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Avvocati e processo amministrativo: speranze, contraddizioni

Avvocati e processo amministrativo: speranze, contraddizioni e qualche ingenuità (pubblicato sul sito giustizia Amministrativa il 5 marzo 2010) di PIETRO QUINTO - 

Avvocati e processo amministrativo: speranze, contraddizioni e qualche ingenuità (pubblicato sul sito giustizia Amministrativa il 5 marzo 2010) di PIETRO QUINTO - 230.000 sono gli avvocati italiani. La speranza, dal punto di vista di chi scrive, è che per l’avvocatura italiana non si verifichi l’auspicio del sottosegretario alla Giustizia britannico: «Accedere ai servizi legali deve essere facile come comprare una scatola di fagioli». Si tratta - come commentava Angela Manganaro sul “Sole 24 ore” del 20 gennaio - degli effetti del Legal service act del 2007, legge conosciuta come Tesco law, che prende il nome dal colosso dei supermercati. La legge liberalizza il mercato dei servizi legali e da gennaio anche chi non ha il titolo di avvocato può acquistare fino al 25% delle azioni di uno studio legale. Ed ancora: dal 2011 i supermercati inglesi potrebbero avere un corner con l’avvocato-dipendente. Una rivoluzione che la stampa inglese ha ribattezzato Big Bang, ma che, fortunatamente, sta suscitando qualche reazione nel foro britannico, soprattutto per il singolare accostamento ai fagioli dei sollicitor e barrister (i nostri avvocati). Negli Stati Uniti, invece, dove notoriamente gli avvocati non sono molto amati, da tempo è in voga una storiella dal sapore grottesco. Notizia giornalistica: a New York: è stato ripescato il corpo di un avvocato nel fiume Hudson. Commento: «è un buon inizio»!

PIETRO QUINTO

 

Avvocati e processo amministrativo:

speranze, contraddizioni e qualche ingenuità

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pubblicato sul sito il 5 marzo 2010

230.000 sono gli avvocati italiani. Nella provincia ove risiedo (Lecce), gli avvocati sono 5.000, destinati ad aumentare a 5.500 nel prossimo anno, a conclusione della tornata degli esami di abilitazione.

Sono dati che impongono una riflessione autocritica, soprattutto alla vigilia  dell’esame in sede parlamentare del progetto di riforma della professione forense. La speranza, dal punto di vista di chi scrive, è che per l’avvocatura italiana non si verifichi l’auspicio del sottosegretario alla Giustizia britannico: «Accedere ai servizi legali deve essere facile come comprare una scatola di fagioli».

Si tratta - come commentava Angela Manganaro sul “Sole 24 ore” del 20 gennaio -  degli effetti del Legal service act del 2007, legge conosciuta  come Tesco law, che prende il nome dal colosso dei supermercati. La legge liberalizza il mercato dei servizi legali e da gennaio anche chi non ha il titolo di avvocato può acquistare fino al 25% delle azioni di uno studio legale. Ed ancora: dal 2011 i supermercati inglesi potrebbero avere un corner con l’avvocato-dipendente. Una rivoluzione che la stampa inglese ha ribattezzato Big Bang, ma che, fortunatamente, sta suscitando qualche reazione nel foro britannico, soprattutto per il singolare accostamento ai fagioli dei sollicitor e barrister (i nostri avvocati).

Negli Stati Uniti, invece, dove notoriamente gli avvocati non sono molto amati, da tempo è in voga una storiella dal sapore grottesco.

Notizia giornalistica: a New York: è stato ripescato il corpo di un  avvocato nel fiume Hudson. Commento: «è un buon inizio»!

In disparte queste divagazioni, che pur tuttavia potrebbero sollecitare non poche considerazioni, e venendo all’attualità del tema ‘giustizia amministrativa’ all’inizio del nuovo anno, mi piace richiamare quanto ha scritto nell’editoriale della “Guida al diritto” del 30 gennaio il prof. Marcello Clarich: la parola d’ordine per tutti gli operatori del diritto nell’anno 2010 è «aggiornamento».

Entreranno in vigore molte delle innovazioni derivanti dalle leggi emanate nel 2009 e che hanno introdotto, accanto alla mini riforma del processo civile, la modifica sostanziale del procedimento amministrativo, l’attuazione della normativa sul ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici, le due deleghe, contenute negli artt. 44 delle leggi 69 e 89, per il riassetto del processo amministrativo e per l’attuazione della direttiva comunitaria sui ricorsi in materia di contratti pubblici.

V’è quindi quanto basta per un dovere di approfondimento, studio ed aggiornamento da parte di tutti gli operatori del diritto.

Il tema di maggiore impegno è indubbiamente quello del codice del processo amministrativo, il cui schema è stato depositato a cura dell’apposita commissione, e che dovrebbe entrare in vigore entro l’ottobre di quest’anno, preceduto peraltro temporalmente dal ‘mini codice’ dei ricorsi in materia di contratti pubblici per i necessari adempimenti agli obblighi comunitari. E già questa sfasatura temporale (che si tenta di evitare) nell’ambito di un Codice  unitario dei riti processuali sollecita una considerazione di fondo sulla valenza di un “Codice” nel terzo millennio.

E’ stato giustamente osservato (Sergio De Felice) che la codificazione va storicizzata al suo tempo e che è cambiata l’idea della codificazione rispetto ai Codici ottocenteschi. Ed è altresì condivisibile l’affermazione della dottrina che nei confronti della moderna codificazione deve assumersi un atteggiamento laico. Anche il termine utilizzato nella delega di riassetto del processo amministrativo sta a significare che non può essere mitizzata l’idea di un Codice, che, in partenza, non può garantire i caratteri peculiari delle tradizionali codificazioni: la fissità e l’unità dell’ordinamento.

I codici di settore (si pensi a quello dei contratti pubblici, ma altresì a quello delle espropriazioni, dell’ambiente ecc.) hanno registrato, da subito, correzioni ed integrazioni. Anche il nuovo progetto di Codice del processo prevede una sperimentazione biennale, con possibilità di modifiche sul campo, realizzando quello che in altra circostanza ho definito il paradosso dell’effettività.

Per quanto attiene all’unitarietà dell’ordinamento, e, nella specie, alla semplificazione e alla riduzione dei riti processuali, appare evidente l’impossibilità di realizzare un siffatto obiettivo. E’ nella realtà delle cose che l’ordinamento abbia perso la sua unitarietà a causa della molteplicità delle fonti di produzione delle regole (direttive comunitarie e diritto europeo, reso ancor più rilevante dal Trattato di Lisbona): così come la complessità del sistema ovvero dei sistemi in cui si articolano i settori della economia, del lavoro, della politica ecc. fanno sì che anche le regole e le differenti esigenze di accelerazione dei tempi del processo abbiano naturalmente perso la loro unitarietà.

E’ così accaduto che, pur avendo previsto la legge di delega la revisione dei riti (ed in qualche caso si è riusciti a riassorbire quelli più marginali), tutti i principali riti speciali siano stati inevitabilmente confermati ed anzi incrementati.

Dal rito del 23 bis è derivato quello di attuazione della   direttiva ricorsi in materia di contratti, che potrebbe essere definito, per similitudine, PAV (‘processo alta velocità’), con termini enormemente ridotti al punto da richiedere energie fisiche adeguate non solo per gli avvocati, ma anche per i giudici.

Non basta. Per i ricorsi elettorali lo schema del codice del processo ha previsto due nuovi riti per gli atti preparatori del procedimento elettorale, diversificato per le elezioni di Camera e Senato e per quelle delle Regioni, Province e Comuni. Si è qui in presenza di un rito «istantaneo», perché necessariamente coordinato con i tempi inderogabili del procedimento elettorale. Il ricorso per le elezioni politiche va proposto nel termine di quarantotto ore dalle pubblicazioni e l’udienza di discussione si celebra il giorno successivo al deposito del ricorso; mentre nel caso di elezioni comunali, provinciali e regionali, i ricorsi avverso gli atti del procedimento preparatorio si propongono nel termine di cinque giorni e l’udienza di discussione si celebra nel termine di trenta giorni dal deposito del ricorso.

Ne riparleremo ad ottobre quando questo progetto entrerà in vigore, ma ovviamente occorre arrivare adeguatamente preparati all’appuntamento. Ecco il dovere di aggiornamento nell’immediato, anche perché – come già detto – può accadere che a marzo entri in vigore il nuovo rito dei ricorsi per i contratti pubblici: il cd. PAV.

Senza alcuna pretesa di affrontare i contenuti specifici del riassetto del processo amministrativo, sia consentita una annotazione su una disposizione valevole per tutti i riti, contenuta nell’art. 7, secondo cui «Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica».

Che questa esigenza sia diffusamente avvertita, ed anzi reclamata, è indubbio. Suscita una qualche amarezza che sia stato necessario introdurre un precetto giuridico – peraltro derivante da una direttiva europea circa la sinteticità degli atti – per affermare quello che dovrebbe corrispondere ad uno stile, un metodo, ad un modo di porsi intelligentemente da parte di tutti gli operatori del diritto rispetto ai canoni fondamentali del giusto processo. Ma tant’è. Viviamo la contraddizione della moderna società liberale nella quale in mancanza di un comando e/o un divieto con sanzione, tutto è permesso e nulla è vietato. E’ il trionfo della concezione normativistica di Kelsen: ciò che non è norma è al di fuori del mondo del diritto.

Naturalmente, il problema è che posto il precetto occorre poi farlo rispettare, e, quindi, individuare il paradigma di riferimento che la renda applicabile. Per la definizione di scritti sintetici, in altra circostanza e prima che la direttiva ricorsi fosse addirittura codificata nelle regole generali del processo amministrativo, ho invocato l’elogio della brevità riportato nel «breviario laico» di Mons. Ravasi: trecento parole. Non di più sono quelle contenute nel Padre Nostro, il Salmo 22, il discorso di Lincoln a Gettysburg, che rappresentano le tre grandi perle letterarie che dureranno in eterno.

Più difficile è individuare un parametro obiettivo per assolvere all’obbligo di chiarezza negli atti processuali. Può soccorrere, forse, l’insegnamento evangelico: sia il vostro parlare sì sì e no no: il più viene dal Maligno. Ma il mondo del diritto positivo è, purtroppo, più complesso di una società ideale. E’ forse possibile esprimersi con chiarezza sul fatto. Molto più difficile interpretare la molteplicità delle norme e renderle chiare nella loro applicazione.

Se la nostra Carta Costituzionale si poggia su soli 149 articoli, ciascuno con non più di tre commi (naturalmente, quelli ante riforma del titolo V), le leggi ordinarie dell’epoca attuale, che rappresentano gli strumenti operativi per redigere gli atti processuali e pronunciare le sentenze, non sono di certo redatte con stile sintetico e chiaro. Ancor oggi infatti dilaga la «comminite» (il termine è stato coniato da Michele Ainis), cioè l’assemblaggio di innumerevoli commi in un solo articolo: nella finanziaria 2010, i commi di un articolo di legge sono stati 250, mentre il record si verificò nel 2006 con 1.365 commi.

E, per quanto riguarda la chiarezza dei testi legislativi, troppe norme si limitano a richiamare altre disposizioni in un contesto di fattispecie non omogenee. La nevrosi legislativa e la scarsa chiarezza delle disposizioni sono altresì considerate, nell’attualità, tra le concause di tanti fenomeni degenerativi della società italiana secondo l’ammonimento di Tacito «plurimae leges, res pubblica corruptissima».

V’è però una buona notizia. Dal 14 febbraio, giorno di San Valentino,  è entrata in vigore la VIR, la verifica dell’impatto della regolamentazione in attuazione del D.P.R. 212/2009 e dal mese di marzo saranno on line tutte le leggi statali in vigore. Ogni due anni Governo e ministri dovranno rendere conto degli effetti degli atti legislativi che hanno varato, di quale impatto – economico e organizzativo – hanno avuto sui cittadini, imprese e pubblica amministrazione.

E’ un ulteriore tentativo per realizzare quella semplificazione e conoscenza delle leggi, che erano l’oggetto della delega prevista dall’art. 20 della legge 59 del  1997.

Il problema è che troppo spesso è lo stesso legislatore a creare occasioni di contenzioso, elaborando norme di compromesso che richiedono l’intervento indispensabile del giudice ai fini della loro interpretazione applicativa.

E’ il caso dell’art. 2 bis della legge 241/90, introdotto dall’art. 7 della legge 69 del 2009, che, volendo affrontare la controversa questione sulla riconoscibilità di un interesse procedimentale meritevole di tutela per violazione del termine di conclusione del procedimento amministrativo e sul diritto del cittadino al risarcimento danni, ha adottato una formulazione ambigua, che richiederà il necessario accertamento in sede contenziosa di un titolo di responsabilità e del danno risarcibile. Il tutto nell’ambito di una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo.

Continuo a ritenere che l’originaria formulazione della norma sarebbe stata più coerente con le dichiarate finalità di semplificazione del procedimento, enunciate dalla legge 69. Le modifiche introdotte hanno infatti ridimensionato il carattere innovativo della disposizione, hanno messo in dubbio l’autonomia del danno da ritardo rispetto alla spettanza del beneficio finale atteso dall’interessato, e, soprattutto, hanno posto a carico del richiedente la prova di un danno, che, nella originaria versione dell’istituto, era configurabile come un indennizzo per sanzionare la violazione del termine procedimentale.

Anche in questo caso la formula di compromesso è prevalsa sulla chiarezza delle scelte.

Nella logica del doveroso aggiornamento sulle prospettive della nuova giustizia amministrativa, è tornato di attualità il tema degli strumenti di deflazione del contenzioso, nella constatazione che i dati riguardanti il numero dei ricorsi al giudice amministrativo - come ricordato dal Presidente Paolo Salvatore - rimangono elevati, e come tali, suscettibili di incidere negativamente sulla pur acclarata funzionalità della giustizia amministrativa.

La questione è stata affrontata nella direttiva comunitaria per i ricorsi in materia di contratti pubblici, con l’introduzione del preavviso di ricorso: istituto che obbliga l’amministrazione aggiudicataria, investita del preavviso motivato di un ricorso, a riesaminare i propri atti per confermarli ovvero per adottare provvedimenti di ritiro o di autotutela. La direttiva è stata puntualmente recepita nello schema di decreto legislativo di attuazione, che ha previsto l’inserimento nel Codice degli appalti dell’art. 243 bis, che si colloca a chiusura del titolo I della parte V, dedicato agli strumenti precontenziosi e prima della parte II, che riguarda le norme processuali vere e proprie.

L’informativa preventiva e la possibile autotutela sono uno strumento precontezioso che evita la lite e come tale incide sul procedimento amministrativo di affidamento ed è ammesso sino alla notifica del ricorso giurisdizionale.

L’operatività di questo istituto, di derivazione comunitaria, è stata però limitata solo ai ricorsi in materia di procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici, senza una sua estensione a tutti i ricorsi giurisdizionali, come pure auspicato da chi scrive in altre occasioni.

Non se ne capisce la ragione, considerata la finalità deflattiva dell’istituto, la possibilità di una sua modulazione – come risultato della formulazione dell’art. 243 bis –, che esclude qualsivoglia complicazione procedurale, e la circostanza che il contenuto di altre direttive di settore siano state recepite nei riti processuali ordinari.

V’è  da notare, in proposito, una contraddizione nell’articolato dello schema del processo amministrativo. L’art. 39, che disciplina l’azione di risarcimento per lesione di interessi legittimi, prevede che nel determinare il risarcimento il giudice valuti il comportamento della parte e può escludere i danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza: «anche ….attraverso l’invito all’autotutela».

Sembra quindi che, ancorchè non recepito e regolamentato, il sistema del preavviso di ricorso, da cui dovrebbe scaturire un dovere a carico dell’Amministrazione di valutare l’opportunità dell’autotutela, sia stato invece implicitamente affermato attraverso un generico onere della parte ricorrente da invitare comunque l’Amministrazione all’autotutela, onere destinato ad incidere nella determinazione del risarcimento dei danni per lesione di interesse legittimo. E’ forse un modo per assecondare i più recenti apporti giurisprudenziali che, superando il precedente orientamento di segno contrario in ordine alla possibilità di richiedere ed ottenere un riesame dell’atto da parte dell’amministrazione, soprattutto dopo il decorso del termine di impugnativa, hanno dichiarato – anche ai sensi della legge 241 – l’obbligo dell’Amministrazione di pronunziarsi sull’istanza dell’interessato.

Nella formulazione della norma codicistica la potestà per la parte privata di sollecitare l’autotutela costituisce un vero e proprio onere, con effetti però unilaterali. Si tratta di una soluzione ribaltata rispetto all’insegnamento della giurisprudenza della Cassazione in materia tributaria (da ultimo, Sez. III 19/1/2010 n. 698), che pone invece a carico dell’Amministrazione un vero e proprio obbligo, ricorrendone i presupposti, per l’esecuzione dell’autotutela, con la conseguenza che deve essere risarcito il danno provocato al contribuente dall’amministrazione finanziaria che non tiene conto della richiesta di annullamento in via di autotutela di un avviso di accertamento illegittimo o infondato.

Sarebbe stato forse più opportuno introdurre, in linea generale, una disciplina organica sul preavviso di ricorso, specificando gli oneri che gravano sulle parti e regolamentando l’istituto in analogia alla direttiva comunitaria, per trarne tutti i benefici in termini di deflazione del contenzioso ed evitare le complicazioni procedurali, che possono scaturire da un obbligo non adempiuto dall’Amministrazione, suscettibile di creare ulteriore contenzioso in termini di silenzio rifiuto.

Sempre in tema di strumenti alternativi idonei a ridurre il contenzioso innanzi al TAR si attendeva dalla Commissione redigente il Codice del processo una parola chiarificatrice sul destino del ricorso straordinario al Capo dello Stato, definito nel recente passato come una sorta di «ircocervo».

Un articolo risalente al 2004 (a firma del consigliere Enrico D’Arpe) sulla storia del ricorso straordinario era così intitolato: «Un antico istituto destinato al rapido tramonto». L’autore ne evidenziava le contraddizioni intrinseche: in particolare, la possibilità per il potere esecutivo, con decisione di natura politica, di discostarsi dal parere di legittimità espresso dal Consiglio di Stato assumeva un carattere «eversivo» dell’ordine costituzionalmente stabilito e di patente deroga al principio cardine della divisione dei poteri dello Stato-Comunità. Da qui il dubbio della persistente utilità ed affidabilità del rimedio, al punto da ipotizzarne una abrogazione.

È poi accaduto che, innovazioni legislative, importanti riconoscimenti della giurisprudenza comunitaria sempre più incisivi con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, e decisioni di organi di giustizia amministrativa nell’applicazione dell’istituto hanno comportato una ridefinizione e rivalutazione del ricorso straordinario, sì da riproporre il tema non tanto del suo «tramonto», bensì di una sua permanente ed accresciuta utilità.

La legge 69 ha modificato la procedura del ricorso straordinario, riconoscendo la natura decisionale vincolante del parere del Consiglio di Stato, e, quindi, valorizzando la sua natura giurisdizionale prevalente su quella amministrativa, al punto da positivizzarne anche la possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale.

La Corte di Giustizia, con orientamento costante e consolidato ha ricompreso nella nozione di «giurisdizione» il parere del Consiglio di Stato in sede di ricorso straordinario, riconoscendo quindi la legittimazione del Consiglio di Stato in quel contesto, a richiedere pronunce pregiudiziali sull’interpretazione delle direttive europee.

Con una decisione del 23 dicembre 2009, proprio su una questione pregiudiziale rimessa dal Consiglio di Stato in sede di ricorso straordinario, la Corte di Giustizia ha pronunciato una importante sentenza, interpretando la direttiva 2004/18 nel senso che le Università e gli Istituti di ricerca, che non perseguono scopi di lucro, possono partecipare a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici. Con ripetute sentenze della Corte di Giustizia per la Regione Siciliana si è affermato che, alla luce dell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale, il decreto che decide il ricorso straordinario ha natura sostanzialmente giurisdizionale, sicché può costituire il presupposto per l’instaurazione del giudizio di ottemperanza.

Insomma, può ben dirsi che è riaperto il dibattito sulla rivalutazione del ricorso straordinario e sulla sua utilità come «valvola» deflattiva rispetto ai carichi di lavoro    dei TT.AA.RR., ma altresì per offrire un efficace rimedio giudiziario alternativo, anche sotto il profilo dei minori costi per accedere al servizio giustizia.

Purtuttavia il tema è stato ritenuto estraneo alla delega per il riassetto del processo amministrativo, ancorché l’art. 59 dello schema abbia disciplinato il procedimento e gli effetti del «giudizio conseguente alla trasposizione del ricorso straordinario».

Anche questo sarà un argomento, meritevole di approfondimento, che impegnerà tutti gli operatori del diritto per quell’imperativo di aggiornamento nel nuovo anno al servizio della giustizia amministrativa.