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Responsabilità per fatto illecito - Presupposti - Obbligo giuridico di impedire l'evento

Responsabilità per fatto illecito - Presupposti - Obbligo giuridico di impedire l'evento - Necessità - Attività a tutela di diritto altrui - Configurabilità - Limiti - Attività lecita causa di pregiudizi per il terzo - Conseguente responsabilità risarcitoria - In tema di risarcimento del danno, affinché una condotta commissiva o omissiva possa essere fonte di responsabilità, ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., è necessario che sia configurabile in capo al responsabile un obbligo giuridico di impedire l'evento dannoso, che può nascere, oltre che da una norma di legge o da una previsione contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività a tutela di un diritto altrui, senza che sia astrattamente configurabile per il solo fatto che il preteso responsabile abbia posto in essere un'attività lecita, dalla quale siano derivati al terzo pregiudizi che questi, con l'uso dell'ordinaria diligenza nella cura del proprio bene danneggiato, avrebbe potuto evitare. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, la quale aveva ritenuto il convenuto responsabile delle infiltrazioni di acqua piovana causate dalla rimozione di una tettoia di copertura, posta all'interno di un'area di sua proprietà esistente nello spazio fra i fabbricati abitativi delle due parti, non potendosi considerare in sé atto lesivo l'esecuzione di detta opera astrattamente legittima, né rimproverare il proprietario dell'area prima coperta, in mancanza di eventuali specifici obblighi, per la mancata adeguata impermeabilizzazione del relativo pavimento). Corte di Cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 3876 del 12/03/2012

Corte di Cassazione, Sez. 2, Sentenza n. 3876 del 12/03/2012

MOTIVI DELLA DECISIONE

2) Con il primo motivo parte ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione.
La Corte di appello, dopo aver riferito che il Bevacqua aveva dedotto di aver esercitato il proprio diritto dominicale rimuovendo la copertura, perché essa limitava la luce ad una delle proprie finestre, ha ritenuto che il convenuto, proprietario dell'andito tra i due immobili non avesse la facoltà di usare della cosa in modo da creare danni a terzi.
Ha pertanto considerato atto illecito l'aver scoperchiato l'area che prima il convenuto aveva ricoperto con fogli di eternit. Il ricorrente sostiene che l'aver rimosso una tettoia posta all'interno della propria area non costituiva atto illecito ex art. 2043 c.c., per mancanza di elemento colposo, non essendo prevedibile che l'acqua piovana confluisse all'interno della casa posta a ridosso del confine.
Osserva che secondo le normali tecniche costruttive, l'immobile attiguo doveva prevedere accorgimenti per impedire penetrazioni di umidità.
Aggiunge che era stato l'attore ad addossare indebitamente la propria costruzione al muro di contenimento risultato di proprietà del convenuto e che imporre a quest'ultimo di non demolire la tettoia equivaleva ad imporgli una limitazione al proprio diritto dominicale, non prevista dalla legge.
Infine deduce che la tettoia era stata presente solo per tre mesi e che non vi era correlazione tra l'eliminazione di essa e le infiltrazioni di umidità, causalmente da ricollegare alla penetrazione dell'acqua nel terreno, secondo lo stato naturale delle cose.
La censura è fondata.
2.1) La sentenza impugnata apoditticamente ha ritenuto che la rimozione dei fogli di eternit non fosse consentita al proprietario dell'area, solo perché, rimossa la copertura, erano insorte le infiltrazioni.
Essa però non ha indagato sulla sussistenza dei presupposti di cui all'art. 2043 c.c., non ha cioè stabilito per quale motivo sia ingiusto il danno arrecato all'attore dal fatto (rimozione fogli di eternit) posto in essere dal convenuto.
Sul punto la implicita motivazione è illogica, perché l'esecuzione di un'opera astrattamente legittima, quale è la rimozione di una copertura di una propria area, con un asserito beneficio - il godimento di maggior luce - non può essere in sè considerato atto lesivo, ancorché, secondo quanto riferito dal consulente, manchi adeguata impermeabilizzazione sul pavimento dello spazio prima ricoperto dall'eternit.
Il proprietario è libero infatti di lasciare scoperta la propria area e consentire che le precipitazioni meteoriche vi giungano; ne' è previsto normativamente che un'area nuda debba essere impermeabilizzata, tantomeno per proteggere una costruzione altrui. In questo contesto normativo, che non prevede limitazioni legali della proprietà relative alla possibilità di lasciare scoperto il terreno tra un proprio immobile e quello altrui, l'affermazione che una lesione ingiusta potesse scaturire dall'esercizio di un diritto doveva essere motivata, se possibile, sotto altro profilo, sussistendo altrimenti violazione della norma codicistica indicata in ricorso.
2.2) In particolare la sentenza impugnata ha rimproverato al convenuto la mancata impermeabilizzazione dell'area scoperta, ma non ha indagato ne' ha spiegato per qual motivo detta
impermeabilizzazione costituisse obbligo del proprietario della area o non piuttosto fosse doverosa cautela dell'attore costruttore della nuova fabbrica.
Invero, per evitare infiltrazioni nel proprio erigendo fabbricato, spettava all'attore l'onere di proteggere il muro di nuova edificazione con adeguate opere di coibentazione.
La sentenza sul punto non illustra se vi siano particolari condizioni dei luoghi (spandimenti, inclinazioni, innaturale pavimentazione), risalenti a responsabilità del convenuto, che imponessero a quest'ultimo di impermeabilizzare l'area.
Resta quindi incerto anche il nesso di causalità tra l'evento dannoso lamentato e la rimozione della copertura.
In sostanza sono state omesse: la determinazione precisa della situazione dei luoghi, la fonte normativa di eventuali obblighi del convenuto e la individuazione dell'esclusività del nesso di causalità tra la condotta omissiva ritenuta antidoverosa e il danno denunciato.
Il giudice di rinvio dovrà pertanto riesaminare la questione qui discussa sotto ogni profilo.
3) Con il secondo motivo, che si riferisce alle domande riconvenzionali volte alla condanna dell'attore Barletta a demolire le parti di fabbricato erette ad altezza e in posizione non conformi a quanto convenzionalmente pattuito, parte ricorrente lamenta la errata applicazione dei principi di diritto relativi alla illegittimità di convenzioni in deroga alle distanze minime dalle costruzioni o dal confine.
A tal fine la sentenza impugnata ha osservato che le distanze previste dal piano di fabbricazione comunale non potevano essere derogate da convenzioni private e che la riduzione dell'altezza richiesta nei limiti previsti dall'accordo avrebbe surrettiziamente reso legittima la parte restante della costruzione dell'attore, comunque realizzata contra legem.
Il ricorrente assume che la pattuizione nulla non può comportare il venir meno del diritto di far rispettare le distanze, azionato con il chiedere un quid minus rispetto a quel che il vicino Bevacqua aveva il diritto di domandare in ossequio alle distanze legali. Sostiene che comunque era salvo l'obbligo del Barletta di non superare una determinata altezza, questione oggetto della domanda, restando irrilevante che non fosse chiesto anche l'arretramento del fabbricato, perché l'eventuale nullità del patto riguarderebbe solo l'edificazione a distanza diversa da quella prevista nello strumento urbanistico. Sarebbe quindi legittima anche la richiesta di chiusura delle finestre poste a distanza inferiore a m 1,50 dal confine (finestre aperte, si badi, nella parete del fabbricato costruito, grazie alla convenzione, a distanza inferiore a quella legale). Questa censura è infondata.
La Corte ha già avuto modo di insegnare (Cass. 5626/85; v. poi 2117/04; 19499/4) che sono invalide le convenzioni che pongano deroghe alle disposizioni regolamentari in materia di distanze, essendo la azione di riduzione in pristino concessa al vicino del costruttore per mantenere cogentemente in vita un potere privato, concorrente con quello amministrativo, idoneo ad assicurare, attraverso la rimozione dell'opera illegittima, lo stesso risultato pratico perseguibile con i propri mezzi della p. a. e la completa attuazione dell'interesse generale alla realizzazione del modello urbanistico prefigurato.
Tale finalità è snaturata allorquando il sinallagma negoziale si fonda su un programma di interessi finalizzato in via principale a derogare alle suddette disposizioni. La nullità del patto travolge anche le concessioni fatte, sempre nell'ambito della normativa urbanistico - edilizia, per realizzare il programma di interessi nullo.
Nella specie la servitus altius non tollendi costruita come obbligazione personale a carico del Barletta in cambio della deroga, concessagli dal vicino, all'obbligo di costruire a regolamentare distanza dal confine è sorretta indefettibilmente dal patto nullo e ne costituisce estrinsecazione necessaria per l'attuazione, proprio sotto il profillo delle distanze legali, del programma di interessi ritenuto non meritevole di tutela dall'ordinamento.
Nella posizione in cui si trova, il fabbricato non avrebbe infatti mai potuto essere eretto se fosse stato rispettato il contenuto della normativa in tema di distanze.
E altrettanto vale per le finestre, che non avrebbero potuto essere mai aperte a distanza inferiore a m. 1,50 dal confine se non vi fosse stato accordo per edificare il fabbricato a distanza non legale. 3.1) Discende da quanto esposto l'accoglimento del solo primo motivo di ricorso.
In relazione ad esso terrà conto del principio in forza del quale affinché una condotta commissiva od omissiva possa essere fonte di responsabilità per danni, ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., è necessario che sia configurabile in capo al responsabile un obbligo giuridico di impedire l'evento dannoso, che può nascere, oltre che da una norma di legge o da una previsione contrattuale, o, in ipotesi causali particolari, da una specifica situazione che esiga una determinata attività a tutela di un diritto altrui, senza che sia astrattamente configurabile per il solo fatto che il soggetto accusato di essere autore del danno abbia posto in essere un'attività lecita, dalla quale siano derivati al terzo pregiudizi che questi con l'uso dell'ordinaria diligenza nella cura del proprio bene danneggiato avrebbe potuto evitare.
La sentenza va cassata sul punto e la cognizione rimessa ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro, che provvederà a nuovo esame tenendo conto dei rilievi portati da questa Corte alla precedente sentenza la liquidazione delle spese di questo giudizio. P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, rigetta il secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro, che provvederà anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 9 novembre 2011.
Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2012

 

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