Il diritto dei mercati finanziari

Il diritto dei mercati finanziari (di Francesco Federici) Le sentenze della corte di cassazione (relazione dal sito web della Corte di Cassazione)

SOMMARIO: 1. I contratti bancari – 2 I contratti e gli strumenti di intermediazione finanziaria.

1. I contratti bancari. Anche nel 2013 non si segnala una produzione copiosa della Corte sui contratti bancari. Cionondimeno pur senza evidenziare novità interpretative, vanno menzionate alcune pronunce, soprattutto in ordine alle conseguenze della nullità dell’applicazione della capitalizzazione trimestrale degli interessi e alla condotta richiesta alle parti del rapporto bancario. Deve inoltre segnalarsi l’intervento delle SS. UU. in tema di giurisdizione del giudice italiano su un contenzioso sorto per un conto corrente cointestato presso un istituto di credito austriaco.

1.1. Iniziando da quest’ultimo tema con la pronuncia a Sez. Un., n. 17863 (Rv. 627212), est. Spirito, è stata riconosciuta la giurisdizione del giudice italiano nell’ipotesi di controversia insorta tra cittadini italiani, tutti residenti in Italia, avente ad oggetto l’appartenenza, totale o parziale, ad uno di essi, delle somme depositate su un conto corrente bancario cointestato presso un istituto di credito austriaco. A tali conclusioni la Corte è pervenuta in applicazione dell’art. 2 del Regolamento del Consiglio CEE 22/12/2000 n. 44, rilevando che l’opposta interpretazione si fondava sulla confusione della ricorrente tra il rapporto interno tra i cointestatari del conto e il rapporto tra questi e la banca (austriaca). Nel caso di specie non vi era discussione sul secondo rapporto, bensì solo sul primo, pacifico poi che con riguardo a questo le parti fossero tutti cittadini italiani e residenti in Italia.

1.2. Tra le tematiche più ricorrenti delle controversie in materia bancaria rientrano gli effetti della accertata nullità delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi. Sul punto Sez. 1, n. 20688 (in corso di massimazione), est. Lamorgese, ha affermato che in questa ipotesi non è travolto l’intero credito azionato dalla banca in via monitoria, ma la sola parte di esso riguardante gli interessi. Ciò impone al giudice un nuovo ricalcolo degli interessi dovuti, sempre che sussista la prova del credito nella sorte capitale, ciò che può non esserci ogni volta che lo scoperto di conto del correntista, cui corrisponde il credito della banca, trovi causa proprio nel calcolo di interessi con capitalizzazione trimestrale. La pronuncia inoltre ha ribadito l’orientamento ormai costante sull’onere della banca di dare prova del suo credito, a nulla rilevando che gli estratti conto siano stati distrutti dopo un periodo decennale, quando ancora non si era manifestato il nuovo orientamento della giurisprudenza in tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi. Ha negato infine la possibilità di ricorrere al criterio equitativo ex art. 1226 cod. civ., che è norma eccezionale, applicabile ai fini della liquidazione del danno, ma non della determinazione del corrispettivo di obbligazioni contrattuali, chiarendo sul punto che in mancanza di riconoscimento dalla controparte di un credito, non vi è neppure la prova dell’an del credito medesimo. E in ordine alla prova del credito questo orientamento trova conferma in Sez. 1, n. 21597 (Rv. 627524), est. Scaldaferri, che ribadisce come nei rapporti bancari in conto corrente, una volta esclusa la validità, per mancanza dei requisiti di legge, della pattuizione di interessi ultralegali a carico del correntista, la rideterminazione del saldo del conto deve avvenire attraverso i relativi estratti a partire dalla data della sua apertura, così effettuandosi l’integrale ricostruzione del dare e dell’avere, con applicazione del tasso legale sulla base di dati contabili certi in ordine alle operazioni ivi registrate, essendo invece inutilizzabili i criteri presuntivi o approssimativi.
Sez. 1, n. 21466 (Rv. 628028), est. Mercolino, poi, nell’esprimere il medesimo orientamento, chiarisce che la banca, tenuta a dimostrare il suo credito producendo tutti gli estratti conto dall’inizio del rapporto, non può trincerarsi dietro l’assunto che il credito sia stato provato in conseguenza della mera circostanza che il correntista non abbia formulato rilievi in ordine alla documentazione prodotta nel procedimento monitorio, non incidendo quella mancata contestazione sulla necessità di ricostruzione dell’intero rapporto per l’accertata illegittimità del sistema di calcolo degli interessi.

1.3. Esaminando gli altri temi trattati nel corso del 2013 è di rilievo la Sez. 3, n. 21163 (Rv. 627954), est. Armano, che nel valutare la condotta del dipendente della banca verso il correntista, afferma che viola i principî di correttezza e di buona fede nell’esecuzione del contratto, destinati ad operare anche nella fase di esaurimento di un rapporto contrattuale, il comportamento del dipendente di un istituto di credito che, a conoscenza della chiusura di un rapporto di conto corrente intercorso con un cliente, abbia incassato una somma di denaro esplicitamente versata a copertura di un assegno tratto sul conto ormai chiuso, senza avvisare l’ex correntista che il prenditore non avrebbe mai potuto incassare il titolo, posto che l’istituto, con il quale il conto era ormai estinto, non poteva ricostituire il fondo del conto corrente e pagare l’assegno. In motivazione la Corte osserva che la clausola di buona fede nell’esecuzione del contratto opera come criterio di reciprocità, imponendo a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire preservando gli interessi dell’altra, da ciò conseguendo che l’inosservanza di tale obbligo costituisce di per sé inadempimento e può comportare la condanna al risarcimento dei danno causalmente relazionato a tale violazione. La pronuncia dunque impone l’obbligo della condotta secondo correttezza e buona fede nella fase esecutiva del rapporto, ex art. 1375 cod. civ., includendo in questo anche la fase terminale del contratto.
Nel solco della imputazione alla banca di una condotta non conforme alle regole della buona fede nell’esecuzione del contratto si pone anche Sez. 6-3, ord. n. 14455 (Rv. 626706), est. Lanzillo, che, trattando di una ipotesi in cui con un semplice telegramma inviato al correntista, contenente un invito generico a regolarizzare una posizione irregolare, ma ciò a fronte di un correntista titolare di più rapporti con il medesimo istituto di credito e senza dunque porre il destinatario del telegramma in condizione di comprendere quale posizione regolarizzare, ha ritenuto di confermare la sentenza di merito, di condanna della banca al risarcimento dei danni per l’elevazione di un protesto per un assegno tratto su conto con disponibilità di fondi per il fido concesso. Nella motivazione la S.C. chiarisce che nulla autorizza un soggetto, legato ad altro da più contratti, a comunicare il suo recesso da uno di essi senza specificare quale, ed inoltre, prosegue la pronuncia, non esiste alcun canone legale interpretativo, che autorizzi a estendere gli effetti del recesso da un singolo rapporto a tutti quelli intrattenuti dal recedente con il destinatario della comunicazione, in mancanza di apposita specificazione.

1.4. La Corte si è anche occupata della disciplina delle cassette di sicurezza. In particolare Sez. 2, n. 13614 (Rv. 626283), est. Proto, ha affermato che la cointestazione di una cassetta di sicurezza o di un conto corrente bancario autorizza ciascuno degli intestatari all’apertura della cassetta e al relativo prelievo, più in generale al compimento di tutte le operazioni sul conto. Non
attribuisce invece al medesimo cointestatario, che sia consapevole dell’appartenenza ad altri degli oggetti custoditi o delle somme risultanti a credito, il potere di disporne come proprietario. In motivazione la sentenza ha spiegato che non deve confondersi la presunzione semplice della contitolarità per quote uguali dei saldi dei correntisti, o dei beni contenuti nella cassetta cointestata, per i quali, come creditori solidali della banca, opera la presunzione di eguali quote ex art. 1298, comma secondo, cod. civ., dal rapporto interno tra i medesimi cointestatari, che invece segue la sua disciplina. Nei suddetti rapporti infatti la titolarità delle somme depositate sul conto o dei beni custoditi nella cassetta è regolata dai titoli facenti capo a ciascun cointestatario, per cui chi non ne è proprietario non può disporne come di cosa propria, discendendone altrimenti una errata e falsa applicazione dell’art. 1854 cod. civ.
Infine, va segnalata Sez. 1, n. 13658 (Rv. 626716), est. Ceccherini, che in tema di esecuzione d’incarichi e in particolare di pagamento di credito confermato ex art. 1530, comma secondo, cod. civ., ai fini della rilevanza dell’operazione nei rapporti tra beneficiario, poi dichiarato fallito, e revocatoria fallimentare, ha statuito che il suddetto pagamento non è configurabile, nei rapporti tra banca e accreditato, come bonifico accreditato su ordine del compratore, ma costituisce adempimento dell’autonoma obbligazione assunta dalla banca con la conferma del credito. Ne consegue che, ove l’accredito sia eseguito su un conto corrente scoperto esistente presso la medesima banca, tra il credito del venditore derivante dal rapporto di conferma ed il suo debito scoperto di conto corrente si ha compensazione parziale, conforme alla previsione dell’art. 56, primo comma, della legge fall., insuscettibile di revocatoria fallimentare. In motivazione la sentenza, dopo aver sottolineato la diffusione di questa forma di pagamento nelle transazioni internazionali, ha evidenziato che la banca mandataria, confermando il credito al beneficiario, assume una obbligazione autonoma rispetto a quella del pagamento del prezzo da parte del compratore, propria e diretta nei confronti del venditore, sorgendo così un debito proprio della banca delegata (mandataria), che può estinguersi solo con l’accredito della somma a seguito della ricezione e verifica dei documenti rappresentativi della merce, senza avere natura solutoria rispetto agli eventuali debiti del beneficiario (poi fallito) nei confronti della banca medesima.

2. I contratti e gli strumenti di intermediazione finanziaria. La produzione giurisprudenziale nel segmento dei diritti del mercato finanziario non è stata copiosa, ma certo importante per alcune pronunce, intervenute a comporre contrasti emersi nell’anno precedente, e comunque utili a puntualizzare la regolamentazione dei rapporti tra investitore e società di intermediazione.

2.1. Deve innanzitutto segnalarsi l’importante sentenza delle Sez. Un., n. 13905 (Rv. 626684), est. Rordorf, in materia di diritto di recesso accordato all’investitore dall’art. 30 comma sesto del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58. Come già riportato nella rassegna del 2012 era stato registrato un contrasto in materia con riguardo alle offerte fuori sede concernente il collocamento di strumenti finanziari. Sez. 1, n. 2065 del 2012 (Rv. 621331) aveva affermato l’inapplicabilità dell’art. 30 ai contratti di negoziazione di obbligazioni, eseguiti in attuazione del contratto-quadro già sottoscritto tra il cliente e l’istituto di intermediazione finanziaria. A favore di questo orientamento militava, secondo la sentenza citata, l’estraneità di tali contratti al cd. “servizio di collocamento”, e ciò perché quest’ultimo suppone un accordo tra soggetto emittente e società d’intermediazione che provvede al collocamento, fattispecie dunque distinta dall’acquisto o esecuzione di ordini dell’investitore parte del contratto-quadro; inoltre perché si riteneva che il legislatore avesse limitato la tutela apprestata con il diritto di recesso solo agli investitori raggiunti all’esterno dei locali commerciali del proponente, esposti al rischio di decisioni poco meditate. Sez. 1, n. 4564 del 2012 (Rv. 622119) affermò poi in modo più esplicito che non fosse estensibile alla negoziazione di titoli la nullità disposta dall’art. 30, commi sesto e settimo del d.lgs n. 58 del 1998, applicabile invece alle sole ipotesi di contratti di collocamento di strumenti finanziari e di gestione individuale di portafogli. Sennonché Sez. 3, ordinanza n. 10376 del 2012, ritenendo che vari indici normativi conducessero alla applicabilità del diritto di recesso anche alla ipotesi di sottoscrizione dei contratti-quadro, rimise al Primo Presidente la questione, per l’eventuale assegnazione alle SS. UU. Investite del contrasto, con la pronuncia citata queste hanno sancito che il diritto di recesso accordato all’investitore dal sesto comma dell’art. 30 del d.lgs. n. 58 del 1998, che al settimo comma sanziona con la nullità i contratti in cui quel diritto non sia contemplato, trova applicazione non soltanto nel caso in cui la vendita fuori sede di strumenti finanziari da parte dell’intermediario sia intervenuta nell’ambito di un servizio di collocamento prestato dall’intermediario medesimo in favore dell’emittente o dell’offerente di tali strumenti, ma anche quando la medesima vendita fuori sede abbia avuto luogo in esecuzione di un servizio di investimento diverso, ove ricorra la medesima esigenza di tutela. In motivazione le SS. UU. hanno premesso che la questione fosse quella se ritenere operativa la disciplina del recesso per le sole ipotesi previste nell’art. 1, comma quinto, lett. c), del d.lgs. n. 58 del 1998 (ora anche lett. c bis), che menziona i “servizi di collocamento”, e dunque ai soli contratti e alle prestazioni strettamente connessi a questo, oppure se la tutela fosse applicabile a qualunque operazione nella quale l’intermediario finanziario fuori della propria sede offra in vendita a clienti non professionali strumenti finanziari, e tra questi anche quelli di negoziazione o di esecuzione enunciati alle lett. a) e b) del medesimo quinto comma dell’art. 1. Analizzando il testo della normativa e valorizzando la ratio legis le SS. UU. hanno ritenuto per un verso che il sintagma “collocamento”, nella funzione ad esso attribuita dall’art. 30 cit., non vada tanto assunto nel suo significato strettamente tecnico, relazionandolo solo al servizio di collocamento propriamente detto (che riguarda peraltro prevalentemente il rapporto tra il soggetto emittente o offerente del prodotto finanziario e l’intermediario che si incarica della distribuzione sul mercato), quanto tenendo conto di un significato atecnico, cioè come sinonimo di qualsiasi operazione implicante la vendita all’investitore di strumenti finanziari «anche nell’espletamento di servizi d’investimento diversi (negoziazione, esecuzione, ricezione o trasmissione di ordini), se effettuati dall’intermediario al di fuori della propria sede». L’ambito applicativo dello ius poenitendi pertanto non troverebbe ragione in specifiche operazioni, ma nel dato oggettivo che un investitore non professionale, presso il cui domicilio si reca il promotore che opera per conto dell’intermediario, acquisti un prodotto non per sua premeditata decisione, ma su sollecitazione del promotore stesso, circostanza che in sé implica la possibilità che l’investitore, colto impreparato, abbia assunto una scelta negoziale non meditata. In tale logica di tutela il diritto di recesso va riconosciuto anche per quelle operazioni di acquisto di strumenti finanziari riconducibili nell’alveo di un contratto-quadro (non invece il contratto quadro in sé), purché offerti e sottoscritti fuori sede.

2.2. Con la sentenza pronunciata da Sez. 1, n. 21600 (Rv. 628046), est. Mercolino, la Corte si è occupata, in modo articolato, della vendita di un prodotto finanziario, ideato e proposto sul mercato da un istituto di credito sul finire degli anni ‘90, denominato my way, che, al pari dell’altro prodotto, ideato dal medesimo istituto e denominato 4 you, ha dato origine ad un cospicuo contenzioso. La pronuncia menzionata se ne occupa sotto molteplici profili, come molteplici erano le motivazioni che avevano portato gli investitori a chiederne di volta in volta l’annullamento o la nullità. Innanzitutto, con riferimento alla deduzione di una causa di nullità contrattuale diversa da quella invocata nei gradi di merito la Corte afferma che, allorquando la corrispondente questione non sia stata esaminata né denunciata nelle precedenti fasi di merito, essa non è prospettabile in sede di legittimità, essendone precluso il rilievo d’ufficio dal momento che il potere del giudice deve coordinarsi con i principî desumibili dagli artt. 99 e 112 cod. civ., sicché la pronuncia resta circoscritta alle ragioni di illegittimità denunciate dall’interessato, quando la nullità sia stata prospettata come elemento costitutivo della domanda. Spiega infatti la sentenza che «ove la parte abbia contestato l’applicazione o l’esecuzione di un atto, la cui validità si ponga come elemento costitutivo della domanda» la nullità sarà rilevabile in ogni stato e grado del giudizio indipendentemente dalla attività assertiva delle parti; se invece «sia l’attore a chiedere la dichiarazione d’invalidità di un atto per lui pregiudizievole, la pronuncia del giudice deve essere circoscritta alle ragioni di illegittimità enunciate dall’interessato, non potendo fondarsi su elementi rilevati d’ufficio o tardivamente indicati, dal momento che in tali ipotesi la nullità si configura come elemento costitutivo della domanda che opera come limite alla pronuncia del giudice». Nel caso di specie la parte aveva denunciato alcuni profili di nullità del contratto dinanzi al giudice di merito, ma non quelli sulla verifica di meritevolezza di tutela degli interessi perseguiti dalle parti ai sensi dell’art. 1322 cod. civ., sulla configurabilità di uno squilibrio del rapporto contrattuale, sulla omessa previsione del diritto di recesso ex art. 30 del d.lgs n. 58 del 1998. Di essi invece aveva chiesto l’esame al giudice di legittimità, che ne ha ritenuto l’inammissibilità.
Quanto poi al difetto di chiarezza e comprensibilità delle clausole contrattuali unilateralmente predisposte dalla banca, questa tempestivamente eccepita invocando la disciplina degli artt. 1469 ter, secondo comma e 1469 quater cod. civ. (ratione temporis vigenti), la Corte afferma che il controllo giudiziale sul contenuto del contratto stipulato con il consumatore, pur postulando una valutazione complessiva dei diritti e degli obblighi ivi contemplati, è circoscritto alla componente normativa del contratto stesso, mentre è preclusa ogni valutazione afferente le caratteristiche tipologiche e qualitative del bene o del servizio fornito, o l’adeguatezza tra le reciproche prestazioni, richiedendosi soltanto, alla stregua dell’art. 1469 ter (all’epoca vigente), che l’oggetto del contratto ed il corrispettivo pattuito siano individuati in modo chiaro e comprensibile. In conclusione poi la sentenza, esaminando i dati emergenti, ha riconosciuto la chiarezza e comprensibilità del piano finanziario sottoscritto dalla ricorrente, la natura della operazione concordata, consistente nella erogazione di un finanziamento a lungo termine della banca al cliente per l’acquisto immediato di strumenti finanziari (e non come preteso dalla ricorrente per la realizzazione di un piano di accumulo a scopo previdenziale, non risultante da alcun documento), l’osservanza dei doveri d’informazione previsti dal d.lgs n. 58 del 1998 e del Regolamento Consob (il n. 11522 del 1° luglio 1998 ratione temporis vigente, poi abrogato e sostituito dal n. 16190 del 29 ottobre 2007) per la sua attuazione, la cui violazione non inciderebbe peraltro sulla validità del contratto e sulla declaratoria di nullità, ma solo sulla responsabilità precontrattuale con conseguenze meramente risarcitorie. Ha pertanto rigettato il ricorso.
D’altronde in merito agli obblighi imposti agli intermediari finanziari nella fase precontrattuale valgono anche per questo contratto i principî ormai ben chiariti dalla giurisprudenza. In particolare, l’intermediario deve innanzitutto acquisire ogni notizia ed elemento utile a comprendere le caratteristiche dello strumento finanziario da trattare. È necessario cioè che prima ancora di fornire informazioni al cliente sia lo stesso intermediario a capire di cosa si tratti, e ciò sia in relazione alle qualità generali del prodotto, sia in relazione alla sua specificità rispetto alla prestazione richiesta dal cliente. Trattasi indubbiamente del primo essenziale obbligo dell’operatore finanziario, che nello svolgere una funzione così rilevante nel mercato finanziario “deve” essere in grado di valutare il prodotto stesso, comprendendone caratteristiche oggettive e solidità rispetto al suo emittente, presupposto per valutare a sua volta l’adeguatezza rispetto alle esigenze del cliente-investitore. Sempre nell’alveo della ricezione delle informazioni l’intermediario “deve” acquisire dal cliente notizie sulla sua esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziari, sulla sua situazione finanziaria, sugli obiettivi d’investimento, sulla propensione al rischio. Infine, acquisite le notizie sul prodotto e sul soggetto (naturalmente ciò nella complessa organizzazione a disposizione), “deve” fornire al potenziale investitore adeguate informazioni sulle caratteristiche, natura e rischi del singolo prodotto, affinché il cliente sia messo nella condizione di effettuare scelte consapevoli. Solo successivamente “può” consigliare o effettuare l’operazione. È appena il caso di evidenziare che l’obbligo informativo nei riguardi del cliente non è soddisfatto dalla consegna del documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari, poiché tale documento, che pur rientra tra quanto va dato al cliente, è solo finalizzato ad una conoscenza generica della tipologia degli strumenti finanziari, senza tuttavia alcuna attinenza con quella informazione specifica su un determinato strumento, possibile oggetto di negoziazione (artt. 26-28 Regolamento Consob 11522 del 1998, e attualmente gli artt. 39-51 del Regolamento n. 16190 del 2007).
È anche in ragione degli obblighi appena esposti che la giurisprudenza insiste sulla necessità della forma scritta del contratto-quadro, finalizzato all’introduzione di un ulteriore elemento di consapevolezza dell’investitore e dell’intermediario medesimo. Sul punto è intervenuta Sez. 1, n. 7283 (Rv. 626017), est. Rordorf, affermando che in tema di intermediazione finanziaria, ed alla stregua di quanto sancito dall’art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998, sono nulle, per carenza dell’indispensabile requisito di forma prescritto dalla legge a protezione dell’investitore, le operazioni di investimento compiute dalla banca in assenza del cosiddetto contratto-quadro, senza che sia possibile una ratifica tacita, che sarebbe affetta dal medesimo vizio di forma (su tale principio la Corte ha confermato la sentenza con la quale il giudice di merito non aveva tenuto conto delle note e dei rendiconti inviati dall’istituto di credito alle parti, e mai contestate dai clienti, da ciò l’istituto volendo dedurre la ratifica del contratto).

2.3. Per concludere deve segnalarsi la pronuncia della Sez. 2, n. 2736 (Rv. 625071 e 625072), est. Giusti, che, nel trattare una controversia generata dalla applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie ad una società di intermediazione finanziaria per violazione dell’art. 99, comma 1, lett. a) del d.lgs n. 58 del 1998, si è diffusa sullo schema del contratto d’investimento e sulla natura del “prodotto finanziario”, affermando che la nozione di contratto di investimento costituisce uno schema atipico, che comprende ogni forma di investimento finanziario, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett u) del d.lgs. 58 del 1998. Ciò è il riflesso della natura aperta e atecnica di “prodotto finanziario”, la quale rappresenta la risposta alla creatività del mercato ed alla molteplicità degli strumenti offerti dal pubblico, nonché all’esigenza di tutela degli investitori, in maniera da permettere la riconduzione nell’ambito della disciplina di protezione anche delle operazioni innominate.
Partendo da tale ricostruzione la pronuncia ha statuito che l’investimento di natura finanziaria comprende ogni conferimento di una somma di danaro da parte del risparmiatore con una aspettativa di profitto o remunerazione o utilità, unita ad un rischio, a fronte delle disponibilità impiegate in un dato intervallo temporale. Ne consegue che è configurabile come prodotto finanziario, con correlata applicazione della disciplina in materia di sollecitazione all’investimento, il contratto con cui una società proponga al pubblico il “blocco” di una somma per un anno in prospettiva di un guadagno mediante un meccanismo negoziale consistente nella consegna in affidamento all’investitore di un diamante del valore ipotetico di mille euro, chiuso in un involucro sigillato, contro il versamento in denaro di un identico importo, con l’impegno di una società di riprendersi il prezioso dopo dodici mesi e di restituire il capitale maggiorato di ottanta euro, senza alcun’altra prestazione a carico dell’investitore, prevalendo in detta operazione gli elementi del credito fruttifero e della garanzia rispetto a quella della custodia, e sussistendo altresì il “rischio emittente” legato all’incertezza sulla capacità della società di restituire il tantundem con l’incremento promesso.
In motivazione la Corte è attenta nel distinguere la fattispecie portata alla sua attenzione dallo schema negoziale del contratto di vendita del diamante con patto unilaterale di retrovendita, così come interpretato dal giudice d’appello, che ne aveva escluso anche la componente di rischio. La ricostruzione offerta invece dalla S.C. è l’indice più significativo della atipicità degli schemi negoziali utilizzati, così come della estrema varietà del prodotto finanziario proposto. Il vaglio attento degli elementi contrattuali è pertanto l’unico strumento per riconoscerne la causa negoziale finanziaria e la componente del rischio dell’operazione.