Liquidazione di imposte - Legittimita' della liquidazione

Diritto tributario - Liquidazione di imposte - Legittimita' della liquidazione delle imposte effettuata dopo un anno dalla presentazione della dichiarazione (Corte di cassazione Sezione tributaria - Sentenza 9 dicembre 2002, n. 17507)

Corte di cassazione Sezione tributaria - Sentenza 9 dicembre 2002, n. 17507

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Amministrazione Finanziaria ricorre per cassazione deducendo un articolato motivo avverso la sentenza 14 aprile 1997, n. 14, con cui la Commissione Tributaria Regionale per le Marche rigettava l'appello dell'Ufficio avverso la sentenza di primo grado che aveva dichiarato illegittima la iscrizione a ruolo a carico del Sig. Gianfranco Cxxxxxxxxxxxx di oltre 19 milioni per ilor ed irpef per l'anno 1984.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La Amministrazione deduce con il suo ricorso violazione e falsa applicazione dell'articolo 17 del d.P.R. 602/1973, dell'articolo 36 bis del d.P.R. 600/1973 nonché del combinato disposto di tali norme, nonché motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia.

In particolare, lamenta che il giudice tributario abbia affermato che la liquidazione dell'imposta sia avvenuta fuori termine per essere stata effettuata oltre il 31 dicembre dell'anno successivo a quello della presentazione della dichiarazione dei redditi.

Ritiene il collegio che il ricorso debba essere rigettato.

Come è noto, questa Corte ha in passato ripetutamente riconosciuto che il termine posto dall'articolo 36 bis del d.P.R. 600/1973 aveva almeno fino all'emanazione della legge 449/1997 natura perentoria e quindi l'inutile decorso di tale termine determinava la decadenza della Amministrazione dal potere di emettere cartella esattoriale (si veda ad esempio la sentenza n. 7088 del 29 luglio 1997). L'articolo 28 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, ha però stabilito che il primo comma dell'articolo 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nel testo da applicare fino alla data stabilita nell'articolo 16 del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241, deve essere interpretato nel senso che il termine in esso indicato, "avendo carattere ordinatorio, non è stabilito a pena di decadenza". E alcune sentenze di questa Corte hanno affermato che simile disposizione ha natura di legge di interpretazione autentica e deve essere applicata retroattivamente in tutte le controversie non definite al momento della sua entrata in vigore. Inoltre, hanno escluso che comunque il termine in questione possa mai determinare la decadenza della amministrazione.

Così la sentenza n. 11235 del 7 novembre 1998 ha affermato che in virtù del disposto dell'articolo 28 della l. 27 dicembre 1997, n. 449 - applicabile anche ai giudizi in corso, trattandosi di norma interpretativa e, come tale, avente effetto retroattivo - l'articolo 36 bis del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 deve essere inteso nel senso che il termine ivi previsto per la rettifica delle dichiarazioni, avendo carattere ordinatorio, non è stabilito a pena di decadenza, senza che tale interpretazione possa ritenersi in contrasto con gli articoli 3 e 136 della Costituzione.

Ritiene per altro questo Collegio, in primo luogo, che la citata norma della legge 449/1997 abbia carattere innovativo ed abbia - se mai - trasformato in ordinatori i termini ancora pendenti alla data della sua entrata in vigore (e non quelli già scaduti); che comunque la trasformazione del termine da perentorio in ordinatorio comporti la applicazione, in via analogica, della disciplina di cui all'articolo 154 del c.p.c., secondo cui "i termini non perentori possono essere prorogati, ma una volta scaduti producono effetti analoghi a quelli propri dei termini perentori" (Cassazione 25 luglio 1992, n. 8976, id., 1993, I, 1176; 23 gennaio 1991, n. 651, id., Rep. 1991, voce Prova civile in genere, n. 10; 23 febbraio 1985, n. 1633, id., 1986, I, 764).

Ritiene cioè il Collegio che nella sentenza 11325/1998 sia accolta una interpretazione dell'art. 28 della l. 27 dicembre 1997, n. 449, probabilmente conforme all'intenzione del Ministero che ha proposto la norma "interpretativa" con il presumibile obbiettivo di ribadire la potestà della amministrazione di perseguire i contribuenti con cartelle esattoriali, anche emesse anni dopo la consegna della denuncia. E di ribaltare la precedente normativa così come applicata dalla stessa Corte di Cassazione.

E' però da considerare se la "intentio legislatoris" si sia tradotta in una puntuale "voluntas legis", dal momento che il Parlamento non ha approvato una norma che esplicitamente abolisca il termine previsto dall'articolo 36 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e che imponga di applicare la nuova disposizione in tutte le controversie non ancora concluse con una sentenza passata in giudicato.

Per quanto attiene agli effetti temporali della norma del 1997, si deve in primo luogo sottolineare che essa - nonostante qualunque contraria indicazione - non è "interpretativa", ma "innovativa", perché non mira a ristabilire la certezza del diritto di fronte ad un oscillare di giudicati, ma a ribaltare la norma così come intesa dalla Corte di Cassazione, cioè dall'organo preposto proprio ad "assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme applicazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale", come recita l'ancora vigente articolo 65 dell'ordinamento giudiziario del 1941.

Ciò ovviamente non significa che la disposizione non possa esser qualificata come "innovativa retroattiva", ma simile ipotesi costituisce deroga al principio di cui all'articolo 11 delle disposizioni preliminari del codice civile. E perciò è doveroso adottare una interpretazione restrittiva, ritenendo ad esempio che essa si limiti a trasformare in ordinatori i termini ancora in corso, e nati come perentori.

Ben più difficile è attribuire alla legge sopravvenuta l'efficacia di far rivivere rapporti tributari estinti ormai da anni.

E' vero che la giurisprudenza della Cassazione ammette che la legge possa far "rivivere" un rapporto decaduto. In questo senso sono le sentenze n. 6472 del 2 luglio 1998 e n. 3658 del 28 aprile 1997, relative alla tassa di circolazione automobilistica, che però riguardano un'ipotesi in cui, nel succedersi di due decreti legge che prorogavano (di un anno) i termini biennali non ancora scaduti al momento della emanazione del primo decreto (d.l. n. 597 del 6 novembre 1985), era rimasto scoperto il "buco" di un giorno (il secondo d.l. datato 6 gennaio 1986, n. 2 era stato pubblicato il 7 gennaio, lasciando scoperto il giorno della Befana). E non vi era alcun dubbio che la legge 7 marzo 1986, n. 60, di conversione del secondo decreto legge, avesse inteso recepire ed avallare la proroga disposta con il primo di tali decreti.

Proprio la vicenda suaccennata dimostra però che il legislatore, quando intende prorogare un termine, interviene prima che esso scada, e non dopo. In quanto nella realtà della vita concreta far rivivere una imposta estinta equivale ad imporne una nuova; e di ciò ben si è dimostrata consapevole la Corte Costituzionale, secondo cui la riapertura di termini scaduti è consentita solo di fronte a esigenze particolari (Corte costituzionale, 30 luglio 1984, n. 238, nel caso di specie si trattava di termine scaduto per pochi giorni).

E' perciò logico ritenere che, ove fosse intenzione del legislatore emanare una norma con efficacia retroattiva, tale retroattività volesse limitarla nell'ambito dei rapporti pendenti, modificando la posizione soggettiva del contribuente, che si verrebbe a trovare di fronte a poteri cronologicamente molto più ampi della Amministrazione (in quanto prorogabili ex art. 154 c.p.c.).

Non sussiste invece nella norma alcun elemento che induca a ritenere che fosse addirittura intenzione del legislatore determinare la reviviscenza di rapporti esauriti; anzi, tale intenzione è smentita dalla circostanza che il termine non è stato prorogato o modificato, ma semplicemente trasformato da perentorio in ordinatorio.

E' poi da aggiungere che comunque la trasformazione nel termine in "ordinatorio" non equivale, sotto il profilo giuridico, a rendere il termine irrilevante; anche perché si deve presumere che il legislatore non scriva norme prive di contenuto e di significato.

Certo, se la legge impone alla Amministrazione un termine "acceleratorio" entro il quale deve emanare un qualche atto nell'interesse dei singoli (ad esempio un mandato di pagamento, o lo "sgravio" di imposte), il superamento del termine non impedisce alla Amministrazione di provvedere, sia pur in ritardo, ma solo la espone a varie conseguenze negative, quali la richiesta di danni o la apertura di un contenzioso giudiziario (si veda ad esempio l'articolo 10 del d.P.R. 28 novembre 1980, n. 787, che consente al contribuente di adire alle commissioni tributarie solo sei mesi dopo la presentazione del ricorso al centro di servizi).

In tutti questi casi lo scadere del termine, che dovrebbe però essere qualificato come "acceleratorio" più che "ordinatorio", non priva la Amministrazione dei suoi poteri; o per meglio dire non la delibera dai suoi doveri.

In prospettiva del tutto diversa si collocano i termini ordinatori apposti all'esercizio di poteri da cui derivino conseguenze negative su un altro soggetto, ed in tale caso è difficile ammettere che lo scadere di simile termine sia privo di conseguenze.

Infatti, il termine ordinatorio stabilito a carico dell'amministrazione pubblica non ha esclusivamente una funzione di organizzazione, regolando i ritmi dell'attività degli uffici. Gli interessi degli amministrati sono, poi, collegati con tale attività in maniera molto varia, dipendente sia dalla natura dei compiti dell'amministrazione pubblica, sia, e soprattutto, dalla natura degli interessi degli amministrati che sono connessi con l'esercizio dei pubblici poteri. Quando gli interessi degli amministrati siano di qualità particolarmente elevata o siano particolarmente sensibili, il regime del termine ordinatorio dev'essere conformato in maniera particolarmente garantistica.

Infatti, in un ordinamento "di diritto", fondato sulla certezza dei rapporti giuridici, è ragionevole presumere che i termini posti alla Amministrazione per l'esercizio di poteri autoritativi siano rilevanti e non che il cittadino sia soggetto sine die al potere della Amministrazione. Specie in ordine alla banale verifica documentale di una sua dichiarazione.

In mancanza di una specifica disciplina, la lacuna normativa sarà dunque colmata con la tecnica analogica. Nel caso di specie, l'interesse dell'amministrato è quello del contribuente quale soggetto passivo dell'imposta sui redditi, cioè di una prestazione patrimoniale imposta che investe la sua sfera patrimoniale complessiva e che viene resa in adempimento di un dovere costituzionale. Le particolari garanzie, formali (riserva di legge) e sostanziali (principio della capacità contributiva), che circondano tale posizione passiva, e l'affinità tra la sottoposizione ad imposizione patrimoniale tributaria (articolo 23 Cost.) e la sanzione penale (articolo 25 Cost.) inducono a ricercare nel sistema normativo una normativa di specie analoga o di genere superiore che possa rafforzare la garanzia del cittadino nella veste di contribuente. Siffatta normativa di principio è rintracciabile nel regime dettato per il giudice, organo governante imparziale e garante del rispetto della legge nella misura più raffinata ed accentuata, dal codice di procedura civile, il quale prevede, all'articolo 154, che la scadenza del termine ordinatorio non privi il suo titolare della legittimazione ad esercitarlo, a condizione che esso sia preventivamente prorogato. Siffatta regola è, per le ragioni enunciate, applicabile per analogia iuris anche ai rapporti giuridici tributari, e in particolare a quelli relativi alle imposte sui redditi. Ne deriva che, dal momento che nel caso in esame l'accertamento ex art. 36 bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è stato adottato dopo la scadenza del termine in esso previsto, senza che ne fosse stata disposta tempestivamente la proroga, l'atto impositivo è illegittimo.

Né sembra persuasivo obbiettare che in materia fiscale difetta un soggetto cui possa far capo il potere di prorogare (per un periodo non superiore al termine originario) il termine non perentorio.

Infatti, se la volontà del legislatore era di creare un termine ordinatorio, ed esiste nel sistema una disciplina che attribuisce significato e rilievo ai termini ordinatori, l'interprete deve prender atto della voluntas legis (ancorché diversa dall'intentio legislatoris); e non può certo addurre difficoltà applicative per sottrarre al cittadino un suo diritto. Sarà un diverso problema identificare il soggetto legittimato ad accordare la proroga nell'esercizio dei poteri di vigilanza oggi previsti dall'articolo 5 del d.lgs. 112/1999 (si veda per il passato l'articolo 16 del d.P.R. 603/1992).

La trasformazione del termine in questione in termine ordinatorio non comporta dunque la automatica proroga del termine stesso, ma solo la sua prorogabilità in un regime analogo a quello di cui all'articolo 154 c.p.c. (e solo per un termine massimo non superiore al termine originario). E tale proroga non è intervenuta, né con atto del giudice né con atto della pubblica amministrazione.

Né rileva il fatto che la applicazione retroattiva della norma in questione è stata successivamente ritenuta scontata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 229 del 7-11 giugno 1999, secondo cui la legge 449/1997 "non lascia privo di termini decadenziali l'attività di controllo formale delle dichiarazioni, trovando comunque applicazione l'articolo 17 del d.P.R. 602/1973 secondo il quale le imposte liquidate in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti (e dunque anche quelle liquidate a seguito di controllo "formale") devono essere iscritte a ruolo, a pena di decadenza, nel termine previsto dal primo comma dell'articolo 43 del d.P.R. n. 600 del 1973" (il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione).

La proposizione si limita infatti a constatare l'esistenza comunque di un termine finale inderogabile per l'esercizio dei poteri di accertamento, di per sé sufficiente ad escludere la incostituzionalità del sistema. Ma non affronta neppure il problema della rilevanza giuridica dei termini "ordinatori".

Il ricorso deve dunque essere rigettato.

Non c'è luogo a provvedere sulle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.