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disposizioni per la prevenzione della delinquenza

disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale Corte Costituzionale

SENTENZA N.25 ANNO 2002
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 15, commi 1 lettera a), 4-bis lettera a), e 4-ter della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), come modificata dalla legge 13 dicembre 1999, n. 475 (Modifiche all'art. 15 della L. 9 marzo 1990, n. 55, e successive modificazioni) promosso con ordinanza del 4 maggio 2000 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra G. P. e il Prefetto di Roma ed altro, iscritta al n. 634 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 2000.
Visti gli atti di costituzione di G. P. e del Comune di Roma nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 18 dicembre 2001 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti;
uditi gli avvocati Giandomenico Caiazza per G. P., Sebastiano Capotorto per il Comune di Roma e l'avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Il Tribunale di Roma, seconda sezione civile, con ordinanza del 4 maggio 2000, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale "del combinato disposto"dell'art. 15, commi 1 lettera a), 4-bis lettera a), e 4-ter della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), nel testo modificato dalla legge 13 dicembre 1999, n. 475 (Modifiche all'art. 15 della L.19 marzo 1990, n.55, e successive modificazioni) "nella parte in cui tali norme prevedono la decadenza di diritto dalle cariche elettive (in caso di condanna irrevocabile) e, conseguentemente, la sospensione dalle medesime cariche (in caso di condanna non definitiva) per uno dei reati di cui all'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, attenuato sia dalla circostanza dell'aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale, sia dalla circostanza di cui al comma quinto del medesimo articolo".
1.1. - Il giudizio principale ha ad oggetto l'impugnazione del provvedimento con cui il prefetto ha disposto la sospensione del ricorrente dalla carica di membro del consiglio comunale di Roma, a seguito della sentenza penale di primo grado con cui il predetto è stato condannato alla pena di due mesi e venti giorni di reclusione (sostituita con la pena della multa di lire 6.000.000) e di lire 1.000.000 di multa per il reato di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, con il riconoscimento dell'attenuante della lieve entità del fatto (art. 73, comma 5, cit.) nonché delle circostanze attenuanti generiche e della circostanza di avere agito per motivi di particolare valore morale e sociale.
1.2. - Secondo il giudice rimettente, sarebbe irragionevole, anche alla luce delle finalità perseguite dalla legge numero 55 del 1990, che una "condotta" ritenuta dal giudice penale caratterizzata da sentimenti "di spiccata nobiltà ed elevatezza", tali da giustificare l'applicazione dell'attenuante dell'art. 62, numero 1, cod. pen., sia tuttavia considerata indice di "indegnità morale ai fini della decadenza dalle cariche elettive".
L'irragionevolezza risulterebbe anche dal fatto che, diversamente da quanto accade per altri reati di pari allarme sociale indicati dalla medesima disposizione (il porto, la detenzione ed il trasporto di armi, munizioni e materie esplodenti), per quelli previsti dall'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 la norma impugnata non fissa un limite minimo di pena ai fini della declaratoria di decadenza. Pertanto, la sospensione di diritto deve essere applicata anche qualora sia inflitta "una pena estremamente contenuta".
2. - Nel giudizio dinanzi alla Corte, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o infondata.
Nella memoria depositata in prossimità dell'udienza, la difesa erariale ha dedotto che l'automatismo previsto dalla norma impugnata garantisce il rispetto del principio di eguaglianza e la tutela dell'ordine pubblico. La limitazione del diritto di elettorato passivo che ne deriva sarebbe giustificata, secondo l'Avvocatura, dalla lesione del rapporto fiduciario con il corpo elettorale, conseguente alla condanna per i gravi delitti elencati nella norma impugnata.
3. - Si è inoltre costituita la parte privata chiedendo preliminarmente il trasferimento della questione sugli artt. 58 e 59 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, in quanto tale decreto ha formalmente abrogato la norma impugnata e ne ha recepito integralmente il contenuto.
Nel merito, ha insistito per l'accoglimento della questione.
4. - Si è infine costituito il Comune di Roma, che si è rimesso alla giustizia, ritenendo la questione di legittimità costituzionale meritevole di positiva considerazione.
Considerato in diritto
1. La questione di legittimità costituzionale, sollevata con l'ordinanza indicata in epigrafe, concerne l'art. 15, commi 1 lettera a), 4-bis lettera a), e 4-ter della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale) e successive integrazioni e modificazioni, nella parte in cui dispone la sospensione obbligatoria da determinate cariche elettive, a seguito di condanna non definitiva per uno dei reati indicati nell'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), senza prevedere l'ipotesi dell'eventuale riconoscimento della circostanza attenuante dell'aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale, o anche quella della lieve entità del fatto addebitato, di cui al comma 5 del medesimo articolo.
Le norme impugnate sarebbero infatti in contrasto, secondo il giudice rimettente, con gli artt. 3 e 51 della Costituzione, in quanto sarebbe contraddittoria ed irragionevole la scelta legislativa di considerare, ai fini dell'applicazione della decadenza e della sospensione automatiche da certe cariche elettive, anche le condanne ad una pena diminuita per effetto della concessione della circostanza attenuante dell'azione commessa per motivi di particolare valore morale e sociale, oltre che del riconoscimento della lieve entità del fatto addebitato.
2. In via preliminare occorre rilevare che l'art. 15 della legge n. 55 del 1990 risulta formalmente abrogato, tra gli altri, dall'art. 274, comma 1 lettera p), del sopravvenuto d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), ma il suo contenuto precettivo è stato integralmente riprodotto dal combinato disposto degli artt. 58, comma 1 lettera a), e 59, comma 1 lettera a), e comma 4, cosicché la questione di legittimità costituzionale sollevata deve intendersi trasferita sulle predette disposizioni del testo unico, mediante le quali le norme denunciate continuano tuttora a vivere nell'ordinamento (sentenze n. 376 del 2000 e n. 454 del 1998).
3. La prospettata questione di legittimità costituzionale si incentra essenzialmente sul profilo della irragionevolezza delle norme censurate, che, secondo l'ordinanza di rimessione, non prendono in considerazione la circostanza della lieve entità del fatto addebitato e soprattutto non "escludono la decadenza per cariche elettive anche nel caso di condanna per reati attenuati dalla circostanza dell'avere, il reo, agito per motivi di particolare valore morale e sociale", nonostante che l'attenuante in questione possa essere espressione, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione riferita dal giudice a quo, di sentimenti "di spiccata nobiltà ed elevatezza". In altri termini, la Corte non è chiamata, in questo giudizio, a valutare le specifiche ipotesi delittuose, previste dalla citata lettera a), sotto il profilo dell'adeguatezza o della proporzione tra ciascuna di esse e la misura cautelare disposta dal comma 4-bis, ma soltanto a giudicare se sia irragionevole che la predetta "condotta", così come qualificata dal giudice rimettente, sia ritenuta "indice di sicura indegnità morale", considerando che, secondo lo stesso giudice, "il parametro della ragionevolezza deve essere, nel caso in esame, calibrato sia sulle caratteristiche e sulla gravità degli altri reati", ai quali la legge ricollega lo stesso provvedimento cautelare della sospensione, "sia sullo scopo perseguito dal legislatore" con le norme in oggetto.
3.1. Impostata in questi termini, la questione non è fondata.
La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente ribadito che le norme dell'art. 15 della legge n. 55 del 1990 e successive modificazioni perseguono finalità di salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, di tutela della libera determinazione degli organi elettivi, di buon andamento e trasparenza delle amministrazioni pubbliche, contro i gravi pericoli di inquinamento derivanti dalla criminalità organizzata e dalle sue infiltrazioni (sentenze n. 132 del 2001, n. 141 del 1996, n. 118 e n. 295 del 1994), coinvolgendo così esigenze ed interessi dell'intera comunità nazionale connessi a "valori costituzionali di rilevanza primaria" (sentenza n. 218 del 1993). I delitti per i quali l'art. 15 citato prevede -dopo la condanna definitiva- la decadenza o anche -in caso di condanna non definitiva- la sospensione obbligatoria dalla carica elettiva sono appunto qualificati, secondo la giurisprudenza costituzionale, non tanto dalla loro gravità in relazione al "valore" del bene offeso o all'entità della pena comminata, ma piuttosto dal fatto di essere considerati tutti dal legislatore come manifestazione di delinquenza di tipo mafioso o di altre gravi forme di pericolosità sociale, non irragionevolmente ritenendoli il legislatore stesso, nell'ambito delle proprie, insindacabili scelte di politica criminale, parimenti forniti di alta capacità di inquinamento degli apparati pubblici da parte delle organizzazioni criminali. Si giustifica in questo modo una disciplina molto rigorosa ispirata alla comune ratio di prevenire e combattere tali gravi pericoli allo scopo appunto di salvaguardare "interessi fondamentali dello Stato" (sentenze n. 206 del 1999 e n. 184 del 1994).
Questa disciplina è stata dunque formulata dal legislatore in modo unitario, pur prendendo in considerazione diverse figure di reato, proprio per realizzare un efficace strumento -secondo la precisazione contenuta nel titolo della legge- di "prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale", attraverso l'individuazione, sulla base di criteri omogenei, di una serie di reati la cui commissione è appunto valutata -di per sé stessa e senza distinzione alcuna- come indice di oggettiva pericolosità. In considerazione delle finalità che le norme in esame intendono perseguire e del ruolo ricoperto dai soggetti interessati, non appare dunque illogico che il legislatore, ai fini dell'applicazione della decadenza e della sospensione obbligatorie dalla carica elettiva, abbia dato esclusivo rilievo alla identificazione delle fattispecie di reato in questione, senza avere riguardo a valutazioni di stretta competenza del giudice del merito, che possano incidere sull'entità della pena. E non appare quindi arbitraria, per queste stesse ragioni, neppure la scelta legislativa di non tenere conto delle eventuali circostanze del reato.
D'altra parte, le disposizioni legislative denunciate sono state formulate nei termini indicati anche per evitare possibili censure di ingiustificata diversità di trattamento o situazioni di incertezza nell'applicazione della misura interdittiva o sospensiva, derivanti anche da soluzioni giurisprudenziali divergenti, che finirebbero per incrinare gravemente, in fatto, la pari capacità elettorale passiva dei cittadini, proclamata dall'art. 51 della Costituzione (sentenze n. 364 del 1996 e n. 280 del 1992).
Nel caso in esame, poi, trattandosi di sospensione, che è una misura sicuramente cautelare, non è comunque prospettabile, ad avviso della Corte, un'esigenza di proporzionalità rispetto al reato commesso, ma piuttosto rispetto alla possibile lesione dell'interesse pubblico causata dalla permanenza dell'eletto nell'organo elettivo: non si pone quindi un problema di "adeguatezza" della misura rispetto alla gravità del fatto, ma piuttosto rispetto all'esigenza cautelare (sentenza n. 206 del 1999). Sotto questo ultimo profilo non si può tuttavia negare al legislatore, nell'esercizio di una non irragionevole discrezionalità, la facoltà di effettuare il necessario bilanciamento degli interessi coinvolti, identificando ipotesi circoscritte nelle quali l'esigenza cautelare su cui si basa la sospensione è apprezzata in via generale ed astratta, anziché essere rimessa alla valutazione in concreto dell'amministrazione interessata, così come è apprezzato in via generale ed astratta l'ambito di applicazione della misura cautelare in relazione ai soggetti e al nesso tra la condanna non definitiva e le funzioni elettive svolte. E l'apprezzamento del legislatore si fonda essenzialmente sul sospetto di inquinamento o, quanto meno, di perdita dell'immagine degli apparati pubblici, che può derivare dalla permanenza in carica del consigliere eletto, che abbia riportato una condanna, anche se non definitiva, per i delitti indicati.
In ogni caso, nelle ipotesi legislative di decadenza ed anche di sospensione obbligatoria dalla carica elettiva previste dalle norme denunciate non si tratta affatto di "irrogare una sanzione graduabile in relazione alla diversa gravità dei reati, bensì di constatare che è venuto meno un requisito essenziale per continuare a ricoprire l'ufficio pubblico elettivo" (sentenza n. 295 del 1994), nell'ambito di quel potere di fissazione dei "requisiti" di eleggibilità, che l'art. 51, primo comma, della Costituzione riserva appunto al legislatore. Oltre tutto, la misura cautelare in oggetto, proprio perché finalizzata a proteggere l'interesse pubblico nelle more dell'accertamento giudiziale definitivo, è contenuta in limiti di durata che non appaiono irragionevoli, prevedendo il comma 4-bis del citato art. 15 che la sospensione cessa di diritto di produrre effetti, decorsi rispettivamente diciotto o dodici mesi, a seconda che si tratti di sentenza di condanna di primo grado o d'appello.
In definitiva, i dubbi di costituzionalità prospettati dal giudice a quo appaiono, anche alla luce dei consolidati orientamenti giurisprudenziali di questa Corte, infondati. Da un lato, infatti, non sussiste la violazione dell'art. 51 della Costituzione, poiché la condanna per uno dei reati in questione è configurabile come il venir meno di un requisito soggettivo -stabilito dal legislatore- per la permanenza nella carica elettiva; dall'altro lato, non sussiste neppure la violazione del canone di ragionevolezza sia in riferimento alle finalità che le norme censurate perseguono, sia nel raffronto con le altre figure di reato prese unitariamente in considerazione dalle stesse norme.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, commi 1 lettera a), 4-bis lettera a), e 4-ter della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), ora sostituiti dall'art. 58, comma 1 lettera a), e dall'art. 59, comma 1 lettera a), e comma 4 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione, dal Tribunale di Roma, seconda sezione civile, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,   l'11  febbraio 2002.
F.to:
Cesare RUPERTO, Presidente
Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 febbraio 2002.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA