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Carenza della legittimazione processuale - Retroattività della sanatoria

Capacità processuale - Sanatoria - Carenza della legittimazione processuale - Retroattività della sanatoria Civile - Capacità processuale - Sanatoria - Carenza della legittimazione processuale - Retroattività della sanatoria - Decadenze processuali - Limite - Sussistenza - Giudicato per omesso appello tempestivo - Superamento - La sanatoria retroattiva della carenza di legittimazione processuale incontra l'insuperabile limite delle decadenze verificatesi nelle precedenti fasi intermedie del giudizio, quale quella conseguente allo spirare del termine breve per l'appello, con conseguente formazione del giudicato per difetto di tempestiva impugnazione. Corte di Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 3700 del 09/03/2012

Capacità processuale - Sanatoria - Carenza della legittimazione processuale - Retroattività della sanatoria

Civile - Capacità processuale - Sanatoria - Carenza della legittimazione processuale - Retroattività della sanatoria - Decadenze processuali - Limite - Sussistenza - Giudicato per omesso appello tempestivo - Superamento - La sanatoria retroattiva della carenza di legittimazione processuale incontra l'insuperabile limite delle decadenze verificatesi nelle precedenti fasi intermedie del giudizio, quale quella conseguente allo spirare del termine breve per l'appello, con conseguente formazione del giudicato per difetto di tempestiva impugnazione. Corte di Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 3700 del 09/03/2012

Corte di Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 3700 del 09/03/2012

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nel luglio del 2007 la s.p.a. Mediofactoring evocò in giudizio, dinanzi al tribunale di Milano, la s.p.s. Italian Leather, e, sulla premessa di aver stipulato con la convenuta una convenzione negoziale di factoring pro soluto avente ad oggetto i crediti di un cliente americano, lamentò che, pochi mesi dopo l'inizio dell'esecuzione del contratto, la convenuta si era resa inadempiente, violando le pattuizioni negoziali, onde la sospensione, da parte di essa attrice, dell'efficacia delle cessioni, con conseguente richiesta di restituzione delle anticipazioni già effettuate.
La Italian Leather, nell'eccepire che nessun inadempimento si era nella specie verificato, spiegò domanda riconvenzionale per il pagamento delle anticipazioni collegate a fatture regolarmente cedute.
Il giudice di primo grado respinse la domanda dell'attrice, condannandola al pagamento, in favore della convenuta, della somma di oltre 775 mila dollari in accoglimento della domanda riconvenzionale. La corte di appello di Milano, investita del gravame proposto dalla Mediofactoring, lo dichiarò inammissibile - su eccezione pregiudiziale dell'appellata - per difetto di legittimazione processuale del dirigente della direzione legale della società, il quale aveva conferito il mandato alle liti al difensore in quel grado di giudizio esercitando un potere spettante in via esclusiva al presidente del consiglio di amministrazione, ai sensi dell'art. 18 dello statuto dell'ente appellante.
La sentenza è stata impugnata dalla Mediofactoring con ricorso per cassazione articolato in 5 motivi.
Resiste con controricorso la Italian Leather.
Le parti hanno entrambe depositato memorie illustrative. MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è infondato.
Con il primo motivo, si denuncia violazione regolante il procedimento (art. 15 c.p.c., comma 3, art. 77 c.p.c., comma 1, art. 182 c.p.c., comma 2, art. 125 c.p.c., comma 1).
Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: Dica la suprema corte se il difetto di legittimazione processuale della parte (nella specie, perché i rappresentanti della ricorrente nei due gradi di giudizio non sarebbero stati legittimati, essendo unico legittimato a stare in giudizio il presidente della società) comporti nullità insanabile della procura alle liti, ovvero se comporti difetto di rappresentanza sanabile ex art. 182 c.p.c., comma 2, in qualunque stato e grado del giudizio e quindi anche nel giudizio di cassazione, con effetto retroattivo e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, per effetto della costituzione in giudizio del soggetto legittimato che abbia manifestato la volontà di ratificare l'attività difensiva precedente.
Con il secondo motivo, sì denuncia, ancora, violazione di legge regolante il procedimento (art. 77 c.p.c., comma 1) ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4.
Il quesito di diritto formulato a conclusione della doglianza è il seguente:
Dica la corte se la previsione statutaria di una società per azioni, secondo cui il consiglio di amministrazione può nominare dirigenti, nonché determinare i loro poteri e le modalità d'uso, per gli stessi, della firma sociale, attribuisca ai dirigenti cosi investiti dei poteri sostanziali e processuali in relazione a certi rapporti la legittimazione a stare in giudizio per la società e a conferire procura alle liti nell'ambito dei rapporti medesimi ai sensi dell'art. 11 c.p.c., comma 1.
Con il terzo motivo, si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul fatto controverso e decisivo per il giudizio della supposta esistenza in via esclusiva in capo al solo presidente del consiglio di amministrazione della società ricorrente del potere di rappresentanza processuale della società stessa. Il fatto controverso e decisivo per il giudizio viene sintetizzato (al folio 24 del ricorso) sotto un duplice, concorrente profilo (integrante vizio motivazionale, secondo quanto opinato dal ricorrente):
a) per avere (la corte di merito) illogicamente dedotta tale esclusiva rappresentanza processuale in capo al solo presidente dall'art. 18 dello statuto, che la predetta esclusione non sancisce;
b) per avere (la corte) omesso di esaminare l'art. 13 dello statuto e il verbale consiliare della società del 14.4.2003 che ne costituiva attuazione, dai quali si desume che il consiglio di amministrazione poteva delegare il potere di rappresentanza in giudizio della società, ex art. 11 c.p.c., comma 1, ai dirigenti della società stessa, e lo aveva in fatto delegato in grado di appello al dott. Danilo Diotallevi. I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati attesane la intrinseca connessione, sono privi di pregio. La corte di appello di Milano, accogliendo, come ricordato in narrativa, un'eccezione pregiudiziale della odierna resistente, ha dichiarato inammissibile l'appello della Mediofactoring per difetto di legittimazione processuale del dirigente conferente mandato ad litem opinando, da un canto, che la relativa capacità di agire, spettante al rappresentante legale (tale per norma o per statuto) dell'ente o a persona da lui a tanto delegata, fosse attribuita dallo statuto societario (art. 18) al solo presidente della società;
dall'altro, che il mandato ad litem era stato rilasciato al difensore in sede di appello dal dirigente dell'ufficio legale (Diotallevi Danilo) in forza di poteri conferitigli non dal presidente bensì dal consiglio di amministrazione (Delib. 14 aprile 2003), organo anch'esso privo di potere di rappresentanza processuale dell'ente. Tale sintetica quanto efficace ricostruzione della vicenda processuale, fondata su di una interpretazione della norma statutaria che, esente da vizi logico-giuridici, si sottrae ipso facto al controllo di legittimità di questa Corte, non risulta scalfita in alcun modo dalle censure, del tutto fuori fuoco, mosse oggi dalla ricorrente - che invano evoca, per la prima volta in questa sede, l'istituto della ratifica ex art. 182 c.p.c. (per essersi, dinanzi a questo collegio, regolarmente costituita in persona del soggetto legittimato, dopo avere, in entrambi i gradi di merito, sempre sostenuto la pienezza dei poteri dei suoi rappresentanti), ratifica che non potrebbe comunque sanare le decadenze intervenute medio tempore (Cass. 6297/03; 5175/05, a mente delle quali, del tutto condivisibilmente, la sanatoria retroattiva della carenza di legittimazione ad processum si infrange sull'insuperabile limite delle decadenze verificatesi nelle precedenti fasi intermedie del giudizio, quale quella conseguente allo spirare del termine breve per l'appello, con conseguente formazione del giudicato per difetto di tempestiva impugnazione).
Con il secondo e terzo motivo motivo di censura, si invoca, in realtà, una diversa (quanto ormai impredicabile) interpretazione della sintesi. normativa costituita dalla lettura congiunta dell'art. 18 e del precedente art. 13 dello statuto societario, lettura (oltre che del tutto impropria, come improprio si appalesa il richiamo all'art. 77 c.p.c., comma 1, la cui applicazione presuppone già risolta la questione del potere di rappresentanza processuale) ormai non più consentita in questa sede poiché evocatrice, in guisa di mera quaestio facti, di un nuovo procedimento di ermeneutica negoziale del tutto estraneo ai compiti di questa corte regolatrice (dinanzi alla quale è istituzionalmente inammissibile qualsiasi richiesta di riesame del merito della causa, volta che, come nella specie, l'attività interpretativa svolta dal giudice territoriale si sottrae, come già sottolineato poc'anzi, a qualsiasi censura sul piano logico-giuridico).
I tre motivi sono, pertanto, irrimediabilmente destinati ad infrangersi sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d'appello dianzi descritto, dacché essi, nel loro complesso, pur lamentando formalmente plurime (quanto generiche e non conferenti) violazioni di legge e un decisivo difetto di motivazione, si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. La ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all'art. 360 c.p.c., si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all'impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, da un canto, per la mancata trascrizione, necessaria in parte qua di tutti gli atti di causa la cui interpretazione egli assume errata (con conseguente violazione del ben noto principio di autosufficienza del ricorso per cassazione), dall'altro, perché la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle - fra esse - ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una interpretazione a scapito di altre (pur se astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. È principio di diritto ormai consolidato quello per cui l'art. 360 c.p.c., n. 5 non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo - sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto - delle valutazioni compiute dal giudice d'appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l'individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove c.d. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perché in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di un fatto e di una vicenda processuale, quanto l'attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione ermeneutica, quanto ancora l'opzione espresse dal giudice di appello - non condivisa e per ciò solo censurata al fine di ottenerne la sostituzione con altra più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi a questa Corte.
Con il quarto motivo, si denuncia violazione di norme di diritto (art. 2909 c.c. e giudicato sulla legittimità dell'attribuzione mediante delibera del consiglio di amministrazione di poteri di rappresentanza sostanziale e processuale ai dirigenti della società) ex art. 360 c.p.c., n. 3) ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4.
Il quesito di diritto formulato a conclusione della doglianza è il seguente:
Dica la corte se, respinta dal giudice di primo grado un'eccezione di difetto di rappresentanza processuale di una società per azioni sollevata dal convenuto (poi risultato totalmente vittorioso nel merito) in ragione dell'attribuzione dei poteri al rappresentante della società da parte del consiglio di amministrazione, anziché del suo presidente, e riproposta in appello tale eccezione da parte del convenuto condizionatamente all'accoglimento dell'appello della controparte, ove l'accoglimento dedotto in condizione non si sia verificato ciò determini il formarsi del giudicato sulla statuizione del giudice di primo grado e se, alla luce della formazione di tale giudicato, possa il giudice di secondo grado dichiarare l'inammissibilità dell'appello per difetto dei poteri del nuovo rappresentante della società sempre in ragione dello stesso fatto che i poteri sono stati conferiti al medesimo da parte del consiglio di amministrazione anziché da parte del presidente della società. Con il quinto motivo, si denuncia violazione di legge regolante il procedimento (art. 112 c.p.c., art. 182 c.p.c., comma 2, art. 216 c.p.c., comma 2, artt. 346, 359 c.p.c.) ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4. Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto:
Dica la suprema corte se, respinta dal primo giudice un'eccezione di difetto di rappresentanza processuale dell'attore sollevata dal convenuto che sia poi risultato totalmente vittorioso nel merito, possa tale convenuto subordinare in appello il riesame della predetta eccezione all'accoglimento dell'appello della controparte e se in caso negativo, debba il giudice che tale difetto di rappresentanza affermi dichiarare la nullità dell'intero procedimento e non limitarsi alla dichiarazione della inammissibilità dell'appello. I motivi, che possono essere anch'essi congiuntamente esaminati, sono del tutto infondati.
Il presupposto di fatto su cui le doglianze di rito sembrano fondarsi - il non avere la corte territoriale preso in esame l'appello incidentale condizionato della odierna resistente, con il quale si lamentava la nullità dell'atto di citazione di primo grado per difetto di legittimazione passiva del primo dei due soggetti illegittimamente costituiti in giudizio per Mediofactoring, il direttore generale Del Monte Argante - è difatti smentito dalla semplice lettura della motivazione della sentenza oggi impugnata, nella parte in cui la corte territoriale dichiara, tout court, la nullità dell'atto di citazione per difetto di legittimazione processuale del direttore generale di Mediofactoring con espresso riferimento al giudizio di primo grado, come confermato (folio 5 della sentenza) dall'ulteriore, inequivoca affermazione secondo la quale la procura rilasciata oltre il termine previsto dall'art. 125 c.p.c., comma 2 comportava la nullità, in primo grado e in appello, della citazione stessa (tale affermazione non risulta nemmeno espressamente censurata dalla ricorrente, onde il suo inevitabile passaggio in giudicato in parte qua). Nè, da ultimo, risulta violato l'ordine logico delle questioni da esaminare da parte della corte di appello, poiché il giudice di prime cure si era espressamente pronunciato sulla questione della legitimatio ad processum del soggetto costituito dinanzi a sè, onde la relativa questione, da officiosa, diveniva ipso facto rilevabile soltanto su eccezione di parte.
Come nella specie, è ritualmente accaduto. Il ricorso è pertanto rigettato.
La disciplina delle spese segue - giusta il principio della soccombenza - come da dispositivo.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 18200,00, di cui Euro 200,00 per spese generali. Così deciso in Roma, il 25 novembre 2011.
Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2012

 

Documento pubblicato su ForoEuropeo - il portale del giurista - www.foroeuropeo.it