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Locazione -Restituzione della cosa locata

Locazione -Restituzione della cosa locata - Contratto cessato per la perdita o per il deterioramentodella cosa stessa - Il locatore deve essere indennizzato di tutte le conseguenze pregiudizievoli subite visualizza sentenza

Locazione - Restituzione della cosa locata - Contratto cessato per la perdita o per il deterioramento della cosa stessa - Il locatore deve essere indennizzato di tutte le conseguenze pregiudizievoli subite (Cassazione – Sezione terza civile – sentenza 17 febbraio-9 giugno 2003, n. 9199)

Svolgimento del processo

1. Nel 1989 Nicolina Pxxxxxxxx, proprietaria di un immobile sito in Terzino e locato per uso di negozio e deposito alla Sxxxxxxx sas, convenne in giudizio la conduttrice (in persona del socio accomandatario Giuliano) innanzi al Tribunale di Napoli chiedendone la condanna al risarcimento dei danni riportati dall’immobile a seguito di un devastante incendio sviluppatosi nella notte tra il 24 ed il 25 giugno del 1988, nonché del danno da lucro cessante.

La convenuta resistette e chiamò in garanzia la spa Assicurazioni Generali, con la quale aveva stipulato una polizza per il rischio da incendio, chiedendo di essere tenuta indenne dalle pretese risarcitorie della proprietaria Pxxxxxxxx.

Anche la chiamata resistette, deducendo tra l’altro che il contratto di assicurazione era stato stipulato per conto di chi spetta, sicché solo la Pxxxxxxxx avrebbe potuto domandare il versamento dell’indennizzo; che la domanda era improponibile in ragione della clausola che prevedeva l’arbitrato irritale per la determinazione del danno; l’insussistenza dell’obbligazione risarcitoria fino all’ accertamento in sede penale delle cause dell’incendio; l’infondatezza nei propri confronti della domanda relativa al risarcimento del danno da lucro cessante in quanto la polizza assicurativa copriva solo i danni riportati dal fabbricato.

Espletata consulenza tecnica d’ufficio, con sentenza depositata l’11.3.1997 l’istituito Tribunale di Nola al quale la causa era stata rimessa, condannò solidalmente il Giuliano e la società assicuratrice al pagamento della somma di lire 209.737.000 (oltre agli interessi dal trentesimo giorno dalla conclusione del procedimento arbitrale) ed il Giuliano, inoltre, al pagamento della differenza fino a concorrenza della somma di 551.730.461, da rivalutarsi dal 1994.

2. La sentenza era autonomamente impugnata dalla Pxxxxxxxx, dal Giuliano e dalla Sxxxxxxx sas, nonché, incidentalmente, dalla spa Assicurazioni Generali. Con sentenza 1339/00 la Corte d’appello di Napoli riformò la sentenza in punto di condanna del Giuliano in proprio anziché della società Sxxxxxxx di cui era accomandatario, di determinazione delle spese giudiziali spettanti alla Pxxxxxxxx e di entità del debito delle Assicurazioni Generali nei confronti della stessa, determinato nel 60% dell’importo di lire 209.737.000 in ragione della presenza di coassicurazione per il 40% da parte di altra società assicuratrice, con conseguente condanna della Pxxxxxxxx alla restituzione della maggior somma percepita.

3. Avverso detta sentenza propongono autonomi ricorsi per cassazione Nicolina Pxxxxxxxx sulla base di due motivi e la Sxxxxxxx sas sulla base di tre motivi.

A ciascun ricorso resistono i rispettivi intimati con distinti controricorsi.

Motivi della decisione

1. I ricorsi devono essere riuniti, siccome proposti avverso la stessa sentenza.

2.1. È logicamente preliminare l’esame del primo motivo del ricorso della Sxxxxxxx srl che - denunciando violazione e falsa applicazione degli articoli 1581, 1588 e 2051 Cc; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione; omesso esame di un punto decisivo della controversia in relazione all’articolo 360, nn. 3 e 5 Cpc - si duole che la corte d’appello abbia ritenuto insuperata la presunzione di colpa del conduttore che, a mente dell’articolo 1588, comma 1, Cc, non provi che il deterioramento derivato da incendio sia accaduto per causa a lui non imputabile benché dagli accertamenti eseguiti in sede penale tramite l’espletamento di ben quattro consulenze tecniche d’ufficio, delle quali la corte d’appello non aveva tenuto conto, fosse risultato che la causa dell’incendia era da individuarsi in un corto circuito verificatosi sul quadro di distribuzione dell’energia elettrica, in nessun modo imputabile alla conduttrice, neppure a titolo di colpa. Sostiene che era stata dunque data la prova positiva della causa non imputabile dell’incendio, che i giudici di secondo grado avevano omesso di esaminare le risultanze degli accertamenti svolti in sede penale e che, comunque, il conduttore può liberarsi della presunzione di colpa posta a suo carico dalla norma citata anche limitandosi a dare la sola prova negativa che il fatto è derivato da causa a lui non imputabile (è citata Cassazione, 2418/83).

2.2. Oppone in controricorso la Pxxxxxxxx che la corte di legittimità ha successivamente ritenuto che la causa sconosciuta del deterioramento rimane a carico del conduttore (Cassazione, 1441/97) e che questi, per vincere la presunzione di responsabilità, deve offrire la prova piena e completa dell’assenza di colpa, cioè del caso fortuito o della forza maggiore (Cassazione, 10126/00), che a tal fine non è sufficiente che egli non sia stato ritenuto responsabile in sede penale (Cassazione, 5775/94) e che in sede civile l’autorità del giudicato penale è limitata alla sussistenza dei fatti materiali intesi nella loro realtà fenomenica ed oggettiva, ma non preclude una diversa valutazione dei fatti emersi ai fini propri del giudizio civile, ogni qual volta il fondamento della responsabilità civile sia diverso da quello penale (Cassazione, 6334/92).

2.3. La censura è infondata.

La corte d’appello, dopo aver correttamente affermato che «non è sufficiente che il conduttore non sia risultato responsabile in sede penale perché ciò non comporta di per sé l’identificazione della causa» (del deterioramento della cosa locata) e della non imputabilità della stessa, ha affermato che «dalla lettura delle prodotte sentenze penali non emerge in maniera precisa la causale dell’incendio doloso, non accertata compiutamente neanche dalle perizie svolte in sede penale, onde, in difetto di una prova positiva e concreta della causale dell’incendio estranea al conduttore, non risulta vinta la presunzione di responsabilità a suo carico ... ex articoli 1588 e 2051 Cc».

È dunque insussistente in fatto lo stesso presupposto della censura posto che, per un verso, la corte d’appello si è fatta carico delle risultanze degli accertamenti svolti in sede penale e che, per altro verso, la sentenza penale cui (senza peraltro menzionarne gli estremi) la società ricorrente fa riferimento (ma che sì rinviene nel fascicolo di parte della Sxxxxxxx del giudizio di primo grado e che è esaminabile in relazione al vizio dedotto) non contiene affatto l’accertamento che secondo il ricorrente si leggerebbe a pagina 11 della stessa (la quale peraltro non è di certa identificazione, rinvenendosi solo due pagine senza numero tra la pagina 9 e la pagina 13), ma assolve il socio accomandatario della Sxxxxxxx Rosario Donato Giuliano dal reato di incendio doloso per il quale era stato condannato in primo grado in quanto «gli elementi indicati dal tribunale quali indizi univoci e convergenti ... non superano la soglia del mero sospetto» (pagina 9).

Il che è cosa del tutto diversa sia dall’affermato, e invece insussistente, accertamento delle cause dell’incendio, sia rispetto alla sostenuta, ed anch’essa mancante, prova della sicura non imputabilità della causa, che il conduttore deve positivamente provare per liberarsi della presunzione posta a suo carico dall’articolo 1588 Cc, in linea col principio generale di cui all’articolo 1218 Cc (cfr. Cassazione, 7059/82, 3874/83, 4794/85, 1441/97, 4799/01).

3.1. Col terzo motivo del ricorso della Sxxxxxxx - che va esaminato prima del secondo (per il quale si veda ultra, sub 5.2. e 5.4.) - la sentenza è censurata per violazione e falsa applicazione dell’articolo 1891 Cc, nonché per insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla «ulteriore doglianza sollevata dalla Società attuale ricorrente circa la assunta vincolatività nel presente giudizio di quanto risultava accertato, in sede di perizia, in relazione all’ammontare del danno dedotto ex adverso, limitando la garanzia invocata dall’attuale ricorrente all’importo minore, che secondo quanto assunto dalla Compagnia di assicurazioni sarebbe stato accertato in tale sede, rispetto a quello determinato nella consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado». Sostiene che l’illegittimità della sentenza risulterebbe dimostrata dal fatto che in sede arbitrale uno dei tre arbitri non aveva condiviso le opinioni degli altri due, sicché l’accertamento svolto in quella sede non poteva considerarsi vincolante.

Afferma, inoltre, che, essendo stato il contratto di assicurazione stipulato per conto di chi spetta (la proprietaria dell’immobile), a questa non era opponibile l’accertamento peritale una volta che ella aveva optato per l’azione diretta nei confronti della conduttrice contraente della polizza.

3.2. La censura è inammissibile nell’ultima parte in quanto la questione, non prospettata in atto di appello, risulta per la prima volta dedotta in questa sede. Nella parte in cui è per il resto comprensibile, è infondata, poiché l’articolo 823 Cpc stabilisce che il lodo è deliberato dagli arbitri a maggioranza di voti. 4.1. Col prima motivo di ricorso la proprietaria dell’immobile Pxxxxxxxx si duole che la società conduttrice Sxxxxxxx sas non sia stata condannata a risarcirle anche il danno da lucro cessante per mancata percezione dei canoni fino alla data della restituzione, o quanto meno per il tempo della residua durata del contratto.

Deduce che i primi giudici, dopo aver riconosciuto che fosse configurabile un danno da mancata percezione dei canoni, pur se nei limiti della durata residua del contratto, avevano tuttavia escluso la risarcibilità di tale voce di danno per non avere la Pxxxxxxxx offerto appunto la prova della durata del contratto. Sennonché - sostiene - quella prova era stata data mediante la produzione del contratto di locazione (concluso in data 1.4.1987 per la durata di sei anni, dunque con scadenza all’1.4.1993), secondo quanto riconosciuto dalla corte d’appello, che tuttavia aveva rigettato il motivo di gravame sulla scorta del rilievo che non risultava provata l’epoca precisa alla quale la conduttrice aveva rilasciato l’immobile e, soprattutto, la data a partire dalla quale non aveva corrisposto i canoni.

Aggiunge che, in difetto di disdetta, il contratto si era prorogato per altri sei anni sino all’1.4.1999 e che, essendo stato l’immobile detenuto dalla conduttrice sino al 31.5.1997, la corte d’appello avrebbe dovuto condannare la Sxxxxxxx sas al pagamento, per il titolo in questione, della somma di lire 267.5000.000, considerata l’entità del canone (lire 2.500.000 mensili) non versato dal luglio del 1988 al maggio del 1997. 4.2. Oppone la controricorrente Sxxxxxxx sas che, vertendosi in ipotesi di risoluzione del contratto per il venir meno del bene, va esclusa la possibilità «di utilizzare i contratti di locazione, esibiti quali prove del suddetto danno, relativi ad un rapporto risoluto e quindi non più esistente».

4.3. La censura è fondata, non potendo non essere la durata del contratto comunque univocamente evincibile dal documento che la corte d’appello riconosce essere stato prodotto.

La corte di merito ha in particolare errato laddove ha ritenuto che l’accoglimento della domanda della proprietaria-locatrice di risarcimento del danno da mancata percezione dei canoni fosse preclusa dal difetto di prova circa l’epoca precisa alla quale la conduttrice aveva rilasciato l’immobile e della data a partire dalla quale non aveva corrisposto i canoni, giacché l’onere della prova in ordine all’avvenuto pagamento del canone ed alla effettuata restituzione del bene locato (costituenti oggetto di specifiche obbligazioni del conduttore a mente degli articoli 1590 e 1591 Cc) incombe al conduttore secondo gli ordinari criteri di distribuzione dell’onere della prova posti dall’articolo 2697 Cc, trattandosi di fatti estintivi del diritto di credito del locatore, al quale il bene va restituito al termine del rapporto locativo quale che sia stata la causa della sua cessazione e che ha diritto al corrispettivo convenuto dal conduttore in mora fino alla data della restituzione a titolo di risarcimento, salvo il maggior danno.

Ne consegue che il difetto della relativa prova ridonda a carico del conduttore e non può essere posto a carico del locatore che chieda di essere indennizzato del mancato pagamento, come invece ha fatto la corte d’appello.

Né può riconoscersi alcun pregio al rilievo della controricorrente conduttrice Sxxxxxxx, secondo la quale, essendosi il contratto risolto per il venir meno della cosa locata, il canone non era esigibile. Se, invero, va senz’altro riaffermato che la definitiva inutilizzabilità del bene locato a seguito di un incendio devastante «comporta l’estinzione della locazione per la permanente impossibilità del conduttore di godere del bene» (così, da ultimo, Cassazione, 4799/01), dove anche precisarsi che allorché la causa del l’impossibilità della prestazione del locatore, comportante effetti risolutivi ex articolo 1463 Cc, dipende ,dall’irrimediabile deterioramento del bene imputabile al conduttore, come nel caso di specie, questi è tenuto a risarcire al locatore sia il danno (emergente) da perdita o deterioramento della cosa locata, sia il danno conseguito al mancato guadagno (lucro cessante).

Il problema che si pone è costituito dai limiti di tale risarcimento e, in particolare, (a) se esso debba essere equivalente alle somme che sarebbero state corrisposte dal conduttore ove il rapporto avesse potuto avere il suo corso ordinario e se dunque debba aversi riguardo alla scadenza contrattuale, ovvero (b) se tale limite possa essere superato ove la restituzione (ancora possibile) sia stata successiva alla scadenza, ovvero ancora (c) se il risarcimento possa essere inferiore alla somma dei canoni dovuti per il periodo residuo di durata della locazione, ove la restituzione sia avvenuta in epoca antecedente alla scadenza.

Tutte e tre le soluzioni sono possibili in relazione alle peculiarità dei casi concreti, considerandosi che:

1) il conduttore è tenuto alla restituzione della cosa locata allorché il contratto sia cessato per la perdita o per il deterioramento della cosa stessa di gravità tale da aver comportato la risoluzione del contratto;

2) il locatore deve essere indennizzato di tutte le conseguenze pregiudizievoli subite - incluso il mancato guadagno, insito nella mancata restituzione - a causa della perdita o del deterioramento della cosa locata imputabile al conduttore, esclusi solo i danni che il locatore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, a mente dell’articolo 1227, comma 2, Cc;

3) la restituzione non necessariamente coincide col limite temporale cui dove aversi riguardo ai fini della liquidazione del danno da lucro cessante, dovendo il giudice tener conto anche del tempo necessario al ripristino della cosa in modo che sia di nuovo idonea a fornire al locatore le utilità che poteva offrire prima che fosse danneggiata per fatto imputabile al conduttore.

La sentenza va dunque cassata perché il giudice del merito provveda alla liquidazione alla stregua degli enunciati principi.

5.1. Col secondo motivo Nicolina Pxxxxxxxx censura la sentenza per averla condannata a restituire alle Generali Assicurazioni spa il 40% dell’importo di lire 209.737.000.

Sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte d’appello, nella specie dovesse escludersi la ricorrenza di una valida coassicurazione, difettandone tutti gli elementi poiché: a) il contratto non era stato sottoscritto dalla Siad Ass.ni spa e non conteneva alcun riferimento ad una coassicurazione, essendo in particolare irrilevante l’allegazione in calce alla scrittura di un prospetto indicante una ripartizione pro quota del danno; b) la Siad non aveva riscosso alcun premio né avuto rapporti di sorta con la contraente Sxxxxxxx, che addirittura ignorava l’esistenza di un rapporto coassicurativo; c) non era stata fornita la prova che la spa Generali avesse il potere di rappresentare la Siad.

Afferma infine che, in relazione alla natura vessatoria della clausola di coassicurazione in quanto limitativa della responsabilità della Generali, la stessa avrebbe dovuto essere approvata per iscritto ai sensi dell’articolo 1341, comma 2, Cc.

5.2. Anche la Sxxxxxxx si duole - deducendo col secondo motivo del proprio ricorso violazione e falsa applicazione degli articoli 1911, 1917 e 2697 Cc, nonché omessa insufficiente e contraddittoria motivazione della ravvisata sussistenza da parte della corte d’appello di un rapporto di coassicurazione tra Generali e Siad Assicurazioni senza indicazione degli elementi probatori sui quali aveva fondato il proprio convincimento circa la sussistenza della coassicurazione, negata dalla Sxxxxxxx e non dimostrata da Generali, cui incombeva l’onere della prova.

5.3. La società Generali Assicurazioni oppone nel controricorso al ricorso della Pxxxxxxxx che, a fronte della risultanza “documentale” circa una coassicurazione da parte della Siad per il 40%, i rilievi della ricorrente sono privi di pregio alla luce dei principi enunciati da Cassazione, 1830/99 in fattispecie in tutto analoga.

Nega poi la natura vessatoria della clausola di coassicurazione, rilevando che la esclusione della propria responsabilità per la quota coassicurata non deriva da una norma pattizia limitativa ex articolo 1229 Cc, ma dalla struttura tipica del contratto di coassicurazione come disciplinato dall’articolo 1911 Cc.

5.4. Le doglianze della Pxxxxxxxx e della Sxxxxxxx sono fondate nei sensi di cui appresso.

La corte d’appello ha bensì testualmente affermato (a pagina 9, in fine, della gravata sentenza) «che, documentalmente, l’assicurazione risulta tenuta solo per il 60% della quota assicurata dei danni», ma non ha affatto chiarito in che cosa tale risultanza documentale consistesse e per quali ragioni essa fosse tale da apparire rivelatrice della sussistenza di una coassicurazione, la quale consiste nella esistenza di separati rapporti assicurativi generati da un accordo tra i coassicuratori e dal consenso dell’assicurato.

In difetto del consenso dell’assicurato, l’accordo tra gli assicuratori circa la ripartizione tra loro del rischio non è evidentemente opponibile all’assicurato stesso, che resta estraneo al patto e conserva il diritto di richiedere all’unico assicuratore col quale ha concluso il contratto il pagamento dell’intera indennità assicurativa, vertendosi in ipotesi del tutto diversa da quella della coassicurazione disciplinata dall’articolo 1911 Cc, nella quale il limite dell’obbligazione di ciascun assicuratore presuppone che della ripartizione del rischio tra più assicuratori il terzo contraente sia pienamente consapevole e che abbia aderito ad una tipologia contrattuale comportante gli affetti limitativi propri della coassicurazione disciplinata dal Cc.

A fronte della negazione, da parte della Sxxxxxxx e della Pxxxxxxxx, della loro consapevolezza in ordine alla presenza di altro assicuratore (la Siad), l’affermazione della corte d’appello è assolutamente apodittica ed inidonea ad offrire la possibilità di riscontro dell’iter logico seguito dal giudicante, giacché non qualsivoglia limite della sostanziale esposizione economica della società Generali viene nella specie in rilievo, ma esclusivamente quello opponibile all’assicurato in un contesto nel quale - a quanto affermato dai ricorrenti - la polizza non conteneva alcun riferimento alla coassicurazione.

Valuterà il giudice del rinvio - al quale esclusivamente compete l’apprezzamento del merito - se, alla stregua dei criteri ermeneuti imposti dagli articoli 1362, 1366 e 1370 Cc, potesse nella specie ritenersi raggiunto un accordo con l’assicurato in ordine alla coassicurazione del rischio, in relazione alla affermata (dalle Generali) presenza di un allegato alla polizza contenente la quota che di ciascuna rata di premio avrebbe dovuto essere versata alla Siad, ma che le ricorrenti affermano essere stata sempre corrisposta alle Generali. Va infine rilevato, quanto al motivo di ricorso della Sxxxxxxx, che il riferimento all’articolo 1917 Cc è incomprensibile in relazione al contenuto della doglianza, mentre la necessità dello scrutinio della prospettata violazione dell’articolo 2697 Cc è superata dalle considerazioni già svolte.

6. In conclusione, accolti entrambi i motivi del ricorso di Nicolina Pxxxxxxxx nonché, per quanto di ragione, il secondo motivo del ricorso della Sxxxxxxx sas da rigettarsi per il resto, la sentenza va cassata con rinvio a diversa sezione della stessa corte d’appello che rivaluterà il merito, in relazione ai motivi accolti, alla stregua dei principi e delle considerazioni sopra svolte e che provvederà anche a regolare le spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte di cassazione

Riunisce i ricorsi, accoglie entrambi i motivi del ricorso di Nicolina Pxxxxxxxx nonché, per quanto di ragione, il secondo motivo del ricorso della Sxxxxxxx sas, rigetta gli altri motivi del ricorso della Sxxxxxxx, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della corte d’appello di Napoli.