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Peculato - Pubblico funzionario - Utilizzo della macchina di servizio e dell'autista

Peculato - Pubblico funzionario - Utilizzo della macchina di servizio e dell'autista

Penale e Procedura - Peculato - Pubblico funzionario - Utilizzo della macchina di servizio e dell'autista (Corte di Cassazione - sentenza 21 ottobre 2003 n. 39771)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il fatto materiale contestato a Bxxx Gxxxxx. è di essersi, nella sua qualità di Presidente della Provincia di Messina, servito per ragioni personali dell’autovettura di rappresentanza di cui aveva la disponibilità facendosi accompagnare insieme alla moglie da Messina a Bari per imbarcarsi su di una nave crociera, e di essersi fatto venire a prendere per compiere il percorso inverso, ponendo a carico dell’Amministrazione l’onere di trattamento di missione per l’autista e le spese della benzina (fatti commessi il 7 e il 14 agosto 1995).

Il GIP del Tribunale di Messina con sentenza 27/11/1996 proscioglieva il B. dal reato di peculato perché il fatto non costituisce reato; sentenza confermata dalla Corte d’appello con sentenza 23/4/1997.

La Corte di Cassazione con sentenza 26/1/1998 annullava tale ultima decisione con rinvio alla Corte d’appello di Reggio Calabria.

Quest’ultima in data 2/12/1998 disponeva il rinvio a giudizio del B. per il reato di peculato davanti al Tribunale di Messina.

Il Tribunale di Messina con sentenza 15/2/2002 dichiarava il B. responsabile del reato di cui all’art. 314, c. 1, c.p. e lo condannava alla pena di anni due e mesi uno di reclusione.

La Corte d’appello di Messina con sentenza 13/12/2002, oggetto dell’attuale impugnazione, in parziale riforma della sentenza del Tribunale riqualificava i fatti ritenendo sussistere l’ipotesi di cui al c. 2 dell’art. 314 c.p. per quanto concerne l’uso dell’autovettura e l’ipotesi di cui all’art. 323 c.p. per quanto concerne l’utilizzo della prestazione dell’autista, e rideterminava la pena in mesi 6 di reclusione.

Ricorre la difesa (avv. Autru Ryolo) dell’imputato per i seguenti motivi: nullità della sentenza, limitatamente al fatto relativo all’uso dell’autovettura, per mancata correlazione tra il fatto reato per cui è stata pronunciata la condanna in primo grado e quello per cui è stata pronunciata la sentenza in appello.

La sentenza, infatti, in assenza di impugnazione da parte del PM avrebbe dovuto valutare solo la sussistenza o la qualificazione giuridica del fatto relativo alla utilizzazione dell’autista e del carburante (ritenute dalla sentenza di primo grado), e non anche quello dell’autovettura.

Iol che comporterebbe la mancata correlazione tra il fatto ritenuto in sentenza e quello per cui è stata comminata la sentenza in primo grado e la violazione del divieto di reformatio in pejus; erronea applicazione della legge penale e carenza di motivazione in ordine all’elemento oggettivo del reato.

Costituendo pacificamente, infatti, l’assegnazione in via esclusiva e continuativa dell’autovettura con relativo autista, la sentenza impugnata ometterebbe di valutare l’effettiva urgenza e necessità della presenza in ufficio del Presidente della Provincia il giorno della partenza e la sera del ritorno; erronea applicazione della legge penale e carenza di motivazione in odine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato.

Il motivo si fonda sul fatto che risulterebbe accertato il parere positivo all’uso dell’autovettura nella circostanza da parte dell’esperto legale della Provincia (avv. Lo Castro); violazione di legge e carenza di motivazione in ordine alla esclusione della scriminante dell’errore su norma extrapenale e mancata valutazione dell’elemento soggettivo.

La normativa relativa all’uso dell’autovettura dello Stato e degli enti locali pone problemi interpretativi rilevanti e le successive regolamentazioni evidenziano la carenza di espressa disciplina legislativa della materia; erronea applicazione di legge e carenza di motivazione nella parte in cui la sentenza afferma la sussistenza del peculato d’uso pur in presenza di una non contestata assegnazione in via continuativa dell’autovettura.

Il fatto al limite potrebbe qualificarsi come abuso di ufficio o mera irregolarità amministrativa; erronea applicazione di legge e illogicità della motivazione in relazione al diniego di concessione delle attenuanti di cui agli artt. 323 bis e 62 n. 4 c.p.

Ricorre ulteriormente la difesa (avv. Trantino) che, premessa una dettagliata ricostruzione dei fatti, lamenta la violazione di legge e la mancanza o illogicità della motivazione in quanto la disciplina delle autovetture era regolata esclusivamente, per amministrazioni pubbliche dello Stato (R.D. 4/4/1926, n. 746) e alle disposizioni emanate dall’assessorato locale degli enti locali (decreto 9/12/1995).

Sulla base di quest’ultimo decreto l’assegnazione in via continuativa dell’uso dell’autovettura doveva essere riconosciuta al Presidente in quanto soggetto avente la rappresentanza legale dell’ente territoriale.

Peraltro l’utilizzo in via continuativa era previsto anche per ragioni di sicurezza.

La circostanza che il decreto fosse stato emanato successivamente alla commissione dei fatti, certificava la legittimità dell’uso consuetudinariamente regolato per analogia, escludendo il dolo da parte dell’agente.

Lo stesso dolo doveva essere escluso avendo il B. (non essendo giurista, ma di professione medico) preventivamente richiesto all’avv. Lo Castro, esperto in questioni di diritto amministrativo presso la Provincia, un parere circa la legittimità dell’uso dell’autovettura per il trasferimento a Bari, ottenendo risposta positiva.

Sotto il profilo oggettivo non sussisteva l’ipotesi prevista dall’art. 314, c. 2 c.p. che prevede l’uso personale ed esclusivo della cosa, mentre nel caso l’uso era stato comunque promiscuo.

D’altra parte l’utilizzazione delle prestazioni lavorative dell’autista non sussisteva, essendo questi a disposizione del presidente della Provincia e perciò non era stato deviato dal compimento delle sue funzioni.

Ed ancora era stato erroneamente escluso l’errore sulla legge extrapenale in quanto le disposizioni del r. d. 746/1926 erano state dettate per regolare rapporti estranei alla fattispecie in questione e addirittura il decreto era anteriore all’entrata in vigore del codice penale e, in ogni caso, non era implicitamente o esplicitamente richiamata dal precetto penale.

Infine erano erroneamente state escluse le circostanze attenuanti di cui agli artt. 323 bis e 62 n. 4 c.p., benchè la prima riguardi la tenuità obiettiva del fatto, e la seconda il pregiudizio economico (nella specie limitato) da parte dell’ente pubblico.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il motivo di ricorso relativo alla nullità della sentenza per mancanza di correlazione tra il fatto reato per cui è stata pronunciata la sentenza di primo grado (solo l’accompagnamento da parte dell’autista e le spese della benzina) e quello per cui è stata pronunciata la sentenza di appello (utilizzo anche dell’autovettura di servizio) è del tutto destituito di fondamento.

Anzitutto il capo di imputazione contempla espressamente l’utilizzo dell’autovettura e il dispositivo della sentenza di primo grado, nel dichiarare la responsabilità dell’imputato, non pone alcuna distinzione fra le diverse condotte (aventi rispettivamente ad oggetto l’utilizzo dell’autovettura, delle prestazioni dell’autista e le spese della benzina.

In secondo luogo la motivazione della sentenza di primo grado, lungi dall’escludere come reato l’utilizzo dell’autovettura, qualifica il fatto come reato ex art. 314, c. 2, c.p., al pari esattamente di quanto ritenuto dalla sentenza di secondo grado, sia nella motivazione, sia nel dispositivo.

Anche i motivi relativi all’erronea applicazione della legge penale e al difetto di motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, comuni ai due difensori sia pure con diverse sfaccettature, non appaiono meritevoli di accoglimento.

Il R.D. 746/26, unica norma all’epoca dei fatti applicabile, fa riferimento all’uso esclusivo e continuativo (quindi, in ipotesi, anche fuori dalle strette esigenze di ufficio) dell’autovettura di servizio, senza possibilità alcuna di interpretazioni estensive nei confronti di rappresentanti di enti locali, come i presidenti delle provincie.

Il sopravvenire di un decreto successivo alla commissione dei fatti non può legittimare a posteriori, ne ratificare, condotte contrastanti con il disposto inequivo delle norme legislative al tempo vigenti.

Ne si riscontra alcuna carenza di motivazione, quando la sentenza impugnata non ravvisa alcuna effettiva urgenza per l’uso dell’autovettura di servizio, posto che l’imputato, una volta raggiunta la sede d’ufficio con l’autovettura assegnatagli, aveva una pluralità di possibilità di raggiungere il porto di Bari (insieme alla moglie che, in quanto tale, sicuramente, era estranea alle esigenze di servizio) con mezzi propri o con mezzi di terzi a proprie spese. Il che vale, a maggior ragione, per il ritorno da Bari a Catania.

Peraltro le invocate esigenze di sicurezza sono apoditticamente affermate e non trovano alcun riscontro obiettivo.

D’altra parte, se è vero che l’autista del veicolo era assegnato ad personam al presidente della Provincia, ciò non toglie che la assegnazione non poteva non essere collegata all’uso legittimo del veicolo, con esclusione di ogni uso estraneo a fini istituzionali, non essendo dato conoscere a quali altre mansioni l’autista fosse addetto in assenza del Presidente dell’ente.

Quanto all’elemento psicologico del reato, correttamente la sentenza impugnata non attribuisce particolare rilievo alla consultazione con un consulente esterno alla Provincia di Messina (avv. Lo Castro), in primo luogo per la genericità del parere, in secondo luogo in quanto il responsabile dell’amministrazione territoriale (a prescindere dalla sua professione quale privato) ha il dovere giuridico di conoscere le normative che attengono al ruolo pubblico ricoperto, non affidatogli per decreto dell’autorità, ma conseguito per libera scelta al momento della presentazione nelle liste elettorali, al momento in cui il gruppo di appartenenza politica consegue la maggioranza, al momento in cui la sua stesa maggioranza lo elegge al vertice dell’amministrazione pubblica locale.

Per ciò che concerne il preteso errore sulla legge extrapenale la sentenza impugnata correttamente osserva che la norma relativa all’uso delle autovetture di servizio integra il precetto penale, sulla considerazione dell’elemento oggettivo del reato è costituito dal superamento dei limiti all’uso consentito dalle norme legislative dell’autovettura stessa, che, come prima si è detto, non lo prevedono, non sono estensibili in via analogica, e non consentono una sanatoria a posteriori per il solo fatto che sia intervenuto un decreto di diverso tenore.

In tema relativo alla assegnazione in via continuativa dell’autovettura di servizio che escluderebbe l’elemento oggettivo o l’elemento soggettivo del reato, sotto il profilo della carenza motivazionale, non trova fondamento, da un lato per le considerazioni fin qui svolte, dall’altro lato perché l’assegnazione in via continuativa non può equivalere in alcun modo come assegnazione ad personam a prescindere dalle finalità di utilizzo, restando in ogni caso escluso quello dovuto a esigenze strettamente personali.

Per quanto concerne l’esclusione della circostanza attenuante di cui all’art. 323 bis c.p., la sentenza impugnata correttamente rileva (sulla scorta di una giurisprudenza costante anche di questa Suprema Corte) che essa non è collegata alle conseguenze patrimoniali della condotta, ma alle modalità e circostanze dell’azione: elementi espressamente presi in considerazione e adeguatamente motivati.

In ordine alla circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p., la sentenza impugnata, rivela, con motivazione logica e coerente, chele dimensioni dei viaggi e le spese di indennità dimissione dell’autista non consentono un giudizio di irrilevanza o di lievissima entità, quali presupposto della norma invocata.

In questo quadro il ricorso proposto dai difensori dell’imputato deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente alle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso alla c.c. del 5 giugno 2003. Depositata in Cancelleria il 21 ottobre 2003.