerenti difficoltà di esecuzione (con particolare riferimento alla pendenza del tetto), la negligenza agli stessi imputabile era valutabile in modo uguale. In relazione alla colpa addebitabile ai due professionisti (già, peraltro, oggetto del secondo motivo, ritenuto ugualmente infondato), la Corte territoriale ha, in proposito, valorizzato la particolare rilevanza della loro “culpa in vigilando”, tradottasi nel mancato sopperimento, attraverso l’espletamento di un’adeguata direzione dei lavori, alle lacune esecutive dell’impresa appaltatrice, così da rendere altrettanto grave (ovvero nella misura corrispondente a quella dell’impresa) il loro apporto causale nella determinazione del fatto dannoso.
Trattasi, pertanto, di un accertamento di merito adeguatamente valutato e motivato e, come tale, incensurabile nella presente sede di legittimità.
8. In definitiva, alla stregua delle complessive ragioni esposte, il ricorso deve essere integralmente respinto, con la conseguente condanna dei ricorrenti, in via fra loro solidale, al pagamento, in favore del Comune controricorrente, delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo sulla scorta dei nuovi parametri previsti per il giudizio di legittimità dal D.M. Giustizia 20 luglio 2012, n. 140 (applicabile nel caso di specie in virtù dell’art. 41, stesso D.M.: cfr. Cass., S.U., n. 17405 del 2012). Non bisogna, invece, adottare alcuna statuizione sulle spese con riferimento al rapporto processuale instauratosi nei confronti degli altri intimati, non avendo questi ultimi svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in via fra loro solidale, al pagamento, in favore del Comune controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori nella misura e sulle voci come per legge.