Reato di peculato - art. 314 c.p - Pubblico denaro - Erogazione indebita a terzi privati

27/09/2002 Reato di peculato - art. 314 c.p - Pubblico denaro - Erogazione indebita a terzi privati

Reato di peculato - art. 314 c.p -Pubblico denaro - Erogazione indebita a terzi privati (Corte Suprema di Cassazione -  Sentenza n. 40148 del 27 novembre 2002)

Corte Suprema di Cassazione -  Sentenza n. 40148 del 27 novembre 2002

FATTO E DIRITTO

Con la sentenza in epigrafe la Corte d'appello di Roma ha confermato integralmente quella del tribunale della città in data 7 gennaio 1999 con la quale C.Gxxxxx. e M. Mxxxxxxx. sono stati condannati alle pene ritenute di giustizia per i reati di peculato. Il primo - secondo la tesi accusatoria fatta propria dai Giudici di merito - quale tesoriere del (omissis) si appropriava di provviste del conto corrente (omissis), intestate a lui e al Presidente Sxxxx (deceduto il 14 maggio 1991), rendendosi responsabile di ben nove episodi del delitto in questione, da solo o in concorso con altre persone la cui posizione non rileva più in questa sede, salvo per quel che riguarda il capo C, i cui fatti sono addebitati al Gxxxx in concorso con l'altro odierno ricorrente M.Mxxxxxxx., capo che - da solo - concerne l'appropriazione di importi portati da assegni pari a novanta milioni. Con la stessa sentenza veniva anche rigettato l'appello proposto dalla parte civile Gxxxx Sxxxx.

Si trattava - secondo la sentenza impugnata - di vere e proprie erogazioni di denaro del Consorzio fatte dal duo Gxxxxxxx.-Sxxxxxxxxx., abilitati a operare con firma congiunta sul conto bancario dell'ente, in favore proprio nonchè di altri soggetti indicati nei capi di imputazione, in mancanza di qualsiasi rispondenza a necessità del Consorzio, o non riconducibili ad adeguate controprestazioni rese in favore dello stesso. La Corte non dava alcun credito, anzitutto, alla tesi secondo cui le somme erogare in favore del defunto Presidente (oltre novanta milioni) fossero state date per  prestazioni di "pulizia delle strade" che sarebbe stata svolta dal medesimo di persona, con non prestava fede al fatto che le somme incassate dal Gxxxxx, portate da svariati assegni per complessivi duecentocinquanta milioni circa, alcuni intestati ai suoi congiunti, riguardassero pretesi compensi dovuti per l'attività di consulente tecnico del Consorzio di cui era "tesoriere" (consulenza che secondo il Gxxxxxxxxx. costituiva da molti anni "l'attività di famiglia"), senza la benchè minima documentazione di supporto, non solo di natura economica (parcelle, fatture) ma neppure tecnica (progetti, disegni, contabilità relativa a lavori stradali, direzione lavori o altro), ovvero in presenza di documentazione priva di qualsiasi autenticità. Senza alcuna traccia documentale erano stati, poi, eseguiti anche i lavori commissionati alla società di cui il Mxxxxx. era rappresentante. Rimaneva, infine, sprovvisto di qualsiasi seria giustificazione l'incasso da parte del Gxxxxxxxxxx di tre assegni per circa sessantacinque milioni (poi, peraltro, restituiti, ma senza alcun effetto sulla completezza della figura criminosa) a firma del defunto Presidente, dopo la sua morte (incasso che sarebbe avvenuto inverosimilmente senza che il Gxxxxxxxxxx fosse a conoscenza della morte del Sxxxxxxxx. - che invece doveva conoscere benissimo in quanto l'ultimo assegno era stato incassato solo quattro giorni prima dell'assemblea convocata per la nomina del successore - e il cui importo sarebbe stato elargito per prestazioni del Gxxxxx. ed "eventualmente" di altri fornitori).

Propongono ricorso entrambi gli imputati.

Il Gxxxxx. deduce due motivi.

Col primo censura la sentenza per mancata assunzione di prove decisive e vizio di motivazione. Si sostiene, in sintesi, che i Giudici di appello avevano ritenuto la responsabilità degli imputati semplicemente sulla mancata produzione di titoli giustificativi comprovanti l'avvenuta esecuzione dei lavori in corrispettivi dei quali sarebbero state oggetto di peculato; sul punto si era richiesta, sia in primo sia in secondo grado, l'acquisizione dei verbali della "deputazione consortile presso il (omissis)" ove erano indicati e approvai sia i preventivi che i consuntivi di spesa per gli anni in contestazione.

Si duole col secondo mezzo, in linea di mero diritto, del fatto che, nella specie, sarebbe ricorso, al, più il reato di abuso di ufficio, figura criminosa in cui sarebbero confluiti - dopo la riforma del 1990 dei reati pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione - tutti i fatti di peculato per distrazione quali quelli contestati nel presente giudizio.

Il Mxxxxxxxxxx. a sua volta deduce tre motivi.

Col primo si duole - senza specificazioni ulteriori - della valutazione della prova testimoniale ritenuta del tutto generica.

Si duole quindi, col secondo, del mancato espletamento di una perizio per l'accertamento dei lavori eseguiti dalla società di cui era rappresentante (ciò che avrebbe comportato la nullità della sentenza).

Col terzo, motivo, infine, deduce la nullità della sentenza per difetto di motivazione sul richiesto giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulle contestate aggravanti, valutazione denegata "considerata la natura di dette aggravanti".

Il ricorso del Gxxxxxxxxxx. non è fondato.

Col primo motivo il ricorrente si duole del fatto che la Corte di merito si sarebbe rifiutata di assumere la "prova concreta e non meramente formale" circa i lavori effettuati, mancando di acquisire i verbali della deputazione consortile presso il (omissis) ove si erano approvati si ai preventivi che i consuntivi di spesa. Sembra che la censura parta da un ottica capovolta della realtà, come non ha mancato di rilevare - con motivazione ineccepibile - la Corte d'appello romana che non ha giustamente dato corso alla riapertura della istruzione sul punto. è vero,  infatti, che la Corte aveva già assunto la prova concreta della inesistenza della quasi totalità delle opere o prestazioni professionali che gli imputati assumevano essere state realmente eseguite. Si pensi che tra la documentazione esibita figuravano addirittura titoli giustificativi di prestazioni effettuate in favore di altri consorzi, come si è potuto appurare anche attraverso il rilievo del codice fiscale non corrispondente a quello del Consorzio di cui trattasi. I bilanci e le approvazioni di consuntivi e preventivi erano si dati formali, contrariamente all'assunto della difesa, come spiegano i Giudici di secondo grado i quali (pag. 13-14) hanno esattamente affermato che la formale corrispondenza dei dati di bilancio (pur data per ammessa) non avrebbe, comunque, potuto comprovare alcunchè stante la "assoluta mancanza dei titoli giustificativi delle spese per difetto di ogni prova in merito ai lavori che sarebbero stati effettuati a beneficio del consorzio..."onde, con l'assunzione della prova richiesta, non si sarebbe mai potuta escludere "la tranquillante certezza che le erogazioni di denaro del consorzio elencate nei capi di imputazione siano state destinare a profitto dei beneficiari piuttosto che al pagamento di opere e servizi in favore dell'ente". La Corte romana, con tali affermazioni non ha, quindi, posto in essere la violazione di cui all'art. 606, lett. d, c.p.p. chiarendo appieno le ragioni del convincimento sulla inutilità della nuova istruzione probatoria nel rispetto dei poteri discrezionali che le competono in ragione delle prove già acquisite, dando - attraverso l'indiscusso dato della mancanza di qualsiasi documento giustificativo - ragionevole risposta anche alla affermazione defensionale secondo cui non poteva immaginarsi che il Gxxxx non avesse percepito alcun compenso per l'attività svolta per il Consorzio (egli avrebbe percepito  "legittimamente", come risultante dalla perizia, la sola somma di lire 7.511.829 per rimborso di spese sostenute per l'attività del Consorzio).

Quanto al secondo motivo, concernente la qualificazione dei fatti attribuiti al Gxxxx e ai correi (non assolti nei gradi di merito), la difesa ha sostenuto che non concreterebbe il reato di peculato la dazione indebita da parte del pubblico ufficiale di denaro pubblico a terzi privati a loro esclusivo, rientrando l'ipotesi criminosa, più correttamente, in quella dell'abuso di ufficio soprattutto in considerazione del fatto che con la riforma del 1990 dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione si è eliminata, tra le varie condotte con le quali può configurarsi il delitto di cui all'art. 314 c.p., quella della distrazione del denaro o della cosa mobile altrui,  figura che, proprio per tale interpolazione legislativa, sarebbe confluita nel "contenitore residuale" dell'abuso di ufficio.

Questa Corte è pienamente consapevole della circostanza che la tesi è stata sostenuta da autorevole dottrina (anche se dottrina altrettanto autorevole l'ha confutata). Ritiene, tuttavia, che l'opinione non sia condivisibile (come già questa stessa sezione si è pronunciata: v. sez. VI, u.p. 10 febbraio 1994, n. 6317, C., rv, 198883) per le ragioni che seguono.

Elemento centrale della fattispecie astratta del peculato è rimasto, pur dopo la riforma del 1990, quello della appropriazione da parte del pubblico ufficiale (o dell'incaricato di pubblico servizio) del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia il possesso la disponibilità per ragioni di ufficio. Quando del denaro o della cosa mobile altrui sia beneficiato un terzo semplice privato, è chiaro che non è quest'ultimo ad "appropriarsi" della cosa, ma è pur sempre il pubblico ufficiale che ne ha il possesso o la disponibilità, sia pure allo scopo di farne beneficiare il terzo che è correo del pubblico ufficiale ove sia consapevole di tale qualità necessaria per la realizzazione del reato proprio nell'autore del fatto e nel concorso di ogni altra condizione di cui all'art. 117 c.p..

D'altra parte è del tutto indifferente il fatto che il pubblico ufficiale si appropri della risorsa (denaro o altra cosa mobile) altrui per sè o che se ne appropri per altri: le conseguenza non mutano sul piano dell'offensività del bene protetto che è pur sempre l'illegittima destinazione impressa alla risorsa alla quale viene attribuita una finalità diversa da quella datale dall'ordinamento con il suo esaurimento definitivo; e non sarebbe proprio dato scorgere per quale ragione l'appropriazione a beneficio di terzi dovrebbe avere un trattamento giuridico più favorevole rispetto all'appropriazione per sè, ove si consideri - si ripete l'identità della condotta appropriativa e della lesione del bene giuridico protetto.

Nè potrebbe sostenersi a questo punto che non avrebbe significato l'eliminazione della parola "distrazione" dal testo dell'art. 314 c.p.. Sono, infatti, numerosi i comportamenti distrattivi transitati effettivamente nella figura delittuosa dell'abuso di ufficio. Una tale diversa configurazione resta però riservata, ad avviso del Collegio, a quei casi in cui permanga la destinazione pubblica del bene anche se diversa da quella originariamente impressa dall'ordinamento, di modo che la cosa o il denaro non siano sottratte, definitivamente esaurendosi, da una destinazione comunque pubblica amministrazione, la destinazione di risorse a scopi diversi da quelli ai quali sono destinati, ovvero la destinazione di fondi di una pubblica amministrazione al conseguimento di finalità di un'altra pubblica amministrazione, o figure similari, nelle quali le risorse stesse siano stornate dall'una all'altra finalità pubblica: il che spiegherebbe agevolmente un diverso e meno grave trattamento sanzionatorio nei confronti di comportamenti caratterizzati da un minor grado di offesa degli interessi della pubblica amministrazione).

Nel caso tutti i comportamenti indicati nei capi di imputazione che riguardano il presente processo rientrano in definitiva nella figura del peculato, sia che si tratti di assegni firmati dal Gxxxx sia dal Sxxxx a loro vantaggio proprio o reciproco, sia che si tratti di assegni firmati in favore di terzi privati beneficiati.

Il ricorso del Gxxxx va, quindi, rigettato.

Deve invece essere dichiarato inammissibile il ricorso del M. in considerazione della assoluta mancanza di specificità dei primi due motivi e della manifesta infondatezza del terzo, in quanto nessuna aggravante era stata contestata nel capo che lo riguarda e in nessuna parte delle due sentenze di merito si rinviene la frase sopra riportata sul giudizio di valenza fra attenuanti e aggravanti.

In conclusione, mentre il ricorso del M. va dichiarato inammissibile, quello del Gxxxx va rigettato. Entrambi gli imputati vanno condannati in solido al pagamento delle spese processuali e il M. anche a quello della somma di cinquecento euro a favore della Cassa delle ammende. I predetti vanno anche condannati in solido alla rifusione delle spese di questa fase in favore delle costituite parti civili, liquidate come in dispositivo.

PER QUESTI MOTIVI

Dichiara inammissibile il ricorso di M.Mxxxxx; rigetta il ricorso di Gxxxxxxx.Cxxxxxxx.; condanna entrambi i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e il M. a quello della somma di cinquecento euro in favore della Cassa delle ammende; condanna i predetti in solido a rimborsare alle parti civili, (omissis) e Sxxxx.Gxxxxxxx., le spese di questa fase, liquidate, quanto al (omissis), in euro 2.500 oltre IVA e CPA, e, quanto allo Sxxxx, in euro 2.478,99, ivi compresi 408 euro per IVA e CPA relativamente ad euro 2000 riconosciuti a titoli di onorari.