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Cessazione effetti civili del matrimonio -diritto di visita della figlia minore - determinazione assegno divorzile

cessazione effetti civili del matrimonio -diritto di visita della figlia minore - determinazione assegno divorzile - ulteriore parametro di riferimento quello del rapporto tra i patrimoni delle famiglie di appartenenza degli ex coniugi

cessazione effetti civili del matrimonio - diritto di visita della figlia minore - determnazione assegno divorzile - ulteriore parametro di riferimento quello del rapporto tra i patrimoni delle famiglie di appartenenza degli ex coniugi.(Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 11 ottobre 2006, n. 21805)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

M.M., con ricorso in data 8 marzo 2000, conveniva innanzi al Tribunale di Bologna la moglie B.M.G. per sentir dichiarare cessati gli effetti civili del matrimonio, con ampliamento del diritto di visita della figlia minore A. (nata in data 22 gennaio 1990 e affidata alla madre) e la revoca dell'assegno di mantenimento alla moglie.

L'adito Tribunale, costituitasi la B., con sentenza in data 23 ottobre 2002, dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio, affidava la figlia minore A. alla madre, regolando il diritto di visita del padre alla figlia sulla base di quanto dallo stesso richiesto, determinava l'assegno divorzile in euro 250,00 e l'assegno in favore della figlia in euro 800,00, oltre il 50% delle spese straordinarie.

A seguito dell'appello proposto dalla B., la Corte territoriale di Bologna, con la sentenza in esame in data 20 marzo 2003, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, rideterminava in euro 900,00 al mese l'assegno divorzile (ritenendo, tra l'altro, non determinato dalla stessa B. il suo stato di non occupazione lavorativa), confermando in euro 800,00 l'assegno per la figlia, oltre il 50% delle spese straordinarie.

Ricorrono per cassazione, in via principale, il M. con quattro motivi e, in via incidentale, la B. con altrettanti motivi; entrambe le parti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Ricorso principale.

Con il primo motivo di ricorso si deduce difetto di motivazione, con riferimento all'art. 116 c.p.c., sul decisivo punto delle ragioni che a suo tempo determinarono la mancata attività lavorativa della B., con particolare riferimento ad un accordo degli stessi coniugi in proposito; inoltre, si deduce che la Corte territoriale, nel valutare il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, «si è esclusivamente basata sulle condizioni economiche del marito e della famiglia di origine di lui, ignorando le condizioni, quantomeno equivalenti, della famiglia B. ... che consentirono alla coppia un discreto tenore».

Con il secondo motivo si deduce difetto di motivazione sul decisivo punto della capacità economica del M., definito "evasore fiscale", anche in considerazione della valutazione del reddito di quest'ultimo sulla base di quanto dallo stesso versato in occasione della separazione consensuale.

Con il terzo motivo si deduce motivazione contraddittoria ancora sul punto del mancato svolgimento di un'attività lavorativa da parte della B.; in particolare si afferma che «lo stato di inoperosità della B. è palesemente volontario e pertanto l'attribuzione dell'assegno non può essere riconosciuta».

Con il quarto motivo si deduce violazione dell'art. 5 della l. 898/1970, e relativo difetto di motivazione, in quanto «la liquidazione dell'assegno di mantenimento va compiuta in base ai criteri enunciati dalla legge, tra i quali la durata del matrimonio, con chiaro riferimento al contributo personale»; si aggiunge che «la Corte giudicando in merito alla durata del matrimonio ha fatto riferimento alla durata legale del vincolo (dalla celebrazione al divorzio) quando viceversa è chiaro che la l. 898/1970 citata faccia riferimento alla durata della convivenza coniugale che, nel caso di specie, si è protratta per soli 4 anni».

Ricorso incidentale.

Con il primo motivo di ricorso si deduce difetto di motivazione in ordine alla circostanza che la Corte, nella determinazione dell'assegno divorzile, ha preso in considerazione la somma di lire 210.000.000 derivante dalla vendita della casa coniugale, quale percepita "nell'anno" della decisione e non, come effettivamente avvenuto, nel 1993, affermando, quindi, erroneamente in proposito, "somma che è ragionevole presumere non abbia completamente consumato", non valutando altresì che uguale importo aveva incassato il M. da detta vendita, con ulteriore incremento del suo patrimonio; si aggiunge, infine, che la somma di euro 800,00 è sicuramente insufficiente per consentire il mantenimento dello stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione degli artt. 147 e 148 c.c., e relativo difetto di motivazione, là dove la Corte territoriale, non rendendosi conto della sproporzione tra le posizioni economiche delle parti in causa, non ha considerato, anche ai fini delle spese straordinarie (da porre per intero a carico del M. in favore della figlia), che «l'assegno di divorzio liquidato dalla Corte d'appello non è neppure sufficiente per pagare il canone locativo dell'appartamento in cui vive».

Con il terzo motivo si deduce, ancora, violazione degli artt. 147 e 148 c.c., e relativo difetto di motivazione, là dove la Corte territoriale non ha considerato che la funzione dell'assegno di mantenimento in favore dei figli minori ha lo scopo di assicurare a quest'ultimi, per quanto possibile, un tenore di vita proporzionato alle possibilità economiche della famiglia; si fa presente in proposito che, in modo contraddittorio, la Corte d'Appello ha fondato la liquidazione di detto assegno in euro 800,00, ritenendo che il divorzio influisce negativamente sulla situazione economica del minore.

Con il quarto motivo si deduce erronea motivazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in ordine alla compensazione delle spese del doppio grado di giudizio, in quanto «non vi è stata reciproca soccombenza ma totale soccombenza per il ricorrente e parziale per la B.».

Preliminarmente, disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell'art. 335 c.p.c., deve dichiararsi inammissibile la questione prospettata nella memoria della B. in ordine al peggioramento delle sue condizioni di salute, in quanto nuova rispetto al thema decidendum della presente controversia e, come ammesso dalla stessa odierna ricorrente incidentale, riferentesi ad "un fatto sopravvenuto nelle more del giudizio di legittimità".

Entrambi i ricorsi non meritano accoglimento.

In relazione al primo profilo di censura del primo motivo del ricorso principale, deve osservarsi che lo stesso è inammissibile, poiché in questa sede è in discussione solo il quantum dell'assegno, essendosi formato il giudicato sull'an debeatur, e ciò in quanto la sentenza di primo grado era stata impugnata solo dalla moglie che aveva chiesto una liquidazione a lei più favorevole. Ne consegue che il marito non può, quindi, più prospettare l'esistenza di un accordo a suo tempo intercorso con la moglie avente ad oggetto la rinuncia di quest'ultima a svolgere attività lavorativa, quale circostanza escludente il diritto all'assegno; né tale rinuncia può costituire elemento di riduzione dell'assegno stesso, in relazione, quindi, al quantum.

Del tutto irrilevante, poi, e privo di pregio è il secondo profilo di detto primo motivo: non esiste alcuna norma, né tanto meno alcun favorevole orientamento giurisprudenziale in proposito, che preveda, ai fini della determinazione dell'importo dell'assegno divorzile, quale ulteriore parametro di riferimento quello del rapporto tra i patrimoni delle famiglie di appartenenza degli ex coniugi; in particolare è da rilevare che l'art. 5, comma 6, della l. 898/1970 prevede esplicitamente che l'assegno in questione debba essere disposto, tra gli altri criteri, "tenuto conto delle condizioni dei coniugi e del reddito di entrambi".

Anche il secondo motivo del ricorso principale è infondato: la Corte non ha infatti basato l'importo dell'assegno divorzile sull'unica ed esclusiva considerazione degli "ampi margini di elusione fiscale" del M. quale medico odontoiatra, ma ciò ha dedotto, meramente sul piano logico conseguenziale, dopo aver ritenuto, sempre in punto di fatto, determinante invece la inattendibilità della dichiarazione fiscale di quest'ultimo a fronte dell'elevato importo convenuto in sede di separazione (lire 2.150.000 mensili per la moglie e per la figlia).

Il terzo motivo del ricorso principale, riproponendo la questione già dedotta ed esaminata del mancato svolgimento di un'attività lavorativa da parte della B., e del relativo difetto di motivazione sul punto, rimane assorbito in quanto sopra esposto (primo profilo di censura del primo motivo).

Così pure il quarto motivo del ricorso principale, riguardante la dedotta erronea valutazione da parte della Corte d'appello della durata del matrimonio, è da rigettare: fermo restando che questa Corte con indirizzo ormai più che consolidato (tra le altre, Cass. 159/1998), ha statuito che ai fini della durata del matrimonio deve farsi riferimento all'intera durata del vincolo che si esaurisce con la pronuncia del divorzio e non con la separazione personale, non rilevando il solo periodo della convivenza effettiva fra i coniugi. Ne consegue che nella nozione di contributo dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di entrambi deve comprendersi non solo quello fornito nel periodo di convivenza coniugale, ma anche quello prestato in regime di comunione (in specie per il mantenimento, l'educazione e l'istruzione dei figli).

E di tali principi la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione.

Riguardo al ricorso incidentale, anch'esso, come detto, non è meritevole di accoglimento in relazione a tutte le censure in esso dedotte.

Primo motivo: dalla lettura della motivazione della decisione impugnata sul punto della somma ottenuta dalla B. a seguito della vendita della casa coniugale, se è vero che emerge che la Corte territoriale ha testualmente affermato in proposito che «la misura dell'assegno va determinata in euro 800,00 al mese e considerando che la B., pur se priva di occupazione e di reddito, risulta aver percepito nell'anno l'importo di lire 210.000.000...», è anche vero che in seguito detta Corte sostiene che «è ragionevole presumere che tale somma non abbia completamente consumato pur se utilizzata in questi anni per il proprio mantenimento in assenza di altri redditi». È evidente in tal modo che la Corte ha materialmente omesso di indicare l'anno 1993, quale data della vendita della casa coniugale, ma non ha affatto trascurato la rilevante circostanza che tale vendita era avvenuta ben prima della decisione, tanto è vero che fa riferimento alla utilizzazione della somma ricavata "in questi anni"; inoltre, sempre dal complessivo tenore della motivazione sul punto da cui emerge la puntuale considerazione della "capacità dell'obbligato", risulta che la Corte ha anche implicitamente tenuto conto della somma incassata dal M., in relazione alla sua quota di comproprietà, in virtù di detta vendita della casa coniugale.

Il secondo motivo del ricorso incidentale è inammissibile: la Corte di merito, come ben si rileva dalla motivazione della decisione in esame («la determinazione della misura dell'assegno di divorzio, intervenuta nel presente grado, consente alla madre di far fronte agli oneri imposti ai coniugi dagli artt. 147 e 148 c.c., concorrendo in pari misura nelle spese mediche, scolastiche, ecc.»), ha ritenuto, in virtù dei suoi poteri valutativi discrezionali, non censurabili in sede di legittimità, di statuire in ordine alle spese straordinarie, considerando "in fatto" la capacità della B. di far fronte a dette spese nella ritenuta misura del 50%.

Infondato è anche il terzo motivo: a parte la genericità della sua formulazione, la Corte territoriale ha logicamente e sufficientemente motivato in ordine alla misura del "concorso del padre nel mantenimento della figlia", ritenendo l'importo, di euro 800,00 "adeguato sia alle necessità proprie dell'età, sia alla fascia socio-economica di appartenenza della famiglia", ed è su tali decisive valutazioni, anch'esse non ulteriormente censurabili nella presente sede, che ha fondato il proprio convincimento.

Inammissibile, infine, è il quarto motivo: al di là delle espressioni adottate, è evidente che, sulla base del potere discrezionale spettante al giudice di merito, la Corte territoriale ha inteso comunque compensare per intero le spese del doppio grado di giudizio.

In relazione alla natura della controversia sussistono giusti motivi per compensare per metà le spese della presente fase e condannare il ricorrente al pagamento dell'altra metà che si liquida come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta entrambi. Compensa per metà le spese della presente fase e condanna il ricorrente al pagamento dell'altra metà che liquida in euro 2000,00 per onorario, euro 50,00 per spese, oltre spese generali ed accessorie come per legge.