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Collettivo di lavoro a tempo indeterminato -  recesso unilaterale da un contratto

Lavoro - collettivo di lavoro a tempo indeterminato -  recesso unilaterale da un contratto

Lavoro - collettivo di lavoro a tempo indeterminato  -  recesso unilaterale da un contratto

Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 18 ottobre 2002, n. 14827
 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il tribunale di Arezzo, accogliendo l'appello degli attuali resistenti conto la sentenza del pretore della stessa sede, ha, con sentenza non definitiva 240/99, dichiarato il diritto degli appellanti alla maggiorazione per lavoro straordinario in relazione alle ore lavorate in eccedenza rispetto all'orario di 36 ore settimanali e, con sentenza definitiva 779/99, condannato la spa "La ferroviaria italiana" a pagare lire 16.986.076 al Vanzi, lire 13.639.127 alla Sacconi e lire 9.232.907 al Pisini.

Tra le molteplici ragioni invocate dai lavoratori per ottenere la riforma della sentenza appellata, il tribunale, con la sentenza non definitiva, ha ritenuto assorbente quella basata sulla vigenza, al momento della loro assunzione, dell'accordo integrativo aziendale 10 dicembre 1984, interpretato nel senso che determinava in 36 ore settimanali l'orario di lavoro del personale impiegatizio, in luogo delle 39 ore previste dal contratto collettivo nazionale, accordo che era stato modificato soltanto dal contratto aziendale 21 dicembre 1995, dovendosi negare qualsiasi efficacia alla disdetta comunicata dall'azienda il 29 ottobre 1992, e ciò per la ragione che non era ammissibile una disdetta unilaterale di accordo collettivo.

Ha concluso, pertanto, che l'orario di lavoro degli appellanti era fissato, come per gli altri impiegati, in 36 ore settimanali, dovendo trovare applicazione la fonte collettiva aziendale e non i contratti individuali di assunzione, che recavano la previsione di 39 ore di lavoro con riferimento al contratto nazionale.

Con la sentenza definitiva, previo espletamento di consulenza tecnica, ha liquidato le somme a ciascuno spettanti per le ore prestate in eccedenza sulla base dei compensi previsti per il lavoro straordinario.

La cassazione delle due sentenze è domandata dalla spa "La ferroviaria italiana" per quattro motivi di ricorso; resistono con controricorso i lavoratori.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 1362 e seguenti c.c. in relazione all'avvenuto recesso dal contratto aziendale 10 dicembre 1984, comunicato con disdetta del 20 dicembre 1992, nonché omesso esame di un punto decisivo della controversia, in relazione all'articolo 360, numeri 3 e 5, c.p.c.

Si afferma che, in violazione degli articoli 1321, 1372, 1373 e 1375 c.c., il tribunale ha affermato che l'efficacia di un contratto collettivo non può mai cessare per effetto di disdetta unilaterale, mentre la durata indeterminata comporta necessariamente il potere di recesso; se il tribunale non fosse incorso nel denunciato errore di diritto, i contratti individuali di assunzione dei lavoratori sarebbero stati del tutto conformi alla regola collettiva vigente, che era dettata dal contratto nazionale che fissava in 39 ore settimanali l'orario di lavoro.

Il motivo è fondato perché l'affermazione circa l'inammissibilità, in ogni caso, del recesso da un contratto o accordo collettivo, ancorché a durata indeterminata, non è conforme al diritto.

Invero, in ordine alla recedibilità da un contratto collettivo postcorporativo, ove sia privo del termine di durata, la giurisprudenza della corte (Cassazione 8429/01; 6427/98; 1694/97; 8360/96; 6408/93;
4507/93) si esprime nel senso che, con la soppressione dell'ordinamento corporativo e con la mancata attuazione dell'articolo 39 Cost., il contratto collettivo spiega la propria operatività esclusivamente nell'area dell'autonomia privata, sicché la regolamentazione ad esso applicabile è quella dettata per i contratti in generale, non quella dei contratti collettivi corporativi per quanto attiene, in particolare, alla durata e alla sua obbligatoria determinazione, prevista dall'ultimo comma dell'articolo 2071 c.c.

Quindi, in linea di principio, deve ammettersi la possibilità che accordi collettivi vengano stipulati senza indicazione del temine finale, siano cioè a tempo indeterminato, sebbene ciò non si verifichi frequentemente nella pratica.

Ove peraltro tale ipotesi ricorra, si deve ritenere che gli effetti del contratto non debbano necessariamente perdurare nel tempo senza limiti.
Vero è che l'articolo 1372 c.c., nel disciplinare gli effetti del contratto, dispone che questo ha forza di legge tra le parti, ma tale espressione non ha un significato giuridico ulteriore rispetto a quello dell'attribuzione ad esso dell'efficacia obbligatoria, ossia del carattere vincolante per i soggetti che lo hanno posto in essere; non significa, cioè, affermazione dell'irrevocabilità assoluta sine die del contratto, tanto più che, da un lato, le parti convenzionalmente possono stabilire la facoltà di recedere, e, dall'altro, la legge prevede specifiche ipotesi di recesso unilaterale, senza che, peraltro, questo debba ritenersi escluso per le ipotesi da essa non contemplate (articolo 1373 c.c.).

Invero, al di là di dette specifiche ipotesi, e per quanto attiene in particolare ai contratti privi di termine finale, ossia a tempo indeterminato, deve essere riconosciuta la possibilità di farne cessare l'efficacia, previa disdetta, anche in mancanza di una espressa previsione legale. Trattasi di un principio, che appare in sintonia con quello di buona fede nell'esecuzione del contratto (articolo 1375 c.c.), e che è coerente con la particolare struttura del rapporto, che non può vincolare le parti senza limiti, in contrasto con la naturale temporaneità delle obbligazioni. Esso, poi, deve tanto più ritenersi operante con riferimento al contratto collettivo, ove lo si consideri tipico mezzo di composizione di conflitti sorti in uno specifico contesto economico produttivo, suscettibile spesso di improvvise e talora impreviste variazioni di mercato, sicché si può dire ad esso connaturale una durata limitata nel tempo, anche in forza della normalità dell'autocomposizione volontaria dei conflitti rispetto alla vigenza, temporale o no, del contratto, attraverso i mezzi che l'ordinamento giuridico riconosce ai lavoratori organizzati.

Deve, pertanto, affermarsi che il recesso ordinario va ammesso come causa estintiva normale del rapporto di durata a tempo indeterminato, siccome rispondente all'esigenza di evitare la perpetuità del vincolo obbligatorio, anche in relazione ai contratti collettivi di diritto comune.

Avendo, invece, il tribunale negato in radice tale principio, l'errore di diritto ha cagionato totale omissione dell'indagine necessaria per verificare se, nella fattispecie concreta, si fosse in presenza di accordo collettivo a durata indeterminata; se e da quale data la sua efficacia fosse cessata per effetto della disdetta del datore di lavoro; se la disdetta stessa, ove efficacemente intervenuta, avesse validamente inciso sulla regolamentazione dei rapporti di lavoro senza incontrare il limite dell'intangibilità di diritti acquisiti al patrimonio dei lavoratori (per questo limite, vedi Cassazione 6427/97, citata); se, eventualmente, la disciplina dell'orario di lavoro fosse stata sostituita da altra, derivante da fonte diversa, di analogo contenuto.

In accoglimento del primo motivo di ricorso, quindi, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio perché nel nuovo giudizio, in applicazione del principio di diritto enunciato, si proceda alle indagini necessarie per verificare quale fosse la disciplina relativa all'orario di lavoro al tempo di assunzione dei resistenti.

Nella decisione di accoglimento del primo motivo di ricorso resta assorbito l'esame degli altri motivi perché dalla risoluzione della questione preliminare relativa all'efficacia dell'accordo integrativo 10 dicembre 1984 al tempo dell'assunzione dei lavoratori dipende la rilevanza dell'indagine diretta a stabilire se le sue disposizioni fossero già state modificate dai contratti collettivi nazionali (secondo motivo), nonché la questione strettamente interpretativa delle sue clausole, se recanti, o non, una disciplina relativa all'orario di lavoro (terzo motivo), oltre, ovviamente, al tema dei criteri di computo dei compensi eventualmente spettanti per le ore eccedenti (se con la maggiorazione del lavoro straordinario), che costituisce l'oggetto del quarto motivo di ricorso, restando caducata dalla cassazione della sentenza non definitiva anche la sentenza definitiva sul quantum debeatur.

Il giudice di rinvio provvederà anche a regolare le spese del processo di cassazione.

P.Q.M.

La corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbiti gli altri motivi; cassa le sentenze impugnate e rinvia la causa alla Corte di appello di Firenze anche per la pronuncia sulle spese del processo di cassazione.