Skip to main content

Parte civile - Effetti della costituzione- Condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile

11/09/2002 Parte civile - Effetti della costituzione- Condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile

Parte civile - Effetti della costituzione - Condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile Corte di cassazione - Sezioni Unite penali - Sentenza 10 luglio-11 settembre 2002 n. 30327

Corte di cassazione - Sezioni Unite penali - Sentenza 10 luglio-11 settembre 2002 n. 30327
(Presidente Marvulli; Relatore Lattanzi;Pm - parzialmente difforme - Iadecola; Ricorrente Gxxxxxxxxx e altri)

Considerato in fatto

1. Exxxxxxxxxxxx xxxxxxxxx e le parti civili Lucia Axxxxxxxxxxxxx e Maria Lxxxxx, Fabio e Rita xCxxxxxx hanno proposto ricorso per cassazione contro la sentenza del 15 dicembre 2000 con la quale la Corte di appello di Lecce, riformando la decisione di primo grado, ha condannato Gxxxxxxxxx, con le attenuanti generiche, alla pena di quattro mesi di reclusione per omicidio colposo e ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni proposta dalle parti civili.
Gxxxxxxxxx era stato citato a giudizio davanti al Pretore di Lecce, sezione distaccata di Galatina, per rispondere dell'omicidio colposo di Antonio Cxxxxxx, che era deceduto in seguito a una violenta elettrocuzione mentre lavorava per conto dell'Enel su un traliccio di energia elettrica ad alta tensione. Gxxxxxxxxx era il preposto capo-nucleo dell'Enel che insieme con Cxxxxxx si era recato presso lo smistamento Aradeo per un intervento sulla linea elettrica di Neviano. Dopo il ripristino della linea di Neviano Cxxxxxx era salito sul traliccio della linea di Cutrofiano, per riparare un ponte dello scaricatore del portale che pendeva, e aveva subito l'infortunio.
Secondo l'imputazione, della morte doveva rispondere a titolo di omicidio colposo Gxxxxxxxxx perché «aveva omesso di sovraintendere e vigilare all'esecuzione in sicurezza del lavoro da svolgere nel rispetto delle procedure stabilite dall'Enel... limitandosi a disattivare l'energia elettrica del traliccio Neviano, senza controllare che l'impianto su cui intervenire corrispondesse a quello disattivato, omettendo infine di verificare che tutte le misure e cautele previste da norme e regolamenti fossero rispettate».
Il pretore ha assolto Gxxxxxxxxx «per non aver commesso il fatto», dando interamente credito alle sue dichiarazioni. Secondo il pretore Gxxxxxxxxx, stando nella cabina, aveva ridato tensione alla linea di Neviano; Cxxxxxx era entrato e «dopo aver riferito di non aver notato alcuna anomalia riferì invece di aver notato un ponte dello scaricatore del portale che pendeva e che poteva ricausare un disservizio in caso di vento forte». Gxxxxxxxxx aveva capito che la segnalazione riguardava la linea di Neviano, mentre Cxxxxxx si era riferito alla linea di Cutrofiano, aveva detto a Cxxxxxx di preparare l'attrezzatura, poi, dopo aver sezionato e messo a terra la linea di Neviano, era uscito dalla cabina per effettuare le dovute verifiche e aveva assistito alla folgorazione che aveva colpito Cxxxxxx mentre si trovava sul traliccio della linea di Cutrofiano.
2. In seguito all'impugnazione del pubblico ministero la Corte di appello di Lecce ha ritenuto Gxxxxxxxxx responsabile di omicidio colposo e ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni proposta dalle parti civili, rilevando che queste «pur potendo proporre appello ai soli effetti civili, non avevano ritenuto di farlo, con la conseguenza che la pronuncia del giudice di primo grado nei loro confronti aveva assunto valenza definitiva e, quindi, autorità di cosa giudicata ai sensi dell'art. 329 c.p.c.».
Alla pronuncia di condanna la corte di appello è pervenuta dopo aver rilevato che il racconto dell'imputato non poteva essere recepito acriticamente. La corte ha prospettato il dubbio che i fatti potessero essersi svolti in modo completamente diverso e ha ritenuto che in ogni caso il racconto dell'imputato non fosse interamente credibile e che Gxxxxxxxxx, dopo la riattivazione della linea di Neviano, prima dicompiere qualunque ulteriore attività avrebbe dovuto accertare la situazione ed impartire le opportune disposizioni.
3. L'imputato con il primo motivo di ricorso ha sostenuto che la sentenza impugnata ha trascurato gli elementi probatori acquisiti nel corso del giudizio di primo grado, sui quali il pretore aveva fondato la decisione assolutoria, e ha privilegiato una metodologia ricostruttiva dei fatti erroneamente fondata - come è stato dichiarato nella motivazione - su «canoni di mero stampo logico-statistico»: del tutto impropriamente la corte di appello avrebbe sottovalutato le dichiarazioni dell'imputato, unica persona presente al momento dell'incidente, e, pur in assenza di elementi probatori che potessero smentirle, aveva privilegiato ipotesi ricostruttive diverse.
Con il secondo motivo l'imputato ha denunciato l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge (artt. 40, 41, 43 e 589 c.p. e artt. 4 e 391, 6 e 392 d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547): la sentenza impugnata avrebbe trascurato la circostanza che fu lo stesso Cxxxxxx a decidere autonomamente di intervenire sul traliccio e che effettuò l'intervento senza avere prima verificato la disattivazione della linea, così che la sua condotta, gravemente omissiva delle disposizioni di legge in tema di sicurezza (art. 4 lett. c d.P.R. n. 547 del 1955), si porrebbe in ogni caso come fattore interruttivo dell'eventuale nesso causale esistente fra la condotta dell'imputato e l'evento mortale.
Le parti civili hanno impugnato il rigetto della domanda di risarcimento dei danni considerando errata l'affermazione che il non aver proposto appello precludeva, nonostante l'impugnazione del pubblico ministero, la decisione sull'azione civile. Pur dando atto delle conclusioni cui erano giunte le Sezioni unite penali con la sentenza del 25 novembre 1998, Loparco, le parti civili hanno osservato che questa decisione aveva «solo in parte composto» le «acute divisioni» esistenti in giurisprudenza sul punto che, secondo le disposizioni degli artt. 76 comma 2 e 601 comma 4 c.p.p., «sino a quando il processo penale non si conclude con sentenza irrevocabile, la parte civile è parte processuale, anche se non ha proposto gravame, e ha diritto ad ottenere dal giudice dell'impugnazione una pronuncia sulle sue richieste».
4. La quarta sezione penale ha rimesso i ricorsi alle Sezioni unite rilevando che sulla questione proposta dal ricorso delle parti civili esisteva un contrasto giurisprudenziale, dato che successivamente alla citata sentenza delle Sezioni unite, 25 novembre 1998, Loparco, due diverse decisioni, 1° marzo 1999, Maellare, e 1° giugno 2000, Mariotti, avevano ritenuto che il giudice di secondo grado, quando su appello del pubblico ministero condanna l'imputato assolto in primo grado, è tenuto a provvedere sulla domanda della parte civile, anche se questa non ha proposto impugnazione.

Ritenuto in diritto

1. Entrambi i motivi dell'imputato, con prospettazioni diverse, sono diretti a contestare i presupposti di fatto dai quali muove la sentenza impugnata per pervenire all'affermazione di responsabilità e si risolvono in gran parte nella riaffermazione dei fatti riferiti dall'imputato:
sotto questo aspetto propongono questioni insuscettibili di considerazione nel giudizio di cassazione. È solo nella parte in cui deducono l'illogicità della motivazione che i motivi sono ammissibili.
Secondo l'imputato la motivazione sarebbe viziata perché la Corte di appello non ha dato credito alle sue dichiarazioni sullo svolgimento dei fatti e ha ritenuto di poter «completamente trascurare gli elementi di prova raccolti, nel giudizio, per ricostruire il fatto solo sulla scorta della logica astratta». Non è questo però il tipo di accertamento svolto nella sentenza impugnata che ha tenuto conto degli elementi acquisiti e ha però ritenuto, legittimamente, che la vicenda all'origine dell'infortunio non potesse essere ricostruita - come aveva fatto il giudice di primo grado - recependo acriticamente le dichiarazioni dell'imputato.
La corte di appello ha ricordato che l'imputato aveva il compito di dirigere i lavori, accertando la situazione, valutando le operazioni da compiere e impartendo le opportune direttive, e ha ritenuto che tutto ciò egli non abbia fatto nel modo dovuto. Dopo aver riscontrato delle illogicità nella narrazione della vicenda la corte di appello è giunta alla conclusione che Cxxxxxx non potesse essere salito sul traliccio della linea di Cutrofiano di propria iniziativa, senza alcuna disposizione da parte dell'imputato, data, eventualmente, nell'asserita convinzione che il lavoro si dovesse fare sulla linea di Neviano anziché su quella di Cutrofiano. In ogni caso, quindi, secondo la corte di appello l'imputato era venuto meno ai suoi doveri, che gli imponevano di accertare la situazione prima di dare qualunque disposizione. Il suo comportamento - si legge nella sentenza impugnata - risulta «ancor più negligente se si pensa che Gxxxxxxxxx quando giunse allo smistamento di Aradeo per effettuare l'intervento operativo per ripristinare la linea di Neviano che era andata fuori servizio, verificò e constatò de visu lo stato dei luoghi e quindi potè rendersi conto che sul traliccio di Neviano... non vi era alcun ponte che pendeva».
In conclusione il ricorso di Gxxxxxxxxx deve essere rigettato dato che la motivazione della sentenza impugnata non presenta le asserite illogicità e che le valutazioni in punto di fatto operate dalla corte di appello si sottraggono al sindacato della Corte di cassazione.
2. Il ricorso delle parti civili pone una questione che, come si è visto, continua a dare luogo a decisioni contrastanti, nonostante vi sia già stato un intervento delle Sezioni unite. Si tratta di stabilire se il giudice di appello, quando su impugnazione del pubblico ministero riforma una sentenza di proscioglimento e condanna l'imputato, debba provvedere sulla domanda di risarcimento dei danni proposta dalla parte civile anche nel caso in cui questa non abbia impugnato la decisione di primo grado.
La questione è sorta in seguito a due sentenze della Corte costituzionale, dell'inizio degli anni Settanta, che, incidendo sul codice di procedura penale del 1930, avevano riconosciuto alla parte civile il diritto di proporre ricorso per cassazione contro le sentenze di proscioglimento:
la prima, del 22 gennaio 1970, n. 1, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 195 c.p.p. 1930, in riferimento all'art. 111 comma 2 Cost., nella parte in cui poneva limiti a che la parte civile potesse proporre ricorso per cassazione contro le disposizioni della sentenza concernenti i suoi interessi civili; la seconda, del 17 febbraio 1972, n. 29, aveva dichiarato l'illegittimità dell'art. 23 c.p.p. del 1930, in riferimento all'art. 111 comma 2 Cost., nella parte in cui escludeva che il giudice penale potesse decidere sull'azione civile anche quando, concluso il procedimento penale con sentenza di proscioglimento, l'azione della parte civile, a tutela dei suoi interessi civili, proseguiva in sede di cassazione e di eventuale giudizio di rinvio.
Prima di queste sentenze nel caso di proscioglimento la parte civile non poteva proporre impugnazione ma poteva solo partecipare al giudizio di impugnazione eventualmente promosso dal pubblico ministero, e il giudice di appello se emetteva una pronuncia di condanna era tenuto, a norma dell'art. 489 comma 1 c.p.p. del 1930, a condannare l'imputato alle restituzioni e al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile che ne aveva fatto domanda e ne aveva diritto. La partecipazione al giudizio di impugnazione e il dovere del giudice di appello di provvedere nel caso di condanna dell'imputato anche sulla domanda della parte civile si ricollegavano al principio di immanenza della parte civile, presente anche nei codici di rito anteriori a quello del 1930, che lo aveva espressamente codificato nell'art. 92 comma 1.Se però il pubblico ministero non proponeva impugnazione la parte civile non aveva alcun mezzo per rimettere in discussione una sentenza di proscioglimento lesiva del suo diritto. È su questa situazione che hanno inciso le due sentenze della Corte costituzionale, riconoscendo alla parte civile il diritto, garantito dall'art. 111 comma 2 Cost., di ricorrere per cassazione e quindi dotandola di una tutela ulteriore. È interessante notare che nella sentenza 22 gennaio 1970, n. 1 la Corte costituzionale aveva avuto cura di avvertire che «il ricorso per cassazione della parte civile, quando è proposto contro sentenza di primo grado, per lei inappellabile, produrrà effetto soltanto se contro la stessa sentenza non segua un esame in appello, cui la parte civile ha titolo per partecipare in forza del disposto dell'art. 92 c.p.p. e che abbia luogo a seguito di gravame proposto dall'imputato o dal pubblico ministero».

3. Dopo queste due sentenze per molti anni la giurisprudenza non ha dubitato che fosse rimasto fermo il principio di immanenza nel senso tradizionale e che quindi il giudice di appello, anche in mancanza dell'impugnazione della parte civile contro la sentenza di proscioglimento, se condannava l'imputato era tenuto a provvedere pure sulla domanda della parte civile (ved. Sez. IV, 7 novembre 1977, La Spada, in Cass. pen. Mass. ann., 1979, p. 602, n. 588). È con Sez. IV, 23 gennaio 1984, Seragiotto (in Cass. pen., 1986, p. 962, n. 729), che ha iniziato a farsi strada in una parte della giurisprudenza l'idea che la parte civile che non propone impugnazione contro la sentenza di proscioglimento deve considerarsi acquiescente, con la conseguenza che la sentenza «acquista efficacia di giudicato in riferimento all'azione risarcitoria»; idea che è stata successivamente sviluppata in modo assai argomentato da Sez. III, 23 settembre 1986, Di Sario (in Cass. pen., 1987, p. 1952, n. 1649), la quale è giunta alla conclusione che «la parte civile, qualora voglia ottenere una modifica in senso per lei vantaggioso della pronuncia di primo grado, deve proporre rituale impugnazione... senza che a tal fine possa avvalersi dell'eventuale gravame del pubblico ministero». È con questa sentenza che al diritto di proporre ricorso per cassazione, riconosciuto dalla Corte costituzionale, si è fatto corrispondere per la parte civile, «come altra faccia della stessa medaglia, l'onere di impugnare la sentenza, qualora intenda ottenere una specifica decisione di riforma del provvedimento gravato» (sent. Di Sario, cit.).
Il contrasto giurisprudenziale si è accentuato nel tempo e si è riprodotto dopo l'entrata in vigore dell'attuale codice di procedura penale determinando l'intervento delle Sezioni unite che con la sentenza 25 novembre 1998 Loparco (in Cass. pen., 1999, p. 2084, n. 987) hanno aderito al secondo indirizzo giurisprudenziale e hanno affermato il principio che «alla parte civile costituita non può riconoscersi il risarcimento del danno, se, assolto l'imputato nel giudizio di primo grado, vi sia condanna dello stesso su appello del solo pubblico ministero».
Le conclusioni cui è pervenuta la sentenza Loparco sono state messe in discussione da due successive decisioni: Sez. V, 1° marzo 1999, Maellare (rv. 215559) e Sez. III, 1° giugno 2000, Mariotti (rv. 216996). La prima ha rilevato che «non bisogna confondere il potere di impugnazione con l'onere di impugnazione diretta, che sussiste soltanto per altri provvedimenti pregiudizievoli che, diversi da quelli concernenti l'accertamento del fatto-reato, negano il diritto sostanziale al risarcimento o limitano l'entità dei danni», e ha sostenuto, riprendendo un orientamento tradizionale, che «l'impugnazione autonoma, in
definitiva, è un ulteriore rimedio approntato dall'attuale ordinamento giuridico processuale, che si è uniformato alla giurisprudenza della Corte costituzionale». La seconda, dopo avere affermato che «non sussiste nel processo penale una piena indipendenza dell'azione civile rispetto a quella penale, per cui non può essere una tale pretesa autonomia a legittimare il principio affermato dalle Sezioni unite», ha ricordato che, oltre ai più volte richiamati artt. 76 comma 2 e 601 comma 4 c.p.p., altri articoli del codice di procedura penale indicano un collegamento tra l'azione penale a l'azione civile anche nei gradi di impugnazione, come gli artt. 574 comma 4 e 587 comma 3 c.p.p.; ha osservato che la disposizione dell'art. 601 comma 4 c.p.p. non avrebbe senso se la parte civile che non ha proposto impugnazione rimanesse vincolata dalla pronuncia assolutoria;
ha concluso che la parte civile, anche quando non ha proposto impugnazione, deve essere citata, oltre che nel giudizio di appello, in quello di cassazione e in quello di rinvio e che «il giudice di rinvio deve pronunciarsi sulle sue richieste».
Queste decisioni fanno dubitare delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza Loparco e in particolare dell'idea che l'evoluzione normativa originata dalle due pronunce della Corte costituzionale e passata attraverso il codice di rito del 1988 sia approdata a una compiuta autonomia dell'azione civile in seno al processo penale. A ben vedere infatti non ci sono disposizioni dalle quali possa espressamente trarsi questa conclusione e gli argomenti che la sorreggono sono fortemente controvertibili.
4. Una ricostruzione della disciplina non può non muovere dalla vicenda normativa che l'ha riguardata.
Il sistema del codice di rito del 1930 - come si è visto - era basato sul principio della immanenza della costituzione di parte civile e della completa subordinazione dell'azione civile alle vicende del processo penale: la decisione sull'azione civile dipendeva totalmente da quella sull'azione penale; nel senso che in mancanza della condanna non poteva esserci alcuna decisione sulla responsabilità civile, mentre nel caso di condanna, anche se in grado di appello su impugnazione del pubblico ministero, il giudice, a norma degli artt. 92 comma 1 e 489 comma 1 c.p.p. (corrispondenti agli attuali artt. 76 comma 2 e 538 comma 1 c.p.p.) era tenuto a provvedere sulla domanda della parte civile. A questo scopo era prevista dall'art. 517 comma 2 c.p.p. 1930, corrispondente all'attuale art. 601 comma 4 c.p.p., la citazione della parte civile nel giudizio di appello.
Le sentenze della Corte costituzionale avevano integrato il sistema riconoscendo alla parte civile il potere di proporre ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. nel caso in cui il pubblico ministero non avesse proposto impugnazione. Essendo per il resto rimasto immutato il sistema non c'erano dati normativi che potessero giustificare la trasformazione, operata da una parte della giurisprudenza, della tutela aggiuntiva, riconosciuta dalla Corte costituzionale in una tutela esclusiva con le caratteristiche di un onere; trasformazione che ha fatto venir meno gli effetti dell'immanenza della costituzione di parte civile e il correlativo obbligo del giudice, nel caso di condanna, di pronunciare anche sull'azione civile.
Il legislatore del 1988 nel disciplinare il potere di impugnazione contro le sentenze di proscioglimento, ormai incontestabilmente riconosciuto alla parte civile, ha ritenuto che lo stesso non dovesse essere limitato al ricorso per cassazione, e ha dato alla parte civile la possibilità di impugnare «con il mezzo previsto dal pubblico ministero» (art. 576 c.p.p.), senza per il resto apportare modificazioni sostanziali alla disciplina contenuta in materia nel codice del 1930.
È vero che il codice di procedura penale vigente ha per molti aspetti omologato la disciplina dell'azione civile a quella del codice di rito civile ma nessuna significativa innovazione ha apportato alle disposizioni sui rapporti tra azione penale e azione civile nei gradi di impugnazione. Come è stato ricordato da Sez. III, 1° giugno 2000, Mariotti sono indicativi dello stretto collegamento tra le due azioni, oltre agli artt. 76 comma 2 e 601 comma 4, generalmente richiamati, anche gli artt. 574 comma 4 e 587 comma 3 c.p.p.
Indipendentemente dall'impugnazione sui capi civili, infatti la prima disposizione estende al capo civile gli effetti dell'impugnazione dell'imputato nei confronti della decisione di condanna (con una disciplina che può considerarsi simmetrica a quella che comporta l'estensione alla domanda della parte civile degli effetti dell'impugnazione del pubblico ministero contro la decisione di proscioglimento); la seconda disposizione stabilisce che l'impugnazione proposta dall'imputato giova anche al responsabile civile.
Ne viene fuori un sistema in cui la decisione nel giudizio di impugnazione sulla responsabilità penale si riflette sulla decisione relativa alla responsabilità civile automaticamente, vale a dire anche in mancanza di impugnazione del capo concernente l'azione civile, che nei casi indicati forma oggetto di una devoluzione di diritto.
5. Non risultano decisivi per giustificare una disciplina diversa gli argomenti di carattere sistematico valorizzati nella sentenza delle Sezioni unite del 25 novembre 1998, Loparco.
Secondo questa sentenza dal quadro normativo emergerebbe il «principio di autonomia dell'azione civile rispetto a quella penale, pur entrambe esercitate nello stesso processo e decise, sì con la stessa sentenza, ma in capi diversi, ciascuno capace di assumere la condizione di giudicato anche in momenti (procedimentali) differenti, in funzione della ed in relazione all'area attaccata con l'impugnazione». Posto un principio siffatto la sentenza ha affermato che nel caso di proscioglimento la parte civile ha l'onere di proporre impugnazione «avverso il capo della sentenza a lei sfavorevole» e che il suo «comportamento rinunciatario... comporta la formazione del giudicato in ordine al relativo rapporto, con effetti sia sostanziali che processuali»; poi ha aggiunto: «Se il capo o punto relativo agli interessi civili non è stato impugnato, pare ovvio che il giudice non potrà andare oltre il devoluto. E l'art. 576 c.p.p. parla proprio di “capi” concernenti il regolamento degli interessi civili».
Questa affermazione incontra alcune obiezioni.
Innanzi tutto nei caso di proscioglimento la sentenza non contiene alcun capo relativo all'azione civile, dal momento che, come si desume dall'art. 538 comma 1 c.p.p., quando pronuncia una sentenza di proscioglimento il giudice non decide sulla domanda civile (fuori del caso previsto dall'art. 578 c.p.p.). Del resto l'art. 576 comma 1 c.p.p. distingue, ai fini dell'impugnazione della parte civile, i «capi della sentenza di condanna che riguardano l'azione civile» dalla «sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio», indicando chiaramente che in questo secondo caso non è impugnato un capo civile ma è impugnato, «ai soli effetti della responsabilità civile», il proscioglimento. Sicché è tutt'altro che arbitraria la conclusione che non occorre l'impugnazione della parte civile quando il proscioglimento è impugnato dal pubblico ministero, eventualmente su richiesta della parte civile a norma dell'art. 572 c.p.p.
Il fatto che nel caso di proscioglimento manchi una pronuncia sull'azione civile è chiaramente indicativo della posizione accessoria di questa e non è irrilevante l'argomento che si trae dall'art. 572 c.p.p., il quale, oltre che alla persona offesa, riconosce alla parte civile in quanto tale, e quindi anche quando è costituita da un semplice danneggiato, il potere di sollecitare l'impugnazione del pubblico ministero. L'interesse riconosciuto al danneggiato infatti non può che essere quello relativo ai riflessi della decisione penale sulla domanda risarcitoria.
Non vale richiamare, come hanno fatto alcune sentenze, Part. 329 c.p.c. sull'acquiescenza e rilevare che la parte civile può non avere interesse a coltivare la propria domanda nel giudizio di impugnazione, perché il richiamo della disposizione del codice di procedura civile di per sé è privo di giustificazione se prima non si stabilisce in base alle norme del codice di procedura penale quali effetti discendono dalla mancanza dell'impugnazione della parte civile, e d'altro canto l'art. 82 c.p.p. appresta per la parte civile che abbia perduto interesse alla decisione lo specifico strumento della revoca della costituzione, che può essere espressa o tacita. Sicché anche sotto questo aspetto non c'è ragione di fare ricorso all'art. 329 c.p.c.
D'altro canto non sembra conforme al sistema la formazione di un giudicato sull'azione civile sulla base della sentenza di proscioglimento impugnata dal pubblico ministero e non anche dalla parte civile. Se, ad esempio, si formasse agli effetti civili un giudicato rispetto a un'assoluzione per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste il diritto al risarcimento dovrebbe considerarsi definitivamente escluso mentre non è così. Infatti se in seguito all'impugnazione del pubblico ministero l'imputato viene condannato la sentenza, a norma dell'art. 651 c.p.p., ha efficacia di giudicato e quindi può essere posta a base di una domanda di risarcimento del danno. Se ciò è vero non si può dire che il proscioglimento in primo grado non impugnato dalla parte civile forma nei confronti di questa un giudicato, e del resto se effettivamente si formasse un giudicato resterebbero assai difficilmente spiegabili le disposizioni degli artt. 72 comma 2 e 601 comma 4 c.p.p.
Al riguardo un'indicazione significativa si trae anche dall'art. 75 comma 3 c.p.p., il quale opportunamente stabilisce che «Se l'azione civile è proposta in sede civile contro l'imputato Sxxxxxxx. dopo la sentenza penale di primo grado il processo civile è sospeso fino alla pronuncia della sentenza non più soggetta a impugnazione»; perciò, ad esempio, nel caso di proscioglimento in primo grado con una formula non preclusiva per la parte civile questa neppure revocando la costituzione potrebbe ottenere in sede civile una decisione se prima la sentenza non fosse divenuta irrevocabile.
6. Poiché come si è visto non può affermarsi che sulla sentenza di proscioglimento di primo grado non impugnata dalla parte civile si forni agli effetti civili il giudicato, ove si convenisse con l'orientamento giurisprudenziale che nega la possibilità di decidere nel giudizio di impugnazione sulla domanda risarcitoria si dovrebbe ritenere preclusa solo la condanna, solitamente generica, al risarcimento del danno, ma resterebbero operanti gli effetti dell'accertamento della responsabilità penale eventualmente compiuto nel giudizio di impugnazione conclusosi con la condanna. Anche sotto questo aspetto allora deve ritenersi che non si sia realizzata quell'autonomia dell'azione civile, rispetto all'azione penale, posta a base dell'orientamento giurisprudenziale preclusivo, e non può non rilevarsi che sotto l'aspetto sostanziale tra una condanna generica al risarcimento del danno e un accertamento della responsabilità anche agli affetti civili la differenza di regola non è particolarmente rilevante.
Di ciò si è reso conto un autore che, aderendo in parte alle conclusioni della sentenza Loparco,ritiene preclusa la condanna dell'imputato al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile non appellante ma esclude che la decisione di primo grado sul capo civile passi in giudicato.
Dopo avere giustamente dubitato «che sia consentita l'adozione di due decisioni discordanti nell'ambito del medesimo processo», questo autore conclude che «la sentenza penale diviene irrevocabile ai fini civili nel momento stesso in cui passa in giudicato agli effetti penali» e sostiene che il principio di immanenza ha perduto il suo significato originario forte per assumerne uno debole: la parte civile non appellante non potrebbe ottenere la condanna dell'imputato al risarcimento dei danni ma potrebbe appoggiare l'impugnazione del pubblico ministero, contrastare l'impugnazione dell'imputato e «dedurre una nullità che comporta la regressione del procedimento in primo grado o nella fase delle indagini preliminari, così travolgendo la sentenza sfavorevole del giudice di prime cure».
È una strana situazione quella che si vorrebbe ricostruire, in cui la parte civile per una sorta di «acquiescenza» o comunque di negligenza risulta «dimezzata»: in appello non può chiedere l'accoglimento della domanda ma può agire per ottenere una decisione più vantaggiosa. Sta di fatto però che le diverse disposizioni precedentemente ricordate non giustificano la tesi dell'«indebolimento» del principio di immanenza, nel senso prospettato.
In conclusione, dato che «la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo» (art. 76 comma 2), che il giudice di appello è tenuto a citare la parte civile (art. 601 comma 4) e che se l'appello è stato proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento il giudice di appello può pronunciare condanna «e adottare ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge» (art. 597 comma 2 lett. a e b), appare corretta l'affermazione che, «quando pronuncia sentenza di condanna», il giudice di appello deve decidere «sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno», anche se la parte civile non ha proposto impugnazione (artt. 538 comma 1 e 598 c.p.p.).
Pertanto in accoglimento del ricorso delle parti civili la sentenza impugnata deve essere annullata nel capo relativo al rigetto della domanda di risarcimento dei danni con rinvio, a norma dell'art. 622 c.p.p., al giudice civile competente in grado di appello.
Tenuto conto dell'esito dei ricorsi, Gxxxxxxxxx deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento e al rimborso delle spese processuali in favore delle parti civili, che, in mancanza della relativa nota, sono liquidate in complessivi 2.500 euro.

P.Q.M.

La Corte di cassazione rigetta il ricorso dell'imputato, che condanna alle spese del procedimento ed al pagamento delle spese sostenute dalle parti civili, liquidate in complessivi 2.500 euro. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al rigetto della domanda proposta dalle parti civili e rinvia al giudice civile competente in grado di appello.