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Minaccia di pignoramento tentata estorsione - dolo - minaccia - il fatto non sussiste - il fatto noncostituisce reato

Avvocato - Minaccia di pignoramento tentata estorsione - dolo - minaccia - il fatto non sussiste - il fatto noncostituisce reato

Avvocato - Minaccia di pignoramento tentata estorsione - dolo - minaccia - il fatto non sussiste - il fatto non costituisce reato (Cassazione – Sezione seconda penale  – sentenza 16 gennaio-8 aprile 2003, n. 16618)

Premesso che

Il Tribunale di Roma ha assolto, “perché il fatto non sussiste”, Sxxxxxxxx Nicola dal reato di tentata estorsione a lui ascritto per avere, con la minaccia di pignoramenti presso terzi, compiuto atti idonei e diretti in modo non equivoco a costringere la società Maa a pagare somme maggiori di quelle dovute in forza di una sentenza di condanna pronunciata in favore di Marcella Mulonia, da lui difesa in una causa civile promossa contro la predetta società.

La sentenza, appellata dal Pm, è stata riformata dalla Corte di appello di Roma che ha assolto lo Sxxxxxxxx dall’imputazione di tentata estorsione perché il fatto non costituisce reato rilevando come i numerosi pignoramenti presso terzi eseguiti dallo Sxxxxxxxx, per quanto “anomali”, e, per ciò stesso, astrattamente idonei a concretare una minaccia nei confronti della società Maa, debitrice, non potessero giustificare l’accusa mancando la prova dell’intento di conseguire un illecito profitto.

Nicola Sxxxxxxxx ha impugnato questa sentenza con ricorso per cassazione. Nell’odierna udienza pubblica il Pg, dottor Iacoviello. ha chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

Considerato che:

Dopo avere evidenziato il proprio interesse al ricorso, dato che una più favorevole formula di assoluzione lo porrebbe al riparo dalle conseguenze dell’azione disciplinare che, per il fatto a lui addebitato, è stata promossa nei suoi confronti, il ricorrente sostiene che la Corte di merito ha, anzitutto, errato nel considerare “anomali” i procedimenti esecutivi promossi nei confronti della società Maa, che non aveva affatto inviato degli assegni di conto corrente per il pagamento del suo debito ma solo le fotocopie di assegni e che, comunque, non aveva alcun diritto di avvalersi di un mezzo improprio di pagamento.

Aggiunge che la Corte ha anche errato nel ritenere che i pignoramenti fossero eccessivamente numerosi, atteso che, anzitutto, si è trattato solo di due pignoramenti, dei quali l’uno eseguito per la riscossione del credito della Mulonia e l’altro per le spese processuali, distratte in favore del difensore antistatario.

In ogni caso, continua il ricorrente, il creditore ha diritto di eseguire una pluralità di pignoramenti (soprattutto se si tratta di pignoramenti di somme di denaro dovute da terzi al proprio debitore) e nulla consente di riconoscere nell’esercizio di tale diritto gli estremi propri di una minaccia ingiusta.

Il ricorso deve essere accolto essendo fondata, nei limiti che saranno chiariti, l’ultimo assorbente motivo dedotto.
La minaccia necessaria per integrare la fattispecie della estorsione (o della tentata estorsione) non può esaurirsi nella mera prospettazione di un male ma richiede che il male prospettato sia ingiusto.

L’esercizio di un diritto, o la minaccia di esercitare un diritto, quali indubbiamente sono il concreto esercizio di una azione giudiziaria o esecutiva o anche la minaccia di una iniziativa in tal senso, pur ponendo il soggetto passivo nella condizione di subire un pregiudizio dei propri interessi, non presentano, dunque, di per se, i caratteri propri della minaccia necessaria per la astratta configurabilità del delitto di estorsione essendo esclusivamente diretta alla legittima realizzazione di un diritto proprio dell’agente nei confronti di soggetto portatore di un interesse asservito a quel diritto. A meno che lo scopo sia quello di attingere, con altrui danno, un vantaggio ulteriore e diverso.

In tal caso, infatti, l’esercizio del diritto non è in funzione dell’interesse protetto ed il pregiudizio che, attraverso l’iniziativa giudiziaria formalmente legittima, si minaccia di infliggere al soggetto passivo non è funzionale al predetto interesse ma ad una pretesa ulteriore che, in quanto non garantita giuridicamente in quello specifico rapporto, deve considerarsi illegittimamente perseguita attraverso quel particolare strumento giudiziale utilizzato o che si minaccia di utilizzare.

Si è, così, ritenuto che anche la minaccia dalla esteriore apparenza di legalità, come quella di convenire in giudizio il soggetto passivo o quella di azione esecutiva, possa costituire illegittima intimidazione idonea ad integrare il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando sia fatta con l’intenzione di esercitare il diritto ulteriore e diverso o, invece, il più grave delitto di estorsione se finalizzato ad un profitto cui non si abbia diritto.

In presenza di una azione giudiziaria o esecutiva, o della minaccia di queste azioni, essenziale è, dunque, per la stessa configurabilità, dell’estremo della minaccia, che è elemento materiale necessario della fattispecie, la deviazione del fine, nel senso sopra chiarito

In assenza cade, prima ancora dell’elemento soggettivo, - cioè il dolo - un elemento materiale della fattispecie, cioè la minaccia,, senza della quale la formula assolutoria non può che essere quella che esclude in radice la sussistenza del fatto.

Nel caso in esame la Corte ha, appunto, escluso che vi fosse deviazione del fine, una prova esecutive fossero state intraprese non per soddisfacimento dei diritti di credito riconosciuti con la sentenza passata in giudicato e concretamente azionati ma anche e soprattutto per il conseguimento di fini ulteriori, quello, cioè, del pagamento di somme ulteriori o maggiori.

In tal modo la Corte ha cioè negato, alla stregua dei principi di diritto sopra enunciati, la prova della esistenza stessa della minaccia ingiusta e, perciò, di un essenziale elemento materiale, costitutivo del reato contestato all’imputato, con la prova del dolo, come erroneamente ritenuto nella sentenza impugnata.

L’assoluzione, conseguentemente, avrebbe dovuto essere pronunciata non con la formula “perché il fatto non costituisce reato” ma con quella (“perché il fatto non sussiste”), correttamente adottata dal giudice di primo grado, ed impropriamente modificata dalla Corte di merito.
L’errore conduce all’annullamento, senza rinvio, della sentenza impugnata.

PQM

La Corte, annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.