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Prova testimoniale - testimone pagato per deporre il falso - Corruzione in atti giudiziari

Prova testimoniale - testimone pagato per deporre il falso - Corruzione in atti giudiziari

Prova testimoniale - testimone pagato per deporre il falso - Corruzione in atti giudiziari (Corte di cassazione, sentenza 17 gennaio 2003, n. 2302)

FATTO E DIRITTO

Con ordinanza del 22 aprile 2002 il Tribunale di Napoli, pronunciando sulle richieste di riesame proposte da Cxxxxxx Stefano, Bxxxxxxxxx Luciano, Lxxxxxxx Silvio, Cxxxxxxxxx Immacolata, Cvvvvvvv Silvia e Cmmmmm Marco, così provvedeva: annullava per carenza di gravi indizi il provvedimento impugnato, dispositivo della custodia in carcere, limitatamente alle imputazioni di concorso in falsità ideologica per induzione e corruzione in atti giudiziari; sostituiva la misura carceraria per Cxxxxxx e Cvvvvvvv con quella di cui all'articolo 282 Cpp e con quella degli arresti domiciliari per Bxxxxxxxxx, Lxxxxxxx e Cxxxxxxxxx; annullava il provvedimento stesso nei confronti di Cmmmmm per assenza di esigenze cautelari.

Osservava il collegio che le dichiarazioni confessorie di quasi tutti i protagonisti della vicenda, adeguatamente riscontrate, avevano consentito di accertare l'attività fraudolenta posta in essere, per iniziativa del Lxxxxxxx, ai danni di compagnie di assicurazione.

Il Lxxxxxxx, disponendo, grazie alla sua professione di perito liquidatore, dai dati di molti assicurati, utilizzava, oltre alla documentazione, i nominativi di costoro per predisporre, a loro insaputa, atti di citazione relativi ad incidenti stradali mai avvenuti.

Ciascuno di tali atti, corredato dalla falsa firma del mandato "ad litem", che veniva autenticata da un avvocato compiacente, veniva apparentemente notificato al convenuto, alla compagnia assicuratrice, in liquidazione coatta amministrativa e alle "Generali Assicurazioni", quale impresa designata per la Regione Campania alla gestione del "Fondo vittime della strada".

L'artificio, consistito nella contraffazione delle cartoline di ritorno, comportava che gli apparenti destinatari non ricevevano la notifica della citazione, che, in realtà, veniva notificata soltanto alle "Generali Assicurazioni", società che non aveva alcun interesse a costituirsi in giudizio, in quanto l'eventuale risarcimento veniva accollato al "Fondo", essendo in liquidazione l'impresa assicuratrice tenuta al pagamento.

Nel corso del giudizio venivano indicati falsi testimoni, a ciascuno dei quali era corrisposto un compenso di lire 100.000 e, infine, conclusa la vertenza, gli importi liquidati a titolo di risarcimento per i falsi sinistri e di onorario professionale venivano divisi tra il Lxxxxxxx e i legali che avevano prestato la loro opera, compresa la notifica dell'atto di precetto alle "Generali Assicurazioni".

Il tribunale, pur ritenendo la sussistenza di gravi indizi circa la partecipazione ai fatti, a vario titolo, del Lxxxxxxx, della Cxxxxxxxxx e della Cvvvvvvv, sue collaboratrici di studio, degli avvocati Cmmmmm e Bxxxxxxxxx e del Cxxxxxx, il quale aveva reso testimonianze nei giudizi per i falsi sinistri, escludeva la configurabilità dei reati di cui agli articoli 110, 48, 479 c.p. e 319, 319-ter, 321 c.p.

Sul primo punto, osservava che la dichiarazione di contumacia non è atto pubblico, in quanto non è dotato di autonomia funzionale rispetto alla sentenza, alla quale soltanto può riconoscersi tale qualificazione.

Quanto al reato di corruzione, secondo il giudice del riesame la falsa dichiarazione resa dal teste a seguito del pagamento di una somma di denaro non appariva tesa a favorire una parte, di fatto inesistente, del processo, bensì come uno degli artifici diretti a una fittizia rappresentazione della realtà per ottenere la liquidazione di un danno inesistente: condotta assorbita in parte nella contestazione di falsa testimonianza e in parte in quella di truffa.

Escluso, poi, il pericolo di fuga e di inquinamento probatorio ad opera degli indiziati, non sussisteva per il Cmmmmm neppure la residua esigenza cautelare connessa al pericolo di reiterazione criminosa, essendo stato adottato nei suoi confronti dal Consiglio dell'ordine degli Avvocati di Napoli un provvedimento di sospensione dall'esercizio della professione, mentre per gli altri indiziati la cautela era assicurata dalle misure meno afflittive, che venivano disposte in sostituzione di quella carceraria.

Ricorre per cassazione il Pm, denunciando:

1) erronea applicazione degli articoli 319, 319-ter e 321 c.p.

Sostiene il ricorrente che, posto che il testimone riveste la qualità di pubblico ufficiale, la promessa di denaro costituisce corruzione, riconducibile alla previsione dell'articolo 319-ter c.p., essendo la condotta diretta a favorire "una parte in un processo civile". Questa espressione deve intendersi in senso puramente formale, sicché è irrilevante la circostanza che nella specie i giudizi erano promossi da apparenti attori, i quali in realtà nulla sapevano delle cause instaurate a loro nome.

Comunque, il reato "de quo" è in rapporto di concorrenza e di specialità rispetto alla truffa e alla falsa testimonianza, per la diversità dei beni giuridici tutelati e degli elementi costitutivi.

2) Erronea applicazione degli articoli 48, 479 c.p., in quanto la dichiarazione di contumacia, indotta dalla contraffazione degli avvisi di ricevimento relativi alle notifiche degli atti di citazione, è atto pubblico dotato di autonomia, oltre che presupposto di una serie di istituti di natura processuale.

3) Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla valutazione delle esigenze cautelari, che devono ritenersi, invece, sussistenti, sotto i profili indicati nell'articolo 274, lett. a) e c), c.p.p., tenuto conto della natura, delle modalità dei fatti e della personalità degli inquisiti.

L'indagato Cmmmmm ha presentato una memoria difensiva, di contenuto adesivo alle valutazioni espresse dal tribunale del riesame.

Rileva la Corte che, in linea di principio (Cassazione, Sezioni unite 16/1996), è consentito al tribunale del riesame modificare la qualificazione giuridica data dal Pm al fatto per cui si procede.

Il diverso "nomen iuris" riconosciuto in tale sede, anche se ha effetti limitati al procedimento incidentale e non pregiudica l'autonomo potere di iniziativa del Pm, che rileva soltanto sotto il profilo della identificazione del fatto, incide, tuttavia, sulla valutazione demandata al giudice del riesame ed è, quindi, legittimamente deducibile come motivo di ricorso per cassazione.

Le censure proposte sul punto dall'ufficio requirente sono fondate.

Invero, quanto all'imputazione di falsità ideologica commessa per induzione dal pubblico ufficiale, si osserva che è atto pubblico qualsiasi documento formato dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, contenente l'attestazione di fatti giuridici dei quali è destinato a fornire la prova.

Risponde a tali requisiti la dichiarazione di contumacia intervenuta in un procedimento civile, produttiva di autonomi effetti, obiettivamente modificativa della posizione giuridica della parte e non meramente preparatoria dell'atto conclusivo del giudizio, costituito dalla sentenza.

Ciò a prescindere dal rilievo che anche l'atto preparatorio e l'atto interno che si inseriscono nell'"iter" procedimentale, sebbene distinti oggettivamente e soggettivamente da quello conclusivo, alla cui formazione sono predisposti, hanno natura pubblica (Cassazione, sezione quinta, 11495/90; Sezioni unite 7299/84).

Parimenti, non è condivisibile l'argomentazione svolta dal tribunale in relazione alla contestazione di corruzione in atti giudiziari.

In primo luogo, è irrilevante la circostanza che la parte a cui favore era resa la falsa testimonianza era realmente inesistente, atteso che il reato "de quo" si consuma con la mera accettazione della promessa di denaro o di altra utilità, indipendentemente dal risultato della illecita prestazione concordata e dalla identità del soggetto a cui vantaggio essa concretamente refluisce.

La condotta di cui trattasi, inoltre, si pone in rapporto concorsuale sia con riferimento alla falsa testimonianza, in quanto afferisce al motivo di quest'ultima - come correttamente rilevato dall'ufficio ricorrente - e sia in relazione alla truffa: è evidente, infatti, che se l'artificio impiegato ex articolo 640 c.p. costituisce di per sé reato (come la sostituzione di persona, il falso documentale, il falso nummario), avente diversa obiettività giuridica, questo conserva la sua autonomia.

D'altra parte, il compenso di centomila lire, che nella specie veniva promesso e versato per la falsa deposizione, costituiva la prestazione che nell'ambito dell'illecito sinallagma era corrisposta al dichiarante quale retribuzione per la sua specifica prestazione antigiuridica e non è riconducibile al profitto della truffa, che poteva anche non realizzarsi senza tuttavia incidere sul reato di corruzione, già consumato.

Pertanto, sussistendo il denunciato vizio di legittimità, l'ordinanza gravata va annullata, con rinvio al giudice di merito, che procederà al nuovo esame tenendo conto dei rilievi suesposti in punto di qualificazione dei fatti e rivaluterà le esigenze cautelari in relazione ai reati ritenuti configurabili.

P.Q.M.

Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Napoli.