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Quadri esposti nella mostra -Il quadro ècome la stampa - Offesa alla reputazione - Diffamazione

29/10/2004 Quadri esposti nella mostra -Il quadro ècome la stampa - Offesa alla reputazione - Diffamazione

Quadri esposti nella mostra -Il quadro è come la stampa - Offesa alla reputazione - Diffamazione (Cassazione – Sezione quinta penale (up) – sentenza 14 maggio-29 ottobre 2004, n. 42375)

Cassazione – Sezione quinta penale (up) – sentenza 14 maggio-29 ottobre 2004, n. 42375

Fatto e diritto

A seguito delle querele proposte dagli interessati al pittore Giovanni Pxxxxx è stato contestato (ai sensi degli articoli 81 e 595 comma 1 e 3 Cp) di aver offeso la reputazione di Maria Teresa Penta e di Armando De Stefano in quadri esposti nella mostra del 24 maggio 1999 in locali del Palazzo Reale di Napoli (la Penta si era ritenuta raffigurata nel dipinto intitolato “La vedova allegra”, mentre il De Stefano si era riconosciuto evocato in quello “Il Papa nero più stronzetto nero”) e nel “libricino” illustrativo della mostra, come redatto da Roberto Ciuni.

L’imputato è stato assolto, per insussistenza del fatto, dall’addebito predetto con la sentenza del Tribunale di Napoli del 21 giugno 2001 dalla quale si rileva, in sintesi, che:

in relazione al peculiare mezzo espressivo (di tipo pittorico) utilizzato dal Pxxxxx, la pregiudiziale quaestio facti della riconoscibilità delle persone offese richiede una particolare estensione del procedimento valutativo anche al “contesto storico in cui l’inera vicenda è maturata”; la Penta, in particolare, si è vista rappresentata nel quadro “in maniera grottesca ed insultante vi si è riconosciuta alla stregua dei personalissimi riferimenti, esplicitati peraltro dal Pxxxxx nelle dichiarazioni riportate nel libretto illustrativo oltre che nella raffigurazione dei capelli - “rossi e arricciati” – del personaggio dipinto e nel richiamo del titolo ad una sua notoria relazione con un artista frattanto deceduto; allo stesso ambiente dell’Accademia delle Belle Arti di Napoli (della quale il Pxxxxx era stato direttore, non riconfermato) appartenevano altre persone riconosciutesi nei ritratti esposti, compreso Armando De Stefano, che così si era visto raffigurato nel quadro “Il Papa nero più stronzetto nero”, sempre alla stregua delle dichiarazioni esplicative contenute nel libretto;

la questione della riconoscibilità dei querelanti nei ritratti predetti è stata affrontata sulla base di elementi ritenuti rilevanti, quali:

a) la somiglianza dei tratti fisici;

b) l’uso di titoli allusivi a situazioni ed eventi individualizzanti nonché la loro rappresentazione attraverso simboli e segni dal chiaro significato;

c) le osservazioni sulla mostra e sui quadri pubblicate in un articolo e le dichiarazioni provenienti dallo stesso Pxxxxx, contenute nell’opuscolo del Ciuni, distribuito nel corso della mostra;

per il primo profilo lo stile pittorico del Pxxxxx è improntato ad una evidente matrice surrealista, che trasfigura in simboli personalissimi la visione fantastica di emozioni reali, di situazioni vissute, di persone conosciute, e non denota una “specifica attitudine individualizzante”, idonea ad identificare l’oggetto della rappresentazione in una persona determinate, attraverso la somiglianza (così inesistente) di tratti somatici, a far riconoscere nei due quadri esaminati la raffigurazione della Penta e del De Stefano (neppure i titoli dei quadri e alcuni simboli, siccome ritenuti riferibili a fatti privati specifici, valgono ad integrare il requisito della riconoscibilità, in quanto, per la Penta, si tratta di riferimenti allusivi a “personalissime e dirette conoscenze” e, per il De Stefano, la loro inidoneità identificativa è confermata dall’incertezza manifestata dallo stesso querelante a confermare il collegamento personale a “Il Papa nero” come ipotizzato); gli stessi personaggi rappresentati nei quadri hanno, d’altra parte, ritenuto superata l’incertezza grafica della loro riconoscibilità dal rilievo didascalico decisivo delle dichiarazioni del Pxxxxx riportate nel libretto curato dal Ciuni, con le quali si chiarisce che i dipinti del ciclo “La storia del lupo” esprimono “in termini iperrealistici” lo stato emotivo di repellenza e di “impressione sgradevole” nei confronti di personaggi dello stesso mondo reale dell’Accademia, nel quale è maturata l’esperienza delle ingiusta “defenestrazione” patita; ma, secondo la valutazione del primo giudice, il linguaggio pittorico concreto ha concepito il risultato di raffigurare le persone reali “come archetipi umani in forme astratte ed irriconoscibili al fruitore dell’opera”: così “il ciclo la storia del lupo” è la narrazione, mediata dai sentimenti e dalle sensazioni dell’attore, del microcosmo chiuso tra le mura dell’Accademia, resa graficamente attraverso forme astratte e surreali e, perciò, irriconoscibili; le stesse dichiarazioni (di interpretazione autentica dei quadri) rivelano soltanto le intime ragioni personali del dipingere, dalle quali esula il rilevante connotato denigratorio già in via oggettiva, ricollegandosi peraltro ad una funzione non individualizzante, ma meramente definitoria di concetti e situazioni considerate in via generale ed astratte, oltre che di richiamo autobiografico alle precedenti iniziative del Pxxxxx, intese a contestare le modalità di gestione dell’Accademia e conformative del clima, evocato anche in articoli giornalistici, tutt’altro che sereno dell’ambiente artistico-accademico napoletano in quei mesi.

La sentenza impugnata è pervenuta, invece, a conclusioni di colpevolezza dell’imputato (così condannato alla pena di giustizia con le statuizioni di legge in favore delle parti civili) in conseguenza dei proposti appelli.

La premessa metodologica è stata che la prima sentenza pecca di coerenza motivazionale avendo tenuto disgiunte le varie prospettazioni della condotta, contestata nel capo d’imputazione, e che il procedimento valutativo non può certamente riguardare il dipinto in sé (la cui valenza artistica è indiscussa) ma il comportamento dell’autore che strumentalizzando la propria creatività, ha inteso, volutamente, denigrare la reputazione di altri (anche l’opera d’arte pittorica, sebbene tale, può essere strumento di denigrazione della reputazione altrui). Si è poi considerato che: la tecnica pittorica utilizzata rende arduo il procedimento di riconoscibilità dei personaggi raffigurati dal Pxxxxx (neppure universalmente noti), che deve, perciò, articolarsi nella disamina delle dichiarazioni testimoniali assunte, posto chei quadri non sono idonei ad integrare il requisito della riconoscibilità attraverso simbologie astrattamente riferibili ad una pluralità indeterminata di soggetti e situazioni; ma il riconoscimento della Penta e del De Stefano è realizzato, in termini di affidabile certezza, dai riferimenti specifici desumibili dalle dichiarazioni dello stesso imputato nell’intervista riportata dal Ciuni, sebbene non vangano volutamente mai fatti i nomi dei querelanti; al riguardo sono rilevanti le indicazioni che rendono inequivocabile il riconoscimento della Penta nella “Vedova allegra” (relazione con un “pittore morto”; abitudine di portare a guinzaglio un gatto; candele accese, significative della vedovanza) e del De Stefano nel “Papa nero più stronzetto” (riferimento al padre, che in Accademia sosteneva di svolgere funzioni pari a quelle del capo dei Gesuiti della Chiesa; impegno diretto in attività “cellula” sindacale); in tal modo è evidenziata la rilevante riconoscibilità dei querelanti, quanto meno rispetto all’ambiente dell’Accademia; conseguentemente l’inscindibile binomio “dipinto-libretto” costituisce lo strumento della diffamazione realizzata dal Pxxxxx (che ha, peraltro, riconosciuto di ave inteso perseguire raffigurazioni fisiche repellenti) con la sostanziale rappresentazione della Penta come “donna di facili costumi” del De Stefano come beneficiario di indebita collocazione nepotistica; la sussistenza della consapevolezza della portata diffamatoria della condotta, direttamente ribadita nell’intervista (sebbene riferita ad intento di fustigare inveterate abitudini…di favoritismi, di beghe, invidie ed altro), integra gli estremi del rilevante connotato psicologico del reato ritenuto, escludendo che si verta in ipotesi inesigibile di esercizio di diritto di critica e di denunzia in difetto dei presupposti richiesti – in termini di contestuale evidenza – della verità del fatto, dell’interezza sociale alla sua rappresentazione e della correttezza espositiva (seppure attenuata in ipotesi di esercizio del diritto di satira, non propriamente ipotizzabile – il Pxxxxx, in particolare, ha alimentato, con le dichiarazioni esternate “il fondato sospetto che si sia voluto vendicare” per il mancato sostengo della sua rinnovata candidatura a direttore dell’Accademia rivendicano una sostanziale inesigibilità di “manifestazione artistica” e premettendo, pur nei termini dubbi e subdoli della sua intervista, l’identificazione dei personaggi da parte dei visitatori della mostra, così di fatto condizionati nel procedimento di libera interpretazione dei quadri – non sussiste l’aggravante del mezzo della stampa, in quanto il libretto disgiunto dai quadri, non ha di per sé valenza diffamatoria destinato unicamente, a consentire l’identificazione dei personaggi inidoneo a diffondere da solo un messaggio denigratorio della reputazione dei querelanti.

Col ricorso in esame si sostiene che la sentenza impugnata è inficiata da mancanza ed illogicità della motivazione, già essendo stata inopinatamente disattesa la richiesta di rinnovazione parziale dell’istruzione dibattimentale ai fini dell’esame diretto dei quadri in questione, necessario invece per la insufficiente valutazione comportata dalla semplice verifica della loro riproduzione in catalogo. E si precisa che si verte in ipotesi di motivazione apparente elusiva dei problemi fattuali e giuridici, logici e critici, oltre che filologici ed ermeneutici, prospettati dalla Difesa, essendosi peraltro riconosciuti che i quadri da soli (che non inducono a certa identificazione dei personaggi raffigurati) non sono uno strumento di diffamazione per la mancanza del requisito della riconoscibilità, ma così essendosi incongruamente svalutato il corretto ragionamento autentico della valutazione del primo giudice sulla base del “sospetto” formulato di volontaria iniziativa ritorsiva del  Pxxxxx (che pure aveva già denunziato la situazione di favoritismo nepotistico diffuso delle Accademie d’Arte di tutt’Italia; che ha seriamente e legittimamente esercitato diritti di cronaca e di critica, se non di satira – suscettibili di tutela preveniente; che, nell’intervista riportata dal Ciuni, non ha indicato i nomi dei querelanti e di altre persone ravvisabili nelle sue raffigurazioni pittoriche).

Col ricorso integrativo gli esposti motivi di impugnazione risultano ulteriormente precisati e ribaditi, adducendosi che l’addotto vizio motivazionale si evidenzia nei contraddittori momenti del relativo procedimento. Secondo il ricorrente rileva cioè che: si sia surrogato il requisito della riconoscibilità a quello rilevante dell’effettivo riconoscimento operato da più persone, come richiesto dall’articolo 595 Cp così confondendosi “l’individuabilità ex post dei querelanti con la reale individuazione da parte dei visitatori della mostra”; si sia apoditticamente ipotizzato che agli stessi visitatori fosse stato distribuito il libretto del Ciuni, necessario, come riconosciuto, per il riconoscimento degli stessi querelanti, e che il libretto del Ciuni sia stato predisposto proprio per il perseguimento dell’intento diffamatorio; si sia utilizzato, al riguardo, per la conferma logica dell’assunto, l’inaccettabile argomento del “sospetto” della finalità di vendetta coltivata dall’imputato.

Hanno proposto ricorso per cassazione anche le parti civili costituite, denunziando innanzi tutto che l’esclusione dell’aggravante di offesa arrecata con il mezzo della stampa è stata illegittimamente disposta con violazione della disciplina legale in materia e con connesse carenze motivazionali della relativa valutazione (che ha ipotizzato l’inidoneità offensiva del libretto del Ciuni, pur inteso come comprovante insucettibile dello strumento diffamatorio utilizzato dal Pxxxxx). E, col secondo motivo, hanno dedotto carenze motivazionali apprezzabili del procedimento determinativo dell’indennizzo risarcitorio, che non ha considerato adeguatamente la gravità del danno rapportata “all’effettiva entità del discredito causato dalla diffamazione”.

Con i motivi aggiunti le stesse parti civili hanno evidenziato ulteriori profili di violazione dell’articolo 593/3 Cp, non essendosi considerato che, i quadri del Pxxxxx, esposti in una mostra aperta al pubblico, erano riprodotti in cataloghi, calendari e cartoline predisposti per l’occasione, con divulgazione conseguente tra i visitatori e gli stessi interessati.

Il diffuso richiamo alle risultanze processuali e probatorie consente valutazioni puntualmente essenziali delle questioni sollevate dall’imputato ricorrente, delle quali rende evidente ragione della complessiva infondatezza, siccome articolate a prospettare inesistenti carenze motivazionali della sentenza impugnata.

Già è destituita di fondamento la censura in ordine ad ingiustificato diniego della richiesta parziale rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, non apprezzandosi discrasie motivazionali al riguardo per il mancato esercizio dell’eccezionale potere discrezionale previsto dall’articolo 603 Cpp a fronte di istanza diretta a conseguire attività diretta di disamina percettiva dei quadri da parte del collegio giudicante (al riguardo resta ineccepibile ed incensurabile la valutazione di inutilità dell’incombente “ispettivo” sollecitato in presenza di ampia ed adeguata documentazione fotografica ed in relazione alla prevedibile irrilevanza dei suoi risultati possibili di personali sensazioni estetico-visive dei componenti di tale collegio).

Ed è destituito di fondamento il motivo sostanziale di ricorso, che adduce la natura meramente apparente del procedimento motivazionale della sentenza impugnata.

Ben vero è che il procedimento argomentativi accreditato non elude la premessa di riconoscere la valenza artistica indiscussa in sé dei quadri del Pxxxxx e di escludere che il linguaggio pittorico, di ispirazione surrealistico-allegorico, possa comportare l’immediato riconoscimento o riconoscibilità dei personaggi rappresentati (così implicitamente anche adombrando l’esclusione di una valenza diffamatoria in sé delle relative raffigurazioni pittoriche).

Ben vero è anche che non disconosciuto dall’imputato un sostanziale intento di denunzia critica di vicende e di devianze di un particolare ambiente artistico-professionale (del quale l’imputato è esponente qualificato) e che tale intento, se perseguito nelle forme espressive continenti, può integrare il presupposto di operatività, almeno nei rilevanti profili putativi, dell’esimente di cui all’articolo 51 Cp.

Ma, in tal senso, la valutazione della portata diffamatoria dei quadri presuppone la stretta correlazione alle modalità esemplificative della connotazione ambientale “repellente”, che l’artista ha inteso rappresentare.

Sicché, al riguardo, non è certamente contraddittoria la conclusione di colpevolezza fondata sul procedimento valutativo insindacabile in questa sede di legittimità, ispirato a criteri di ragionamento logico articolato e corretto, che concretamente supera le apparenti contraddizioni con le premesse, in quanto coerente progressione argomentativi consegue alle considerazioni che:

- il riferimento al “libricino” illustrativo del ciclo pittorico esposto dal Pxxxxx (secondo la puntuale indicazione dell’imputazione contestata) ed al contenuto delle precisazioni fornite dall’imputato (relative a situazioni strettamente familiari e personali della Penta e del De Stefano, sostanzialmente eccentriche rispetto al perseguito intento di denunzia critica) confermando l’oggettiva sussistenza della diffamazione contestata nei termini del binomio quadri-libricino (ovvero linguaggio pittorico-esternazione illustrative);

- il tal modo la soluzione del problema sulla riconoscibilità delle persone raffigurate nei quadri (e, in particolare, dei querelanti) risulta irrilevante, in quanto ha trovato insindacabile riscontro argomentativo nel rilievo dei riferimenti di natura personale esplicita del Pxxxxx al Ciuni pure incensurabilmente considerati nella loro autonoma portata diffamatoria), oltre che nei termini della riconoscibilità voluta, se non ricercata, dei personaggi raffigurati;

- ed è conferita insindacabile valenza diffamatoria derivata ai quadri, per le didascalie che vi sono apposte e per la simbologia pittorica delle modalità di rappresentazione dei personaggi, sempre riconducibili a situazioni esclusivamente personali delle rispettive esperienze esistenziali, che si finiscono espresse in termini denigratori, come appunto apprezzati nella incensurabile valutazione di merito della sentenza impugnata.

Conseguentemente resta immune dal vizio denunziato la conclusione predetta di colpevolezza del Pxxxxx, fondata sull’insindacabile abbinamento valutativo della convergenza diffamatoria di espressione pittorica e di “interpretazione autentica” del libretto illustrativo, in relazione alla quale è certamente incensurabile nel merito l’articolata disamina delle risultanze processuali, sviluppata a dimostrare che il sotteso ruolo dell’imputato (di qualificato “fustigatore di inveterate abitudini” negative e riprovevoli dell’ambiente dell’Accademia delle Belle Arti di Napoli) è stato sostanzialmente tradito dai riferimenti espressivi (che hanno attivato la sfera della reputazione personale ed affettiva dei querelanti, certamente estranea al contesto delle “critiche di ambiente” nella loro evidente esasperazione personalistica di sottolineare una relazione extragiudiziale della Penta, di rappresentarne il carattere di persona volubile ed inaffidabile, di rimarcare la propensione dello “stronzetto nero” De Stefano per la pratica del favoritismo nepotistico).

Ed è destituita di fondamento la censura, ulteriormente precisata nel ricorso integrativo, in ordine alla riconoscibilità ex ante dei querelanti ed alla strumentale predisposizione diffamatoria del libretto illustrativo, del quale, secondo l’assunto difensivo, apoditticamente si è ipotizzata pure l’avvenuta distribuzione tra i visitatori della mostra. Al riguardo le risposte della sentenza impugnata risultano, infatti, ineccepibili e correlate a coerente disamina delle risultanze processuali, tanto più insindacabile in questa sede di legittimità alla stregua delle formulate contestazioni che postulano invece rivalutazione di merito di tali risultanze.

L’affermazione finale e sintetica della sentenza impugnata (il binomio dipinto-libretto, unicum inscindibile, rappresenta lo strumento attraverso cui è stato diffamata la reputazione dei querelanti) risulta correttamente ed insindacabilmente formulata in considerazione del composito linguaggio utilizzato e della incensurabile valutazione della sua valenza diffamatoria nei confronti dai querelanti, neppure sussistendo il requisito della continenza complessiva di tali modalità espressive, che possa giustificare l’operatività di situazioni esimenti ai sensi dell’articolo 51 Cp.

Ciò comporta il rigetto dell’impugnazione del Pxxxxx, col risultato speculare di accreditare la fondatezza del primo motivo di ricorso, proposto per gli effetti penali dalle parti civili costituite.

Ai fini della configurabilità e della sussistenza dell’aggravante contestata (di offesa arrecata col mezzo della stampa) rileva, infatti, che:

- nell’imputazione contestata è specificamente precisata la modalità della condotta diffamatoria realizzata mediante il libricino “Racconto di racconti dipinti” (che, diversamente dagli strumenti espressivi richiamati nei motivi aggiunti di irrilevante contenuto diffamatorio, riveste natura oggettiva riconducibile al mezzo della stampa di cui all’articolo 595 comma 3 Cp);

- di tale mezzo è risultato accreditata la necessaria utilizzazione diffamatoria, siccome riproduttivo delle precisazioni illustrative del Pxxxxx in ordine a qualità, prerogative caratteriali e riprovevoli propensioni esistenziali dei querelanti.

Conseguentemente la sentenza impugnata deve essere annullata nel punto relativo all’esclusione dell’aggravante predetta, illogicamente correlata alla valutazione che “il libretto disgiunto dai quadri, non ha di per sé valenza diffamatoria inidoneo a diffondere da solo un messaggio denigratorio della reputazione dei querelanti (e così illegittimamente contrastante con la premessa accreditata dall’unicità essenziale del binomio stampa-dipinto, in situazione che, in mancanza di impugnazione, avrebbe comportato la rettificazione dell’errore di diritto motivazionale ex articolo 619 Cpp e che, nella fattispecie concreta di ricorso delle parti civili per gli effetti penali, determina l’annullamento della sentenza impugnata con qualificazione del fatto ritenuto come rilevante ai sensi dell’articolo 595 comma 3 Cp).

Consegue il rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli ai fini della determinazione della pena corrispondente alla diversa qualificazione giuridica del fatto, essendo riservato alla deliberazione del giudice di rinvio l’individuazione del regime sanzionatorio appropriato al fatto concreto (che trova pur sempre origine nell’accentuata sensibilità critica e professionale dell’imputato, seppure veicolata da forme espressive diffamatorie, come ritenute, delle quali lo stesso giudice dovrà valutare la rilevanza per i concreti effetti civili conseguiti).

Così restando assorbita la disamina delle altre questioni proposte dalle parti civili, frattanto l’imputato va condannato al pagamento delle spese del procedimento ed alla rifusione di quelle sostenute dalle parti civili presenti in questa sede, liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte di cassazione rigetta il ricorso di Pxxxxx Giovanni, che condanna al pagamento delle spese del procedimento ed in quello delle spese delle parti civili, liquidate in complessivi euro 2000; in accoglimento del ricorso delle parti civili, qualificato il fatto come diffamazione ex articolo 595 comma 3 comma Cp, annulla l’impugnata sentenza e rinvia per la determinazione delle pene e per gli effetti civili ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.