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Separazione coniugi  Assegnazione casa coniugale - Perde il diritto  chi vive altrove con i figli

Separazione coniugi  Assegnazione casa coniugale - Perde il diritto  chi vive altrove con i figli.

Civile - Separazione coniugi  Assegnazione casa coniugale - Perde il diritto  chi vive altrove con i figli. (Cassazione – sezione prima civile – sentenza 15 gennaio-9 settembre 2002, n. 13065)

Cassazione – sezione prima civile – sentenza 15 gennaio-9 settembre 2002, n. 13065 - Presidente Olla – relatore Magno - Pm Maccarone – parzialmente conforme – ricorrente Mattoni –  controricorrente Pellegrino

Svolgimento del processo

Il tribunale di Roma, con sentenza 7857/97, pronunziò la separazione dei coniugi Giulia Pellegrino e Giovanni Mattoni, senza addebiti; affidò l’unica figlia allora minorenne, Sara, alla madre; fissò il lire 700.000 mensili il contributo dovuto dal Mattoni alla moglie per il mantenimento della suddetta figlia minorenne e dell’altra figlia con lei convivente, Laura, maggiorenne ma non autosufficiente sotto il profilo economico; assegnò la casa coniugale alla donna e determinò in lire 800.000 mensili l’importo dovuto dal Mattoni alla Pellegrino in sostituzione del godimento effettivo dell’appartamento, indisponibile perché locato a terzi.
Avverso detta sentenza propose appello il Mattoni, lamentando l’erronea interpretazione dei fatti e delle risultanze processuali, specie con riferimento all’accertamento della propria capacità economica, giacché l’unica sua fonte di reddito era asseritamene rappresentata dallo stipendio di impiegato delle Poste, pari a lire 1.700.000 mensili, escluso di fatto qualsiasi ulteriore introito proveniente dall’attività, inesattamente attribuitagli, di cartellonista pubblicitario, e considerato che egli provvedeva direttamente al mantenimento autonomo, con lui convivente. Il Mattoni deduceva inoltre erronea interpretazione dei fatti e delle norme e vizio di ultrapetizione, con riferimento al capo della sentenza di primo grado che assegnava congiuntamente alla moglie sia la casa coniugale sia l’indennità sostitutiva mensile di lire 800.000, stabilita peraltro senza tener conto del valore locativo della casa
stessa, valutato dal perito in lire 400.000, e del fatto che questa era stata locata in regime di equo canone, per lire 250.000 al mese, dopo che la moglie, sei mesi prima della presentazione del ricorso per separazione, se ne era volontariamente allontanata.
Chiedeva, in conclusione, la riforma della sentenza impugnata, con revoca dell’assegnazione della casa familiare alla moglie, limitazione dell’indennità sostitutiva al valore locativo dell’appartamento ed esonero da qualsiasi onere contributivo per il mantenimento delle figlie. Con vittoria di spese di entrambi i gradi di giudizio. L’appellata eccepiva l’improponibilità del gravame e ne contestava il fondamento nel merito, insistendo nella richiesta di assegnazione della casa familiare.La Corte d’appello di Roma, con sentenza 1546/99, ritenute preliminarmente l’ammissibilità e tempestività del gravame (benché irritualmente introdotto con atto di citazione anziché con ricorso) e l’infondatezza dell’eccezione d’improponibilità formulata dalla Pellegrino riguardo alle prime due richiesta dell’appellante, da essa appellata indicate come nuove, rigettò l’appello confermando integralmente la sentenza del tribunale, e condannò l’appellante al pagamento delle spese del grado.
Nel merito, la corte d’appello rilevò che la maggior capacità economica e di guadagno dell’appellante era stata adeguatamente dimostrata, anche in base ad ammissioni del medesimo, sicché il contributo al mantenimento delle figlie doveva considerarsi congruo, nella misura fissata dal primo giudice (lire 700.000 mensili). Quanto all’assegnazione della casa familiare alla moglie, la decisione del tribunale appariva fondata, ai sensi dell’articolo 155, Cc, e nessun vizio era ravvisabile relativamente alla contestuale attribuzione dell’indennità sostitutiva, atteso che quest’ultima era concessa, con ogni evidenza, in funzione alternativa all’abitazione non disponibile. La corte di merito rilevava inoltre che il contratto di locazione, stipulato dal Mattoni in epoca prossima all’inizio della causa di separazione, per canone esiguo e, comunque, di gran lunga inferiore all’onere dell’indennità (lire 800.000) impostagli in alternativa al mancato godimento diretto dell’abitazione da parte di un comportamento dell’appellante consapevolmente preordinato all’estromissione delle congiunte dalla casa familiare e, sotto altro
aspetto, dimostrava una capacità economica dell’obbligato superiore a quella dichiarata. La misura di lire 800.000 per l’indennità sostitutiva appariva, infine, correttamente determinata in base alle pigioni minime normalmente richieste nella città di Roma per abitazioni modeste.

Avverso tale sentenza Giovanni Mattoni ha proposto ricorso per cassazione, fondato su quattro motivi. Resiste con controricorso Pellegrino Giulia.

Motivi della decisione

Col primo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto (articolo 2697 Cc, onere della prova), con riferimento alla maggior capacità economica propria, ritenuta dalla corte di merito nonostante la mancanza di qualsiasi attività probatoria ex adverso.

La censura è infondata.
La sentenza d’appello, in realtà, motiva adeguatamente il convincimento relativo ad una generica maggior capacità economica del Mattoni rispetto a quella dichiarata, desumendo tale convinzione essenzialmente dal fatto che egli non si fosse adoperato per far cessare la locazione, nonostante che il termine originario di essa fosse scaduto e pure in vista del notevole
vantaggio economico rappresentato dalla differenza fra la perdita dell’esiguo canone percepito ed il risparmio rappresentato dal fatto di non dover più pagare, in caso di effettiva consegna dell’abitazione alla moglie, l’onerosa indennità sostitutiva. Più in particolare, circa la sussistenza di una seconda attività del Mattoni (quella di cartellonista), sia pure esercitata in modo saltuario, la sentenza impugnata mette in rilievo le iniziali ammissioni dello stesso interessato, affermando che «lungi dall’essere indimostrata, la seconda attività svolta dal Mattoni risulta espressamente dal medesimo ammessa in sede di dichiarazioni rese all’udienza presidenziale».
Pertanto, avendo i giudici di merito raggiunto il loro convincimento in ordine alla capacità economica del ricorrente, con argomentazione sufficiente ed esente da vizi logici, attraverso indizi ammissibili alla stregua dell’articolo 116, 2° comma, Cpc, la prova del fatto (capacità economica, derivante anche da una seconda attività) devesi ritenere correttamente acquista. Per conseguenza, non sussistendo la pretesa inversione dell’onere della prova, il gravame su questo punto va rigettato.
Col secondo motivo, il ricorrente denunzia che la complessa statuizione del giudice del merito in tema di destinazione della «casa coniugale» è inficiata da violazione di norme di diritto con riferimento all’articolo 155, quarto comma, Cc, e da vizio della motivazione. Infatti, dispone l’assegnazione dell’appartamento alla moglie, senza tener conto di plurime circostanze ostative: in particolare, del volontario abbandono dell’abitazione suddetta da parte della Pellegrino e delle figlie, della convivenza di un figlio maggiorenne non autosufficiente con esso ricorrente e dell’indisponibilità dell’appartamento in quanto validamente locato a terzi.
Il motivo è fondato nei limiti di seguito enunciati.
Come s’è detto nella precedente parte espositiva, relativamente alla regolamentazione dei rapporti patrimoniali fra i coniugi e nei confronti dei figli ed all’incidenza, rispetto a quel tema, dell’appartamento di proprietà del Mattoni, in cui era ubicata la «casa coniugale», la corte di Roma ha disposto, in via principale – sul presupposto, appunto, della qualificazione attuale di quell’appartamento come «casa coniugale» -, l’attribuzione dello stesso alla Pellegrino, in quanto affidataria della figlia minore Sara; in subordine – nell’ipotesi d’irrealizzabilità, per qualsiasi ragione, di tale statuizione – l’incremento dell’assegno di mantenimento a favore della moglie e delle figlie, fissato in lire 700.000 mensili, mediante il versamento di lire 800.000 mensili, così da raggiungere l’importo complessivo di lire 1.500.000 mensili.Il profilo di censura che investe la statuizione principale è ammissibile, risultando infondata l’eccezione della controricorrente, secondo cui l’esame della doglianza resterebbe precluso, perché il Mattoni non aveva impugnato in appello la disposizione del tribunale che aveva assegnato la casa coniugale alla moglie in modo puro e semplice; e perché, di conseguenza, sul capo si sarebbe formato il giudicato, per acquiescenza parziale, ai sensi dell’articolo 329, secondo comma, Cpc. Infatti, com’è detto nella sentenza impugnata, e come risulta dall’apprezzamento diretto degli atti processuali cui questa corte suprema è legittimata, il Mattoni aveva chiesto, nelle conclusioni definitive, che «la corte, in riforma dell’impugnata sentenza, revocasse l’assegnazione della casa coniugale alla moglie»; ed è di tutta evidenza che l’espressa richiesta di riforma della sentenza di primo grado su tale punto esclude la formazione del giudicato interno relativamente ad esso.
Il profilo di censura è anche fondato, sotto l’aspetto della violazione dell’articolo 155, quarto comma, Cc.
Dovendosi attribuire alla norma in questione il senso palesato del significato proprio delle parole e dell’intenzione del legislatore (articolo 12 «preleggi»), non si può altrimenti intendere l’espressione «casa familiare» se non come «complesso di beni funzionalmente attrezzato per assicurare l’esistenza domestica della comunità familiare» (Cassazione 5793/93); di modo che l’assegnazione di essa ad uno dei coniugi risponda «all’esigenza di conservare l’habitat domestico, inteso come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare» (Cassazione 12083/95, 8667/92), con riguardo principalmente alla necessità di non far gravare sui figli l’ulteriore trauma dello sradicamento dal luogo in cui si svolgeva la loro esistenza.

Per la corretta interpretazione dell’articolo 155, 4° comma, Cc, occorre quindi distinguere fra due diverse accezioni dell’espressione «casa familiare», la prima delle quali connota materialmente il bene immobile in cui si svolse, per un certo periodo storicamente concluso, la vita coniugale e familiare; la seconda significa, invece, «il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza» (Cassazione 8667/92), ossia l’ambiente fisico in cui persiste, nonostante la separazione dei coniugi, l’insieme organizzato di beni che costituisce, o ha costituito, anche in senso psicologico, l’habitat domestico e che deve continuare a svolgere, preferibilmente e se possibile, la funzione di abitazione del nucleo composto da uno dei genitori separati e dalla prole. La norma in esame fa riferimento a questa seconda accezione, come si desume dal fatto che, per qualificare l’oggetto dell’attribuzione, usa l’espressione «abitazione nella casa familiare», non semplicemente «casa familiare», ad indicare la volontà del legislatore di preservare per quanto possibile ed opportuno, con questa specifica disposizione, la continuità delle abitudini domestiche («abitare in») piuttosto che altri interessi, pure rilevanti, garantiti dal successivo articolo 156.
In sintesi, nell’economia dell’articolo 155, 4° comma, Cc, l’assegnazione della casa coniugale è un istituto essenzialmente finalizzato a conservare l’habitat domestico, nel precipuo interesse della prole minorenne o maggiorenne non autosufficiente.
Ne discende che l’istituto di cui si tratta presuppone indefettibilmente la persistenza, al momento della separazione, di una «casa coniugale» nell’accezione sopra accolta. Se, infatti, lo scopo della norma è quello di preservare la continuità della abitudini domestiche nell’immobile costituente l’habitat familiare, al fine di non far gravare sui figli l’ulteriore trauma dello sradicamento del luogo in cui si svolgeva la loro esistenza, è evidente che non v’è ragione di ricorrere all’assegnazione della casa ai sensi dell’articolo 155, 4° comma, Cc allorquando, per un qualsiasi motivo, al momento della separazione la «casa familiare» nel senso sopra accolto non esista più, ed i figli si siano già irrimediabilmente sradicati dal luogo in cui si svolgeva la loro esistenza.
Quindi la corte di Roma ha effettivamente violato il precetto dell’articolo 155, quarto comma, Cc, allorché ha pronunziato alla stregua dell’implicito principio secondo cui, per attribuire un immobile ai sensi della disposizione in esame, è sufficiente che nello stesso si sia svolta, per un certo periodo storicamente concluso, la vita familiare, non avendo rilevanza che al momento della separazione la casa familiare persista ovvero che, in quel momento, l’habitat domestico si sia già disciolto.Il profilo di censura, dunque, deve essere per ciò solo accolto, rimanendo assorbita la valutazione delle altre circostanze addotte dal ricorrente
per contestare la disposizione in esame.
L’applicazione al caso di specie del principio enunciato non richiede, peraltro, ulteriori accertamenti di fatto.
Infatti, dalla sentenza impugnata emerge che, al momento della separazione, l’appartamento nel quale l’intera famiglia aveva vissuto non costituiva più, ed irreversibilmente, la «casa familiare» delle parti, giacché esso era stato abbandonato volontariamente da qualche tempo consolo dal Mattoni, ma – quel che più rileva ed è determinante – anche
dalla moglie e dalle figlie, tutte trasferitesi in altro immobile, dove avevano costituito un nuovo habitat; la vecchia abitazione era stata, invece, validamente locata a terzi. Gli accertamenti del giudice del merito escludono, quindi, la sussistenza del presupposto per l’applicabilità dell’articolo 155, quarto comma, Cc, costituito dalla persistenza della «casa familiare» al momento della separazione.
Questa corte può, pertanto, decidere nel merito ai sensi dell’articolo 384, primo comma, up, Cpc, disponendo l’annullamento del capo della sentenza d’appello che attribuisce alla Pellegrino l’abitazione nell’appartamento di cui si tratta, e dichiarando che questa non ha diritto ad abitarvi.
Non è fondato, invece, il profilo di censura avverso la statuizione subordinata.
La Corte d’appello di Roma ha utilizzato l’immobile di proprietà del marito, già residenza della famiglia, non solo come strumento di conservazione dell’habitat domestico, ma altresì quale mezzo per riequilibrare la situazione economica della Pellegrino e delle figlie a suo carico, integrando così in natura l’assegno di mantenimento fissato in numerario, in modo da raggiungere la misura complessiva (lire 1.500.000) ritenuta giusta.
Tanto si evince in modo palese (ed al di là delle espressioni tecnicamente imprecise) dalla statuizione subordinata, che attribuisce alla Pellegrino un ulteriore contributo numerario di lire 800.000 mensili, nell’ipotesi d’impossibilità di fruizione dell’appartamento da parte sua e delle figlie.
Come premesso, la corte ha errato nel disporre l’assegnazione della casa in funzione della conservazione dell’habitat familiare. È da escludere però che abbia errato allorché ha ritenuto che l’impossibilità di fruizione dell’appartamento legittimava l’incremento dell’assegno di mantenimento.
Il fatto di continuare a vivere nell’abitazione già «familiare» rappresenta – oltre al vantaggio, soprattutto per i figli, della continuità di consuetudini abitative, quale essenziale ragion d’essere dell’istituto previsto dall’articolo 155, quarto comma, Cc – un consistente risparmio economico. La giurisprudenza di questa corte non ha mancato di rilevare tale aspetto. La sentenza sezioni unite 11297/95 (pronunciata in materia di divorzio, ma con espliciti riferimenti al caso della separazione), nel confutare, in via di principio, l’opinione per cui l’assegnazione della casa coniugale potrebbe svolgere una funzione integrativa o sostitutiva dell’assegno di divorzio, afferma peraltro nella motivazione non essere «contestabile che il godimento della casa familiare costituisca un valore economico» (corrispondente – di regola – al canone ricavabile dalla locazione dell’immobile) e che di tale valore il giudice debba tener conto ai fini della determinazione (o della revisione) dell’assegno dovuto ad uno dei coniugi separati o divorziati». Cassazione 4558/00, inoltre, ha precisato che l’assegnazione della casa familiare, «in assenza di figli, può essere utilizzata come strumento per realizzare (in tutto o in parte) il diritto al mantenimento del coniuge privo di adeguati redditi propri nel quadro dell’articolo 156, primo comma, Cc».

La statuizione, quindi, è del tutto corretta.
Se ne desume che il motivo in esame deve essere accolto solo per quanto di ragione e, precisamente, nel profilo che investe il capo con cui viene disposta l’assegnazione alla Pellegrino della casa già «familiare», con conseguente riforma nel merito della pronuncia e diniego della stessa assegnazione; deve essere respinto, invece, il profilo che investe la statuizione subordinata – che pertanto diventa definitiva fruibilità della stessa casa, la Pellegrino ha diritto ad un incremento dell’assegno di mantenimento.
Col terzo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto (legge 392/78, disciplina delle locazioni di immobili urbani), in relazione alla misura, ritenuta eccessiva (lire 800.000), dell’indennità compensativa del mancato godimento della casa già coniugale.
In sostanza, il ricorrente lamenta il fatto che i giudici di merito avevano stabilito l’ammontare dell’indennità tenendo conto delle pigioni normalmente praticate in città, anziché del valore locativo dell’immobile non goduto, e senza considerate la normativa sull’equo canone.
La censura è infondata, in quanto si riferisce ad una questione di mero fatto (determinazione della somma mensilmente), definita dai giudici di merito in base ad accertamenti di fatto non apprezzabili in questa sede, sul corretto presupposto della valutazione dei prezzi di mercato, trattandosi – come si desume dalle argomentazioni svolte in relazione al secondo motivo – non di una somma dovuta in luogo del bene immobile (quindi pari al valore locativo di esso), bensì del necessario incremento dell’assegno di mantenimento, quale contributo al soddisfacimento delle esigenze abitative della resistente e delle figlie.
Il quarto motivo, con cui si censura, per violazione e falsa applicazione di norme di diritto e per contraddittorietà della motivazione, la sentenza d’appello in merito al ritenuto, implicito, cumulo (anziché alternatività) di prestazioni (consegna dell’abitazione e pagamento dell’indennità sostitutiva), è chiaramente assorbito per effetto delle determinazioni assunte in ordine al secondo mezzo di annullamento.
Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione per intero tra le parti delle spese dell’intero giudizio.

PQM

La Corte di cassazione.
Rigetta il primo e terzo motivo; accoglie per quanto di ragione il secondo; assorbito il quarto. Cassa la sentenza impugnata e, pronunziando nel merito, la annulla sul punto relativo all’assegnazione della casa già familiare. Compensa tra le parti le spese dell’intero giudizio.