No Global -rispetto dei diritti inviolabili - i fatti presso la caserma Raniero - sequestro di persona

01/01/2003 No Global -rispetto dei diritti inviolabili - i fatti presso la caserma Raniero - sequestro di persona

No Global - rispetto dei diritti inviolabili - i fatti presso la caserma Raniero - sequestro di persona (Corte di Cassazione, Sezione Sesta penale, sentenza n.1808/2003)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

RILEVATO IN FATTO

La vicenda ora all’esame della Corte riguarda diversi abusi che sarebbero stati posti in essere da appartenenti alla Polizia di Stato nei confronti di taluni dei partecipanti alla manifestazione contro la globalizzazione, organizzata a Napoli il 17 marzo 2001 e, più in particolare, il prelevamento dal pronto soccorso degli ospedali cittadini di coloro che la mattina di quel giorno si erano fatti medicare, per essere poi convogliati alla Caserma Raniero, luogo designato per l’attività di perquisizione e identificazione di persone che avevano partecipato alla manifestazione.

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, con ordinanza 24 aprile 2002, aveva adottato la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di S. C. e C. F., funzionari responsabili designati dal dirigente della squadra mobile con il compito specifico di coordinare l’attività di perquisizione e di controllo, l’uno per il turno dalle 8 alle 14, l’altro per il turno dalle 14 alle 20; di B. P., sovrintendente capo, di A. F., ispettore, di P. M. e di P. L., assistenti, di I. F., agente scelto, anch’essi in servizio presso la squadra mobile di Napoli, impegnati il giorno dei fatti presso la caserma Raniero.

Ai predetti venivano addebitati i reati di sequestro di persona aggravato perché, nello svolgimento delle funzioni di polizia connesse alle attività di fermo, trasporto, vigilanza custodia, perquisizione, ispezione, fotosegnalamento dei manifestanti, li privavano della libertà personale, in violazione delle disposizioni di cui all’art. 4 della legge 22 maggio 1975 n. 152 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza ed agli artt. 349, 352, 354 c.p.p. [1], facendo un uso illegittimo dei poteri di costrizione inerenti al ruolo da ciascuno ricoperto.

Secondo il provvedimento coercitivo costoro, infatti, dopo aver prelevato ingiustificatamente i manifestanti dagli ospedali cittadini in cui essi si erano recati per farsi medicare, li conducevano illegittimamente alla caserma Raniero, li trattenevano per un rilevante lasso di tempo, li costringevano a lungo inginocchiati con la faccia la muro e le mani dietro la testa, li minacciavano ripetutamente di violazione alla persona, li colpivano ed ingiuriavano reiteratamente, effettuavano perquisizioni e sequestri in violazione delle disposizioni del codice di procedura penale e delle leggi speciali che regolano la materia, li sottoponevano a fotosegnalamento, impedivano loro di comunicare all’esterno della caserma e di ottenere l’assistenza e l’accesso ai difensori, in tal modo cagionando, istigando o comunque non impedendo ulteriori ingiustificate d illegittime privazioni della libertà personale (capo B); nonché dei reati di violenza privata aggravata perché, mediante violenza e minaccia, consistente nel colpire, o comunque nell’istigare a colpire e nel non impedire l’evento, con schiaffi e manganellate alcune delle persone condotte nella caserma Raniero, nel minacciarle di morte e di gravi rappresaglie per il fatti aver preso parte alla manifestazione svoltasi nella mattinata, costringevano svariati partecipanti alla manifestazione a inginocchiarsi con la faccia rivolta verso il muro e le mani dietro la testa, ad obbedire a tutti gli ordini illegittimi che venivano impartiti ed a subire il comportamento arbitrario da loro tenuto; in particolare, a tollerare le ispezioni e le perquisizioni illegittime, la altrettanto illegittima attività di fotosegnalazione, ad essere costretti a non comunicare tra loro e con l’esterno con i propri familiari e con i difensori, a sopportare le lesioni, le percosse, le ingiurie, i danneggiamenti e i maltrattamenti commessi durante le perquisizioni, la sottrazione, in taluni casi, del materiale informativo inerente alla manifestazione, a subire espresse diffide a non prendere parte ad analoghe manifestazioni (Capo C); di lesioni personali aggravate in danno di soggetti prelevati dagli ospedali e condotti nella caserma Raniero (capi D, F, G, quest’ultimo contestato a S., B., P. e I., capo H, contestato a S., C., B., P., I. e A., capo M, contestato a S., C., B., P., I. e A., capo O, contestato a B.,).

L’ordinanza impositiva riteneva sussistente il grave quadro indiziario a carico degli indagati sulla base delle dichiarazioni rese, no soltanto dai soggetti denunciati ma anche da coloro, e sono la grande maggioranza, che all’esito della perquisizione sono stati congedati senza alcuna segnalazione; soggetti estremamente cauti nell’effettuare i riconoscimenti fotografici, le cui dichiarazioni hanno ricevuto conforto da riscontri obiettivi oltre che dalla stessa documentazione trasmessa dalla Questura (doppia perquisizione subita da uno dei giovani, mancato rinvenimento di alcuni verbali di perquisizione e di taluni rilievi fotografici).

Scendendo alla qualificazione dei fatti, il Giudice per le indagini preliminari ha ritenuto sussistenti gravi indizi di colpevolezza quanto al reato di sequestro di persona.

Premesso che risultano assenti i presupposti, evocati in vari atti che avrebbero giustificato l’operazione, quelli cioè, richiesti dall’art. 4 della legge 22 maggio 1975, n. 152, sia perché a carico delle persone prelevate dagli ospedali non vi era altro elemento che l’aver riportato lesioni sia perchè comunque la loro identificazione ed eventuale perquisizione avrebbe potuto essere effettuata presso i drappelli, l’ordinanza impositiva segnala, non soltanto il forzato indiscriminato trasferimento nella caserma Raniero sia dei soggetti che avevano riportato lesioni sia di quelli che avevano accompagnato costoro, ma anche le modalità con le quali furono effettuate le operazioni di identificazione, perquisizione ed il tempo di restrizione della libertà personale conseguente al compimento di un’attività già di per se arbitraria; senza contare che nessuna comunicazione alla Procura della Repubblica risulta effettuata. In conclusione, sussisterebbero gravi indizi di colpevolezza sulla circostanza che la volontà degli appartenenti alle forze dell’ordine era stata quella di tenere in una situazione di soggezione e di vincolo le persone che avevano partecipato alla manifestazione, per questo solo fatto, meritevoli di una punizione, sottraendo all’autorità giudiziaria ogni possibilità di verifica sull’operato della polizia.

Le esigenze cautelari venivano indicate dal provvedimento coercitivo in quelle di cui all’art. 274, lett. c, c.p.c., con riferimento alla gravità dei fatti, desumibile dalla massiccia organizzazione per compiere atti illeciti, di notificazione morale e materiale nei confronti di soggetti già infortunati, nonché in relazione alla negativa personalità degli indagati, che hanno dimostrato la tendenza ad abusare della loro qualità di pubblici ufficiali ai danni della collettività, spinti dal solo desiderio di violenza; una violenza, per di più, non manifestatasi nel corso scontri ma all’interno di una caserma, in assenza di ogni provocazione e ai danni di giovani inermi.

Inoltre i contatti degli indagati fra loro e con altri agenti non ancora identificati, andrebbero recisi per evitare reiterazioni di condotte criminose analoghe, pure per il rischio di vendette verso coloro che hanno accusato gli appartenenti alla Polizia di Stato. A seguito di richiesta di riesame degli indagati, il Tribunale di Napoli, con ordinanza 11 maggio 2002: relativamente a P.M. annullava il provvedimento impositivo in ordine ai reati di sequestro di persona e di lesioni personali in danno di A.L. (capo F) e revocava la misura cautelare, per assenza delle esigenza cautelari con riferimento agli altri reati; relativamente a P. L. annullava il provvedimento impositivo limitatamente al reato di sequestro di persona a revocava, per il resto, la misura cautelare per l’assenza delle esigenze cautelari; relativamente ad I. F. annullava il provvedimento impositivo in ordine ai reati di sequestro di persona, di lesioni personali in danno di A. L. (capo F), di O.V. (capo G) e di N: G. (capo H), e revocava, per il resto, la misura per l’assenza delle esigenze cautelari; relativamente a B. P., annullava il provvedimento impositivo in ordine ai reati di sequestro di persona, di lesioni personali in danno di A. L. (capo F), di O. V. (capo G), di V. N. (capo M) e di R. F. (capo O), e revocava, per il resto, la misura per l’assenza delle esigenze cautelari; relativamente a S. C., annullava l’ordinanza impugnata con riferimento ai reati di sequestro di persona, di lesioni personali in danno di A. L. (capo F) e revocava, per il resto, la misura per l’assenza delle esigenze cautelari; relativamente a A. F. annullava l’ordinanza impugnata con riferimento ai reati di sequestro di persona, di lesioni personali in danno di N. G. (capo H), e revocava, per il resto, la misura per l’assenza delle esigenze cautelari; relativamente a C. F. annullava l’ordinanza impugnata con riferimento ai reati di sequestro di persona e revocava, per il resto, la misura per l’assenza delle esigenze cautelari.

Circa l’annullamento concernente tutti gli indagati con riferimento al delitto di cui all’art. 605 c.p., il Tribunale osservava che dal complesso delle fonti di prova era emerso che l’ordine di trasportare in caserma le persone prelevate dai drappelli di polizia presso gli ospedali era stato improvviso e dettato dallo stato di particolare emergenza determinato dagli scontri di piazza: un ordine resosi necessario al fine di individuare i possibili responsabili dei fatti illeciti verificatisi nel corso della manifestazione, non essendosi potuto procedere ad alcun fermo o arresto in loco per ragioni di sicurezza e di tutela dell’ordine pubblico; che l’opera di individuazione si sarebbe concentrata, fra l’altro, nei confronti di coloro che avevano dovuto ricorrere presso gli ospedali; che la circostanza che molte delle persone prelevate dai drappelli fossero state identificate e in taluni casi anche sommariamente perquisiti, non convaliderebbe la tesi accusatoria perché la particolare contingenza operativa rendeva giustificabili ulteriori, più approfondite verifiche da svolgersi anche in collegamento con il personale addetto all’ordine pubblico, direttamente operante in piazza; che il fatto che siano state prelevate anche persone che no si erano fatte medicare ma che si erano limitate ad accompagnare i feriti non andrebbe designato quale indice di una univoca e preordinata volontà di prevaricazione delle forze dell’ordine nei confronti di soggetti inermi, pur essendo stato l’ordine di prelevamento adottato per i soli feriti; che, dunque, la disposizione impartita seppure orale e priva dei formali requisiti, poteva essere ritenuta legittima e, pertanto, non suscettibile di essere sindacata dagli esecutori della stessa; che le operazioni di polizia giudiziaria di identificazione, perquisizione, sequestro e fotosegnalamento, pure se svolte in palese violazione di norme penali, con abuso di autorità da parte degli operanti, senza informare il P M, e senza che gli venissero trasmessi nei termini i relativi verbali e senza consentire contatti con i difensori, non appaiono sufficientemente sintomatiche per connotare l’operazione in contestazione nei termini ritenuti dal giudice della cautela, non potendosi fondatamente ritenere che tutta l’operazione fosse finalizzata a tenere in una situazione di soggezione e di vincolo soggetti rei di aver partecipato alla manifestazione e, pertanto meritevoli di una punizione al di la di quanto consentito dalla legge e al di fuori di ogni possibile verifica dell’autorità giudiziaria, e non, piuttosto, a porre in essere una attività di polizia consentita dalla legge ed attuata con modalità irrituali e illecite; che la fonte normativa legittimante simili operazioni ed alla quale era stato fatto corretto richiamo nei verbali di perquisizione, andava individuata nel disposto dell’art. 4 della legge n. 152 del 1975; che il trasporto delle persone nella caserma Raniero era ritenere legittimo perché l’immediata perquisizione sul posto evocata dal ricordato art. 4, può, secondo la giurisprudenza di questa Corte, essere legittimamente continuata e completata nella sede dell’ufficio di polizia; che l’art. 4 della legge n. 152 del 1975 deve ritenersi tuttora vigente per una variegata serie di ragioni; che, infine, non sarebbe indicativo in ordine alla configurabilità del reato di sequestro di persona, il fatto che i giovani sarebbero stati per lungo tempo in caserma, considerato l’alto numero delle persone prelevate e che le operazioni di fotosegnalamento, non predisposte, vennero iniziate solo alle 17, 30.

In punto di esigenze cautelari, il Tribunale, premesso che il Giudice per le indagini preliminari aveva ordinato la cautela evocando soltanto quelle di cui all’art. 274, lett. c, e che, irritualmente, il Pubblico ministero aveva insistito anche sulle esigenze di cui alla lett. a dello stesso art. 274, le riteneva comunque entrambe insussistenti.

Relativamente alle prime ci si sofferma, anzi tutto, sul ridimensionamento dell’accusa derivante dall’annullamento dell’ordinanza impugnata con riguardo al delitto di sequestro di persona, per poi rimarcare la personalità degli indagati, il tempo decorso dalla consumazione dei reati, l’assenza di ogni atto di intimidazione nei confronti di coloro che avevano formulato le accuse, sia prima che dopo l’adozione della misura coercitiva. Si sarebbe, trattato, cioè, di un evento del tutto eccezionale, comprovato dalla situazione di emergenza che contrassegnò il giorno della manifestazione.

Quanto alle seconde, non sarebbe emerso nessuno specifico elemento da cui desumere la concreta possibilità degli indagati di incidere negativamente sulle attività investigative.

In punto di gravi indizi di colpevolezza si censura l’ordinanza impugnata nella parte in cui ha fatto richiamo, per ritenere legittima l’operazione, all’art. 4 della legge n. 152 del 1975; una norma espunta dal sistema, alla stregua dell’art. 35 della legge stessa, nonostante il richiamo ad essa operato da disposizioni successive; in ogni caso, ove tale norma dovesse ritenersi tuttora vigente, atterrebbe ad attività di pubblica sicurezza e non ad attività di polizia giudiziaria quale quella arbitrariamente posta in essere dagli operanti; sarebbe stato assente, dunque, ciascuno dei presupposti richiesti dalla norma in parola; senza contare l’attività concretamente posta in essere nella caserma Raniero, l’impedimento di ogni possibilità di movimento da parte dei giovani, il loro isolamento anche telefonico, costituente ulteriore limitazione della libertà personale, non potendo correttamente richiamarsi le previsioni degli artt. 606, 609 c.p.

In punto di esigenze cautelari, l’ufficio ricorrente contesta che non si sia tenuto conto di quelle inerenti alla prova, in ordine alle quali si era pure insistito nel corso dell'udienza e l’assoluta evanescenza delle argomentazioni dell’ordinanza impugnata relativamente a quelle incentrate sulla reiterazione.

Ha proposto ricorso C.F., con atto sottoscritto dall’avv. A. F. Dopo aver contestato le argomentazioni contenute nell’impugnazione del Pubblico ministero, in ordine al delitto di sequestro di persona, impugnazione di cui si chiede venga dichiarata l’inammissibilità, il ricorrente domanda l’annullamento dell’ordinanza denunciata con rinvio, per nuovo giudizio in ordine all’esame delle singole posizioni di ciascuno degli indagati relativamente ai delitti di violenza privata (capo C), nonché alla sussistenza dell’elemento materiale del delitto di percosse, ovvero di lesioni aggravate (capi D,H e M).

In prossimità dell’odierna udienza l’avv. E. C., nell’interesse del S., ha depositato una memoria difensiva nella quale contesta gli argomenti contenuti nel ricorso del Pubblico ministero in punto sia di gravi indizi di colpevolezza sia di esigenze cautelari.

OSSERVA IN DIRITTO

Il ricorso del Pubblico ministero è inammissibile. L’Ufficio ricorrente ha a lungo insistito sull’utilizzazione da parte del provvedimento denunciato, per pervenire ad affermare l’insussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di sequestro di persona, di una noma ormai espunta dall’ordinamento, vale a dire l’art. 4 della legge n. 152 del 1975.

Osserva la Corte che, pur essendo corrette talune delle argomentazioni contenute nel ricorso, le doglianze articolate sul punto risultano nel loro complesso, se riferite al caso concreto, manifestamente prive di fondamento.

La norma ora ricordata stabilisce al suo comma 1: in casi eccezionali di necessità e di urgenza, che non consentono un tempestivo provvedimento dell’autorità giudiziaria, gli ufficiali ed agenti della polizia giudiziaria e della forza pubblica nel corso di operazioni di polizia possono procedere, oltre che all’identificazione, all’immediata perquisizione sul posto, al solo fine di accertare l’eventuale possesso di armi, esplosivi e strumenti di effrazione, di persone il cui atteggiamento e la cui presenza in relazione a specifiche circostanze di luogo e di tempo non appaiono giustificabili.

La caducazione della norma in parola deriverebbe dall’espressa prescrizione dell’art. 35 della stessa legge secondo cui le disposizioni processuali della presente legge si applicano sino all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. Ma, va rammentato che, mentre l’art. 207 delle norme di coordinamento c.p.p. significativamente prescrive che le disposizioni del codice si osservano nei procedimenti relativi a tutti i reati anche se previsti da leggi speciali, salvo quanto diversamente stabilito in questo titolo e nel titolo III, il seguente art. 225, sotto la rubrica Perquisizioni domiciliari, stabilisce, continuano ad osservarsi le disposizioni dell’art. 41 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 e dell’art. 33 della legge 7 gennaio 1929, n. 4.

Diviene decisivo allora individuare la ratio a base di tali prescrizioni, solo ricordando il contenuto delle Osservazioni governative sull’art. 16- ter del progetto definitivo delle norme di coordinamento (la norma che sarebbe poi divenuta l’art. 225 del testo definitivo).

Tali Osservazioni avevano rimarcato come la ultravigenza dei due tipi di perquisizione indicati dalle rispettive leggi speciali si era resa necessaria perché altrimenti sarebbe stato possibile ritenere la caducazione dei due istituti che hanno carattere processuale e per i quali vale pertanto il regime dettato dall’art. 1 delle disposizioni di coordinamento (l’art. 207 del testo definitivi).

La ragione di una simile scelta è agevolmente riscontrabile nel rilievo secondo cui non si è ritenuto, invece di dettare espresse disposizioni per gli istituti a carattere preventivo tra i quali, in particolare, va annoverata anche la c.d. perquisizione sul posto disciplinata dall’art. 4, legge 152 del 1975. Precisandosi, ancor più significativamente che essa rappresenti una disposizione processuale e non rientri perciò fra quelle disposizioni , contenute nella citata legge del 1975 la cui applicazione (art. 35 L. cit.) è consentita fino all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale.

L’attuale vigenza della disposizione in questione risulta, poi, confermata da una serie di precetti, successivi all’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988, che ad esso espressamente di richiamano; si tratta, più in particolare, dell’art. 27 della legge 19 marzo 1990, n. 55, recante Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di pericolosità sociale, e dell’art. 1, comma 2, del decreto legge 25 luglio 1992, n. 349, convertito dalla legge 23 settembre 1992, n. 386, recante Misure urgenti per contrastare la criminalità organizzata in Sicilia.

La natura di attività processuale della c.d. perquisizione sul posto era stata, del resto, già affermata dalla Corte costituzionale. Con sentenza n. 261 del 1983, il giudice delle leggi, nel dichiarare inammissibile per difetto di rilevanza la questione di legittimità, in riferimento agli artt. 13 e 24 della Costituzione, dell’art. 4 della legge 22 maggio 1975, n. 152, ebbe a precisare che si versa nel caso eccezionale di necessità ed urgenza ivi configurato, che legittima l’esercizio dell’attività di polizia, anche nella sfera della prevenzione; un modello, dunque, estraneo e irriducibile al sistema del processo penale; tanto da non ritenere neppure ipotizzabile la violazione del diritto di difesa; così concludendo in merito alla richiesta estensione al caso di specie delle garanzie previste dal codice di procedura penale: ammesso pure che il perquisito non sia stato avvertito della possibilità di farsi assistere da un difensore, e che il difensore non fosse presente nel luogo in cui sono intervenuti gli organi perquisenti, ciò non implicherebbe la nullità della perquisizione. E, dunque, nemmeno la nullità di tutti gli atti successivi.

Tanto premesso, rileva il Collegio che l’avere l’autorità di polizia qualificato la complessiva attività posta in essere come perquisizione sul posto non consente, allo stato, una penetrante analisi in ordine alla legittimità delle operazioni su cui si è a lungo soffermato il Pubblico ministero.

Tanto più che dall’esame dell’addebito di cui al capo B), interlocutoriamente elevato a carico degli attuali indagati, solo una parte dell’attività illegittimamente eseguita sarebbe loro direttamente riferibile.

Senza voler qui anticipare considerazioni che appartengono alla esclusiva competenza del giudice della cognizione, questa Corte ritiene necessario puntualizzare di essere, allo stato, investita unicamente dei fatti verificatisi all’interno della caserma Raniero e della qualificazione ad essi attribuita dal giudice del riesame. Una qualificazione in questa sede non contestabile, in quanto un diverso avviso presupporrebbe un indebito dilatarsi dello scrutinio demandato al Collegio verso un’indagine necessariamente debordante nel meitum causae secondo un paradigma precluso al giudice di legittimità.

In effetti, una volta assodata l’ultravigenza del precetto di cui il Pubblico ministero ha così categoricamente affermato la perenzione, fino a profilare che una diversa linea ermeneutica comprometterebbe l’osservanza dell’art. 13 della Costituzione, rimane ineludibile il rilievo che, mentre, per un verso, la cognizione cautelare così delimitata se non è in grado escludere perentoriamente un diverso avviso del giudice di merito in ordine alla configurabilità del delitto di cui all’art. 605 c.p., per un altro verso, non consente, e sarebbe davvero un modello esorbitante dai compiti demandati a questa Corte Suprema, di pervenire ad una complessiva riqualificazione della vicenda sottoposta al vaglio di legittimità sia per l’assenza di ogni verifica della preordinata attività di prelevamento dagli ospedali cittadini e delle conseguenti eventuali responsabilità, neppure prospettate, sia per l’impossibilità di ravvisare una netta separazione tra attività di prelevamento e asserite ulteriori privazioni della libertà personale consumate nella Caserma Raniero.

L’esame dell’ordinanza impugnata, che ha chiamato in causa l’art. 4 della legge n. 152 del 1975, rivelava, però, talune contraddizioni tutte intrinseche al provvedimento denunciato e che appare necessario evidenziare proprio considerando le censure proposte dall’Ufficio ricorrente.

Il giudice a quo, dopo aver precisato che presso la caserma si è proceduto a svolgere operazioni di polizia giudiziaria di identificazione, perquisizione, sequestro e fotosegnalamento di quasi tutte le persone ivi condotte e che tali attività, seppure svolte in palese violazione di norma penali, con abuso di autorità da parte degli operanti non integrano l’ipotesi di reato ravvisata dal giudice della cautela, così conclude: quanto ai riferimenti normativi, in base ai quali l’operazione in esame sarebbe stata ordinata e realizzata, il collegio ritiene che essa posa essere inquadrata nella fattispecie di cui all’art. 4 L. 152/75, peraltro richiamata in quasi tutti i verbali di perquisizione. Secondo il provvedimento denunciato l’attività posta in essere dagli indagati mentre, da un lato, parrebbe iscrivere il complessivo contesto nell’area di una vera e propria operazione di polizia giudiziaria, tendente, dunque, ad accertamenti post delictum, dall’altro lato, impropriamente richiamando l’art. 4 della legge n. 152 del 1975, postula, invece, l’espletamento di compiti di tipo esclusivamente preventivo.

Ne discende una presa di posizione che, senza che ne risulti compromessa la correttezza del decisum, fa emergere palesi antinomie.

Tali antinomie, forse direttamente conseguenti all’accertamento della superficialità nella scelta dei concreti modelli di riferimento culminati nella (almeno apparente) assenza di esatta cognizione del discrimine fra attività prevenzione e attività di polizia giudiziaria da parte di chi diede l’ordine di procedere a perquisizioni sul posto, assume valenza significativa per i richiamo a tale procedura da parte di ciascuno dei verbali redati dagli operanti.

Il tutto pur dovendo la detta attività, almeno secondo il convincimento del giudice a quo cui non è di ostacolo il richiamo all’art. 4 della legge n. 152 del 1975, essere qualificata come diretta all’accertamento di fatti di reato ed alla individuazione dei responsabili di essi.

Non a caso, infatti, l’ordinanza oggetto di censura sembra incentrare la sua ratio decidendi anche sulla disposizione dell’art. 349 c.p.p. concernente l’identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, segnalando che l’operazione si concluse con l’espletamento dei rilievi indicati nel comma 2 di tale articolo.

Va però chiarito che se tali considerazioni impongono alla Corte un’interpretazione correttiva della decisione qui impugnata, le censure formulate dall’Ufficio ricorrente non consentono, tenuto conto della sede in cui la vicenda viene all’esame, ulteriori rilievi che siano compatibili con il presente giudizio di legittimità.

Un dato rimane, allo stato, sufficientemente argomentato, almeno ai fini che qui direttamente interessano, dal giudice a quo: che, cioè, l’operazione posta in essere mediante il prelievo delle persone che si erano fatte medicare nei vari ospedali (e di chi tali persone aveva accompagnato, così rivelando il clima, oltre che di assoluta approssimazione, anche di insensibilità per il rispetto dei diritti inviolabili della persona, che contraddistinse l’operazione nel suo complesso), era diretta alla identificazione dei soggetti ritenuti responsabili di atti di violenza e di minaccia nei confronti delle forze dell’ordine durante la manifestazione.

Ma, dopo tale premessa, il provvedimento impugnato ha osservato che i manifestanti furono ristretti nella caserma Raniero per il tempo necessario alla loro identificazione; e se è vero che si trattava di soggetti già identificati dai drappelli e che la durata della permanenza nei locali può apparire del tutto sproporzionata rispetto all’attività da compiere, è anche vero che presso la caserma fu eseguito il fotosegnalamento, sevizio non predisposto preventivamente.

Tutto ciò, va aggiunto, con grave leggerezza da parte dei responsabili, ciascuno per i periodi considerati, perché era evidente che in tal modo i fermati non sarebbero, certo, rimasti in caserma per il tempo necessario alla loro identificazione.

È significativo rammentare che, secondo quanto argomentato dall’ordinanza denunciata, il dott. b., capo della polizia scientifica, ha dichiarato di essere stato chiamato solo verso le 17, 30.

Così, contrariamente alle premesse, da concludere per una valutazione dell’operazione compiuta nella caserma Raniero in termini di attività di polizia giudiziaria; tanto da descrivere la complessiva operazione come esercizio, sia pure abnorme, di compiti funzionali connessi alla individuazione di coloro che si erano resi responsabili dei disordini verificatisi nel corso della mattinata.

Se è vero, però, che la privazione della libertà personale, dunque, l’originaria qualificazione dei fatti di specie, è concretamente ipotizzabile, nonostante l’interlocutorietà degli addebiti trascini verso sovrapposizioni di fatti reato che in sede cognitoria potrebbero risultare del tutto incompatibili, è anche vero che no può ritenersi colpita ne da violazione di legge ne da manifesta illogicità della motivazione quella parte del provvedimento denunciato che accenna ad una abuso di potere inerente alle funzioni non necessariamente caratterizzato dalla prava volontà di tenere la vittima nella sfera di un privato domino; potendo un simile effetto essere designato esclusivamente dall’esigenza, perseguita con modalità sconfinanti nell’abuso di potere solo in parte concretatosi in atti di violenza e di minaccia, rilevanti ad altro titolo, di realizzare l’identificazione e la perquisizione di coloro che risultavano indagati per i fatti commessi in danno delle forze dell’ordine. Il che se sembrerebbe lasciare integro l’elemento oggettivo del reato di cui si invoca , da parte dell’Ufficio ricorrente, il reingresso a fini cautelari (cfr. Sez. I, 24 maggio 1982, osa; Sez. I, 27 gennaio 1992, confl. comp.) potrebbe incidere sulla configurabilità dei gravi indizi di colpevolezza quanto all’elemento soggettivo del reato stesso.

D infatti, perché si realizzi l’elemento soggettivo del reato di sequestro di persona è necessario che il fatto di privare taluno della libertà personale si a illegittimo; un attributo previsto espressamente dal codice del 1889, che peraltro costituisce il presupposto logico del reato, tanto che il legislatore del 1930 ha ritenuto superfluo menzionarlo nell’art. 605 c.p. (v. la Relazione ministeriale sul progetto del nuovo codice penale, 1929, II, p. 414; Sez. V, 24 febbraio 1993, Notari).

Il che ha trovato conferma nella giurisprudenza di questa Corte nel senso che il sequestro di persona non richiede un dolo specifico, ma solo il dolo generico consistente nella consapevolezza di infliggere alla vittima una illegittima restrizione della sua libertà fisica, intesa come libertà di locomozione (v. Sez. II, 18 gennaio 1985, Morabito; Sez. II, 7 maggio 1985, Notari; Sez. I, 4 giugno 1985, Iaffaldano).

Dal punto di vista dell’elemento soggettivo, infatti, il fine perseguito dall’agente resta connotato per divenire irrilevante, salvo espresse previsioni di scopo, ogni profilo che si fondi su elementi di carattere negativo; che se, invece, il fine sia quello di realizzare un risultato derivante dall’esercizio di un potere, deve escludersi che ricorra il delitto previsto dall’art. 605 c.p. E ciò per l’erronea convinzione circa la legittimità del comportamento, pure se, come nella specie, provocata da un grave fraintendimento nell’interpretazione delle norme che proprio gli indagati erano tenuti ad applicare.

Senza contare che la Caserma Raniero era stata individuata nel corso di una riunione tenuta in Questura il giorno prima come il luogo ove condurre per accertamenti i fermati o gli arrestati nel corso della manifestazione e ove svolgere gli eventuali approfondimenti delle responsabilità individuali a carico delle persone coinvolte nel corso del corteo, e che all’operazione, come ha chiarito l’ordinanza impugnata, si era proceduto a seguito di una disposizione orale, diramata da capo di gabinetto della Questura di Napoli, destinata alle unità operative dei servizi della Polizia di Stato, contenete l’ordine di trasportare le persone che si erano recate nei nosocomi per farsi medicare, presso tale caserma.

Il tutto assume valenza significante esclusivamente con riguardo al trasferimento in massa dagli ospedali alla caserma ed alla permanenza dei giovani in tale luogo fino all’esecuzione delle operazioni di fotosegnalamento; ed, a tale riguardo, la cognizione di questa Corte rimane limitata da un ambito qualificatorio tuttora privato di assoluta univocità; fermo restando il grave quadro indiziario (per quel che in questa sede rileva) per i reati di violenza privata e di lesioni personali aggravate, secondo le puntualizzazioni del Tribunale del riesame.

Va solo ricordato come il problema della qualificazione si esaurisca sul piano puramente probatorio con margini di sindacato estremamente ristetti che, venendo in considerazione non l’atto ma il comportamento, possono far assumere alla disciplina di riferimento solo significato di mero sintomo, apprezzabile dal giudice di merito, di una determinata tipologia di condotta descritta dalla norma penale. Può dirsi così che se l’attività del pubblico ufficiale si sostanzia nel mero comportamento privo di ogni legame con l’attività istituzionale ad esso demandata, la condotta non può che connotarsi dell’elemento soggettivo del reato di sequestro di persona, perché esso si traduce in un contegno volto al perseguimento della privazione della libertà per fini personali dell’agente; se, invece, il comportamento, per quanto palesemente illegittimo, resti contrassegnato dalla finalità di realizzare l’esercizio del potere conferito, la condotta rimane caratterizzata dall’assenza dell’elemento soggettivo.

Un dato che risulta adeguatamente rimarcato dall’ordinanza impugnata, nell’ambito di una tematica che resta, come tale, circoscritta alla valutazione della fonte di prova, allorchè ha puntualizzato, come, una volta compiute, sia pure con grave ritardo, le operazioni necessarie per la loro identificazione, i giovani tradotti in caserma furono rilasciati; peraltro inopinatamente richiamando, per implicito, disposizioni di natura processuale, quali quelle connesse al compimento di attività di polizia giudiziaria.

In conclusione , il ricorso del Pubblico ministero deve essere dichiarato inammissibile in quanto volto a perseguire solo un mutamento della qualificazione dei fatti di cui al capo B) e non anche a censurare la motivazione dell’ordinanza impugnata per la parte relativa alla verifica, secondo i principi processuali che devono guidare un rigoroso discorso argomentativo, della sussistenza dei fatti di cui si chiede la riqualificazione; ritenuti, invece, esistenti nel loro complesso, con l’attribuzione, allo stato, di un nomen iuris che, nonostante le già rilevate contraddizioni, non appare trasmodare nella mancanza e nella manifesta illogicità della motivazione o nella violazione della legge penale, secondo il modello indicato nell’art. 606 c.p.p.

Tanto più che, come si è in precedenza rilevato, la trama complessiva delle doglianze non pare eccedere dall’ambito qualificatorio secondo un astratto profilo di censura fondamentalmente incentrato sull’affermata espressa caducazione dell’art. 4 della legge n. 152 del 1975.

In tema di esigenze cautelari, il giudice a quo ha correttamente argomentato circa l’insussistenza sia di quelle indicate dalla lettera c) sia di quelle indicate dalla lettera a) dell’art. 274. Ha, più in particolare, chiarito, con giudizio di fatto incensurabile in questa sede, l’eccezionalità dell’evento che determinò i gravi abusi per i quali è stata disposta la custodia cautelare degli inquisiti, il tempo trascorso dalla commissione del fatto e la sospensione dal servizio di tutti gli indagati in conseguenza dell’adozione del provvedimento custodiale; un dato, quest’ultimo, è opportuno sottolinearlo, assai rilevante, considerata l’esigenza chiamata in causa, perché essa si è tradotta in una sorta di interdizione dal pericolo di reiterazione della condotta, non conseguibile, certo, solo utilizzando il regime delle misure interdittive previste dalla disciplina codicistica. Sulle esigenze di natura probatoria, peraltro già disattese dal giudice della cautela, l’ordinanza denunciata si è espressa con insindacabile giudizio di merito.

Va solo aggiunto che, pure trascurando ogni problematica connessa alla ritenuta insussistenza delle condizioni indicate nell’art. 274, lett. a), da parte del provvedimento impositivo, tali esigenze non possono assumere, certo, ora, valenza esponenziale, in assenza di alcuno specifico elemento diverso da mere affermazioni di principio non sorrette da concreti presupposti di fatto che possano assumere una qualche significazione alla stregua del precetto dell’art. 274 c.p.p., al fine di ravvisare mancanza o manifesta illogicità della motivazione del provvedimento denunciato.

D’altro canto, le censure del Pubblico ministero ricorrente, nonostante il complesso loro articolarsi, eludono il combinato disposto dagli artt- 581, comma 1, lett. c), c.p.p. e 591, comma 1, lett. c), dello stesso codice, perché (salvo talune situazioni, alle quali, peraltro, si addebita, anche qui solo genericamente, un concreto pericolo di reiterazione) appaiono svincolate dalla posizione dei singoli soggetti indagati; il ricorso sembra, infatti, basato su un complessivo e, per ciò solo, generico, richiamo ad uno schema- tipo in grado di poter valere per ciascuno degli inquisiti che, rivestendo una determinata qualità funzionale, abbia commesso uno dei fatti addebitati.

Le doglianze, non apparendo, dunque, contrassegnate dal necessario requisito della specificità devono essere dichiarate inammissibili.

Il ricorso proposto dal C., volto, come appare, a porre in discussione la valutazione dei fatti e delle fonti di prova cpompiuta con sostanziale rigore dal giudice a quo relativamente alle ipotesi di reato residue, rimane, allo stato, designato dall’essere volto a far valere censure non consentite in sede di legittimità alla stregua dell’art. 606, comma 3, c.p.p.

Tale ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende che si ritiene equo determinare in Euro 500.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso del Pubblico ministero.Dichiara inammissibile il ricorso di C. F. che condanna al pagamento delle spese processuali ed alla somma di Euro 500 alla cassa delle ammende.

Roma, 9 dicembre 2002.

Depositata in Cancelleria il 16 gennaio 2003.