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Avvocato - procedimento disciplinare - “offerta al pubblico”, una proposta di sottoscrizione di ricorsi innanzi la Corte di Cassazione predisposti da Colleghi privi dello specifico jus postulandi

Il comportamento di un Avvocato che invii in maniera indiscriminata, con modalità sostanzialmente di “offerta al pubblico”, una proposta di sottoscrizione di ricorsi innanzi la Corte di Cassazione predisposti da Colleghi privi dello specifico jus postulandi, costituisce una grave e molteplice violazione dei doveri di correttezza e probità e delle ulteriori regole deontologiche cui l’avvocato è tenuto (Nel caso di specie, il professionista aveva inviato una email ad oltre 10.000 giovani avvocati non abilitati avanti la Suprema Corte dichiarandosi disponibile a sottoscrivere i motivi di ricorso per Cassazione da loro stessi predisposti).


Consiglio Nazionale Forense (Pres. f.f. Perfetti, Rel. Piacci), sentenza del 29 novembre 2012, n. 177

FATTO 

La vicenda che qui ci occupa, prende le mosse dalle segnalazioni pervenute al COA di Milano da parte di numerosi Ordini, nonché da altrettanto numerosi Avvocati, anche di Fori diversi da quello milanese, in merito alla mail da essi ricevuta da parte dello Studio dell’Avv. A. C. e del seguente tenore: “Lo Studio Legale C. Le propone una convenzione annuale del costo di € 1.500,00 + CPA + IVA (fiscalmente detraibile).
Tale convenzione Le consentirà di essere rappresentato/a da uno dei legali del nostro Studio per una volta avanti l’Ecc.ma Corte di Cassazione in Roma, e per una volta presso il Tribunale di Milano, Torino o Roma. I giovani avvocati non abilitati avanti la Suprema Corte potranno inoltre richiedere allo Studio la sottoscrizione dei motivi di ricorso per Cassazione da loro stessi predisposti. Ove la proposta sia di Suo interesse e voglia ricevere informazioni più dettagliate La preghiamo di indirizzarci le Sue richieste alla seguente email: omissis indicando nell’oggetto della stessa la parola “interessato”. Le porgiamo le nostre più vive cordialità”.
Ritenutane la rilevanza disciplinare, particolarmente in riferimento alla disponibilità manifestata dall’Avv. C. a sottoscrivere ricorsi in Cassazione predisposti da Colleghi non abilitati a tanto, il COA ebbe a convocare il medesimo Avv. C. per chiarimenti.
In tale occasione, l’Avv. C. affermò che la mail in questione era stata inviata a circa 10 mila avvocati da una società appositamente incaricata di tanto e che nel merito si trattava sostanzialmente di un equivoco, dovendosi intendere che la disponibilità rappresentata fosse solo quella di discutere con i Colleghi del ricorso per Cassazione che avrebbe poi redatto personalmente.
Nello scusarsi dell’equivoco, l’Avv. C. rappresentava poi che non era possibile – come suggerito da un Consigliere – inviare altra mail di correzione, giacché la società incaricata aveva distrutto i data – base in ossequio alla legge sulla privacy, aggiungendo poi che, successivamente alla convocazione del COA, con i Colleghi che si erano presentati al suo studio, giacché interessati alla proposta, “nulla si era poi fatto”.
Il Consiglio, ritenuti insufficienti i chiarimenti offerti, deliberava l’apertura del procedimento disciplinare, con il seguente capo di incolpazione: “Di essere venuto meno ai doveri di probità e correttezza per avere trasmesso a mezzo posta elettronica ad un imprecisato numero di colleghi, peraltro come dichiarato dall’Avv. C., prossimo a 20.000, la comunicazione che qui si riporta integralmente” (e cioè la mail già sopra riferita).
In merito alla stessa, il COA di Milano ha affermato di non poter condividere l’interpretazione fornita ex post dall’Avv. C., precisando che la offerta contenuta nella mail era assolutamente chiara e non poteva dar luogo ad equivoci, né a diverse interpretazioni da quella che emergeva palesemente.
Conseguentemente riteneva che, soprattutto in riferimento all’ipotesi di un Avvocato che sottoscrivesse atti predisposti da altro soggetto privo di jus postulandi,
doveva ritenersi sussistere grave violazione dei doveri deontologici di correttezza e probità.
Tenuto conto delle scuse presentate dall’Avv. C. e dal fatto che lo stesso aveva assicurato che nulla in concreto era avvenuto, il COA limitava la sanzione irrogata alla censura.
Avverso detta decisione ha proposto tempestivo ricorso l’Avv. C..
Con il primo motivo del ricorso l’Avv. C. si duole del fatto che nel capo d’incolpazione si farebbe riferimento solo al dovere di correttezza, laddove nella decisione si richiama anche quello di probità, nonostante gli stessi fossero separatamente trattati dal Codice Deontologico.
Con altro motivo, l’Avv. C. si duole dell’erronea valutazione che avrebbe compiuto il COA di Milano, sostenendo che la previsione deontologica relativa al dovere di correttezza deve ritenersi riferita a fatti concretamente attuatisi e non solo a delle mere intenzioni, come nel caso di specie.
Inoltre, afferma che la norma disciplinare prevista per gli Avvocati che consentano ad altri Avvocati non abilitati per qualsiasi motivo l’esercizio della professione è quella dell’art. 21 del Codice Deontologico non contestata ad esso esponente.
Ancora, afferma che il COA non aveva tenuto conto che per la proposizione del ricorso era necessaria una procura speciale e che pertanto la stessa non avrebbe mai potuto essere conferita al professionista non abilitato.
In via subordinata, censura l’entità della sanzione, trattandosi di soggetto esente da altri provvedimenti disciplinari e che non aveva dato concreta attuazione alla proposta contenuta nella mail; in merito a tanto si duole poi anche di una omessa motivazione sul punto da parte del COA.
Concludeva quindi per il proscioglimento e in via subordinata per una sanzione di minore entità.

DIRITTO
Il ricorso è infondato e va pertanto rigettato.
Va innanzitutto osservato come risulti del tutto infondata l’eccezione formulata dal ricorrente in merito ad una pretesa nullità o illegittimità della decisione del COA di Milano, in relazione alla non corrispondenza tra quanto oggetto della contestazione circa la violazione di cui all’art. 6 C.D. (dovere di correttezza) contenuta nel capo di incolpazione ed il riferimento formulato solo nella motivazione della decisione anche alla violazione di cui al precedente art. 5 (dovere di probità) del Codice Deontologico.
In realtà, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, il capo di incolpazione individua come violati entrambi i doveri, venendo richiamati infatti sia quello di correttezza che quello di probità (così testualmente: “Di essere venuto meno ai doveri di probità e correttezza……”).
Peraltro e ciò assume rilievo anche per l’ulteriore censura formulata dal ricorrente con il riferimento all’art. 21 del Codice Deontologico - quale sede del divieto per l’Avvocato di agevolare in qualsiasi modo diretto o indiretto l’esercizio della professione a soggetti non abilitati (nel caso di specie, in quanto non iscritti all’Albo dei Cassazionisti e sottoscrivendo atti in luogo degli stessi) - va osservato che tali eccezioni risultano prive di fondamento, alla stregua della consolidata giurisprudenza formatasi al riguardo.
Ha avuto infatti modo di affermare questo Consiglio, con sentenza n. 128 del 27/11/2009, che: “Va esclusa la nullità della decisione con cui il C.D.O. ritenga che i fatti contestati integrino la violazione di norme del Codice Deontologico non specificamente menzionate nel capo di incolpazione, atteso che, per consolidato orientamento, la contestazione disciplinare nei confronti di un Avvocato, che sia adeguatamente specifica quanto all'indicazione dei comportamenti addebitati, non richiede altresì né la precisazione delle fonti di prova da utilizzare nel procedimento disciplinare, né la individuazione delle precise norme deontologiche che si assumono violate, ben potendo ricollegarsi la predeterminazione e la certezza dell'incolpazione a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività. Ne consegue che, al fine di garantire il diritto di difesa dell'incolpato, necessaria e sufficiente è una chiara contestazione dei fatti addebitati, non assumendo, invece, rilievo la sola mancata indicazione delle norme violate o una loro erronea individuazione, spettando in ogni caso all'organo giudicante la definizione giuridica dei fatti contestati e configurandosi una lesione al diritto di difesa solo allorquando l'incolpato venga sanzionato per fatti diversi da quelli che gli sono stati addebitati ed in relazione ai quali ha apprestato la propria difesa”.
E così, allo stesso modo, con sentenza n. 204 del 13/12/2010, ha chiarito che: “In riferimento al principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c., applicabile anche ai procedimenti disciplinari, la violazione della necessaria correlazione tra addebito contestato e sentenza non sussiste quando l'incolpato, attraverso l'iter processuale, abbia avuto comunque conoscenza dell'addebito e sia stato messo in condizione di difendersi e discolparsi”.
Principi del tutto conformi a quelli enunciati dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 518 del 27/07/1999, secondo cui: “Non incorre
in violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, sancito in via generale dall'art. 112 c.p.c.. e applicabile anche ai procedimenti in materia disciplinare innanzi al Consiglio Nazionale Forense, la decisione che fonda la sussistenza dell'illecito disciplinare su una condotta del professionista implicitamente contenuta nel capo di incolpazione non ravvisandosi in tal caso una violazione del diritto di difesa”.
Allo stesso modo, è infondata la censura secondo cui il COA di Milano avrebbe erroneamente valutato i fatti, dovendo ritenersi che la previsione deontologica relativa al dovere di correttezza, dovesse essere riferita a fatti effettivamente accaduti e non solo a delle mere intenzioni.
La censura è priva di pregio, ove si consideri innanzitutto che il COA di Milano ha fatto riferimento ad un fatto ben preciso e cioè all’offerta formulata dall’Avv. C. di sottoscrivere ricorsi in Cassazione i cui motivi fossero predisposti da Avvocati non dotati di tale jus postulandi, sicché già sotto tale profilo la censura risulta infondata.
Censura, peraltro, che risulta infondata anche alla stregua della giurisprudenza formatasi al riguardo circa i doveri di lealtà e correttezza, dignità e decoro, anche in riferimento all’elemento psicologico necessario ad integrare l’illecito disciplinare.
E così, questo Consiglio ha statuito con sentenza n. 162 dell’8/11/2007 che: “Per l'imputabilità dell'infrazione disciplinare non è necessaria la consapevolezza dell'illegittimità dell'azione, dolo generico o specifico, ma è sufficiente la volontarietà con la quale è stato compiuto l'atto deontologicamente scorretto”. Conforme Consiglio Nazionale Forense n. n. 15 del 19/01/2005.
Principio ribadito ancora da ultimo, con sentenza del 21-04-2011, n. 66, secondo cui: “Al fine di integrare l'illecito disciplinare sotto il profilo soggettivo è sufficiente l'elemento della suità della condotta, inteso come volontà consapevole dell'atto che si compie. Il dolo, invece, denotando una più intensa volontà di trasgressione del comando deontologico, rileva nella determinazione della misura della sanzione. Invero, anche la negligenza del comportamento è motivo di responsabilità, proprio perché essa dimostra che non si sono adottati tutti gli accorgimenti necessari e, in ogni caso, quelli richiesti nel caso concreto”.
Nel caso di specie, è assolutamente pacifico che l’Avv. C. avesse piena consapevolezza dell’atto posto in essere, avendo provveduto ad affidare il proprio messaggio di convenzione ad una società specializzata ed avendo lo stesso raggiunto ben 10.000 Colleghi, come da lui stesso dichiarato.
Al riguardo e benché non vi sia una specifica censura sul punto, non può che condividersi la determinazione assunta dal COA di Milano nel rigettare
l’interpretazione proposta dall’Avv. C. del contenuto della mail, e secondo cui egli avrebbe inteso limitarsi alla discussione dei motivi con i Colleghi e successivamente a redigere personalmente l’atto.
In realtà, come esattamente osservato dal COA di Milano, “in claris non fit interpretatio”. Ed invero è assolutamente chiara la dizione contenuta nella mail, allorquando nella stessa si legge che: “I giovani avvocati non abilitati avanti la Suprema Corte potranno inoltre richiedere allo Studio la sottoscrizione dei motivi di ricorso per Cassazione da loro stessi predisposti”, (ovviamente versando il previsto compenso allo Studio C.).
Pertanto, la decisione del COA è immune da censure, anche in riferimento al costante orientamento di questo Consiglio, secondo cui: “Il Giudice della deontologia ha ampio potere discrezionale nel valutare conferenza e rilevanza delle prove acquisite nel procedimento, conformemente al principio del libero convincimento del Giudice, che si applica anche al giudizio disciplinare” (Cons. Naz. Forense 30/01/2012 n. 4, conforme Cons. Naz. Forense 12/05/2010 n. 28 e Cons. Naz. Forense 04/06/2009 n. 60).
Priva di pregio rimane poi anche l’ulteriore considerazione formulata dall’Avv. C., secondo cui essendo necessaria una procura speciale, comunque la stessa sarebbe stata emessa a suo nome. Ed infatti quel che si contesta da parte del COA di Milano, è proprio la circostanza che si sarebbe dato luogo alla redazione di ricorsi da parte di Colleghi non abilitati a patrocinare in Cassazione, e che tale limite avrebbero aggirato grazie alla mera sottoscrizione dell’atto da parte dell’Avv. C., con attribuzione altrettanto solo formale della procura speciale allo stesso.
Da ultimo, si duole l’Avv. C. che il COA di Milano avrebbe errato nella determinazione dell’entità della sanzione, trattandosi di soggetto esente da precedenti disciplinari e comunque per non aver dato esso Avv. C. concreta attuazione a quanto indicato nella mail lamentando una omessa motivazione sul punto.
In realtà, il COA ha puntualmente motivato il proprio provvedimento proprio sul rilievo che l’Avv. C. si era “scusato dell’accaduto…” ed aveva “… assicurato di non avere dato mai concreta attuazione alla sua proposta…” e conseguentemente “il Consiglio dell’Ordine ritiene di poter limitare la sanzione a quella della censura”.
Come si vede, non sussiste alcuna omessa motivazione e la valutazione circa l’entità della sanzione, logicamente e correttamente motivata, costituisce comunque una valutazione discrezionale nell’ambito del principio di proporzionalità tra infrazione e sanzione.
Valutazione che questo Consiglio ritiene altresì di poter condividere, giacché se è vero che non esistevano altri precedenti disciplinari a carico dell’Avv. C. (ma questo in realtà dovrebbe costituire la normalità), è altrettanto vero che il comportamento di un Avvocato che invii in maniera indiscriminata, con modalità sostanzialmente di “offerta al pubblico” (e che in tal modo raggiunga oltre 10.000 Avvocati), una proposta di sottoscrizione di ricorsi innanzi la Corte di Cassazione predisposti da Colleghi privi dello specifico jus postulandi, costituisce una grave e molteplice violazione dei doveri di correttezza e probità e delle ulteriori regole deontologiche cui l’Avvocato è tenuto.
Le osservazioni sin qui formulate, consentono di ritenere del tutto immune da censure la decisione impugnata anche sotto il profilo della congruità, dovendosi ritenere assolutamente corretta la sanzione della censura irrogata dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano all’Avv. C., con conseguente rigetto del ricorso e conferma della predetta decisione.

P.Q.M.
il Consiglio Nazionale Forense, riunitosi in Camera di Consiglio;
visto l’art. 54 del R.D.L. 27/11/1933 n. 1578 e gli artt. 44 e 59 e segg. del R.D. 22/01/1934 n. 37;
Rigetta il ricorso
Così deciso in Roma il 26 aprile 2012.