Riconoscimento dell'assegno di divorzio - Criteri - Rilevanza ostativa dell'addebito della separazione - Esclusione. Cassazione Civile Sez. 1, Sentenza n. 18539 del 02/08/2013
2. - Con il secondo motivo la ricorrente ribadisce la violazione e la falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini del riconoscimento dell'assegno, ha attribuito una portata assorbente all'addebito reciproco della separazione, che assume invece rilievo esclusivamente ai fini della liquidazione del relativo importo. Sostiene inoltre che l'applicazione di tale criterio avrebbe peraltro dovuto indurre la Corte d'Appello a prendere in considerazione la condotta tenuta dal T. sia prima che dopo la separazione, ed in particolare l'instaurazione da parte dello stesso di un rapporto di convivenza con altra donna, nonché l'inosservanza dei provvedimenti riguardanti l'affidamento dei figli ed il mantenimento della famiglia, che avevano determinato la definitiva dissoluzione dell'unità familiare, impedendo la ricostituzione del rapporto coniugale.
3. - Con il terzo motivo la ricorrente insiste ancora sulla violazione e la falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, affermando che la sentenza impugnata ha omesso di procedere ad una valutazione comparativa del reddito dei coniugi, avendo addotto elementi insussistenti in ordine alla condizione economica di essa ricorrente ed avendo trascurato qualsiasi riferimento alla situazione reddituale e patrimoniale del T. , sia attuale che riferita all'epoca della convivenza. La Corte d'Appello ha ritenuto infatti incontestato che essa ricorrente collaborasse nell'impresa del padre, in contrasto con le risultanze dell'atto di appello, e non ha accolto la sua richiesta di approfondimento delle indagini di polizia tributaria svolte in primo grado in ordine al tenore di vita del coniuge e dei figli ed alle società attraverso le quali il T. esercitava la propria attività professionale.
4. - Le predette censure, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riflettenti la comune problematica relativa all'individuazione dei presupposti cui la legge subordina il riconoscimento dell'assegno divorzile, sono fondate.
In tema di divorzio, questa Corte ha costantemente affermato il principio di diritto, che il Collegio condivide ed intende ribadire anche in questa sede, secondo cui la L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, nella parte in cui subordina l'imposizione a carico di un coniuge dell'obbligo di somministrare all'altro un assegno periodico all'inadeguatezza dei mezzi economici di quest'ultimo ed all'impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, postula un'indagine in ordine alla sufficienza delle risorse di cui il richiedente dispone ad assicurargli la conservazione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso, o che poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto (cfr. Cass., Sez. 1, 15 maggio 2013, n. 11686; 12 luglio 2007, n. 15611).
Ai fini del riconoscimento dell'assegno, non si richiede dunque l'accertamento di uno stato di bisogno dell'avente diritto, inteso come indisponibilità dei mezzi necessari per il suo sostentamento, ma è sufficiente la configurabilità di un apprezzabile deterioramento della sua situazione economica, in conseguenza dello scioglimento del matrimonio (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 1, 12 febbraio 2013, n. 3398; 5 dicembre 2002, n. 17246; 17 marzo 2000, n. 3101; Cass., Sez. lav., 23 febbraio 2006, n. 4021). La nozione di adeguatezza presuppone infatti un esame comparativo della situazione reddituale e patrimoniale attuale del richiedente con lo standard di vita della famiglia all'epoca della cessazione della convivenza, desunto anche dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall'ammontare complessivo dei loro redditi e delle loro disponibilità patrimoniali, nonché una valutazione degli eventuali miglioramenti della condizione finanziaria dell'onerato, anche se successivi alla cessazione della convivenza, che costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell'attività svolta durante il matrimonio e trovino radice in detta attività e/o nel tipo di qualificazione professionale e/o nella collocazione sociale dell'onerato stesso (cfr. Cass., Sez. 1, 4 ottobre 2010, n. 20582; 12 luglio 2007, n. 15610; 28 febbraio 2007, n. 4764).
Nell'ambito di tale apprezzamento non spiega alcuna incidenza l'addebito della separazione, il quale viene in rilievo esclusivamente ai fini della valutazione delle ragioni della decisione, intese con riferimento ai comportamenti che hanno cagionato il fallimento dell'unione (cfr. Cass., Sez. 1, 11 giugno 2005, n. 12382; 24 marzo 1994, n. 2872), che costituiscono uno dei parametri per la liquidazione dell'importo dovuto, unitamente alle condizioni dei coniugi, al contributo personale ed economico dato da ciascuno di essi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno o di quello comune, ed al reddito di entrambi (cfr. Cass., Sez. 1, 12 luglio 2007, n. 15611; 22 agosto 2006, n. 18241; 19 marzo 2003, n. 4040; 27 settembre 2002, n. 14004). La valutazione di tali elementi, da effettuarsi anche in rapporto alla durata del vincolo, rappresenta infatti una fase ulteriore rispetto a quella del riconoscimento del diritto all'assegno, ed agisce ordinariamente come fattore di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto, potendo valere ad azzerarla soltanto in ipotesi estreme, quando la conservazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione (cfr. Cass., Sez. 1, 12 luglio 2007, n. 15611; 22 agosto 2006, n. 18241; 16 maggio 2005, n. 10210).
4.1. - Non può pertanto condividersi la sentenza impugnata, nella parte in cui, dato atto dell'avvenuta pronuncia della separazione con addebito ad entrambi i coniugi, ha affermato che la domanda di riconoscimento dell'assegno proposta dalla R. poteva fondarsi esclusivamente sullo stato di bisogno della richiedente, e l'ha conseguentemente rigettata, ritenendo che non fosse stata raggiunta la prova di tale presupposto. Il legame in tal modo istituito tra la pronuncia di addebito e lo stato di bisogno è infatti configurabile esclusivamente in riferimento al giudizio di separazione, nell'ambito del quale, ai sensi dell'art. 156 c.c., commi 1 e 3, l'accoglimento della domanda di addebito preclude il riconoscimento dell'assegno di mantenimento in favore del coniuge al quale sia stata ascritta la responsabilità della disgregazione del nucleo familiare, fermo restando il diritto di quest'ultimo agli alimenti, la cui attribuzione presuppone però, ai sensi dell'art. 438 c.c., comma 1, l'accertamento di uno stato di bisogno. Nel giudizio di divorzio, invece, il riconoscimento dell'assegno non è precluso ne' dall'autosufficienza economica del richiedente, occorrendo soltanto che quest'ultimo non disponga di mezzi adeguati alla conservazione del precedente standard di vita, ne' dall'addebito della separazione, che può incidere soltanto sulla misura dell'assegno, per effetto della valutazione demandata al giudice di merito in ordine alle cause del venir meno della comunione materiale e spirituale di vita tra i coniugi.
Tale valutazione non può d'altronde riguardare, come nella specie, esclusivamente la condotta del richiedente, ma deve estendersi alla dinamica complessiva dei rapporti interni al nucleo familiare, anche successiva alla cessazione della convivenza, nel quadro di un'analisi ponderata e bilaterale che, investendo anche il comportamento tenuto dal coniuge onerato, l'incidenza di difficoltà oggettive o l'intervento di eventuali agenti perturbatori, consenta di cogliere la portata del contributo concretamente fornito da ciascuna delle parti al fallimento dell'unione.
5. - L'accoglimento delle predette censure, imponendo la cassazione della sentenza impugnata, nella parte riguardante l'accertamento del presupposto necessario per il riconoscimento del diritto all'assegno, comporta l'assorbimento del quarto e del quinto motivo, con cui la ricorrente deduce l'omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, lamentando la mancata o errata valutazione degli elementi da lei addotti a sostegno della relativa domanda, nonché la mancata ammissione dei mezzi di prova da lei richiesti.
6. - È invece inammissibile il sesto ed ultimo motivo, con cui la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., dell'art. 277 c.p.c., comma 1, e dell'art. 359 cod. proc. civ., osservando che la Corte d'Appello, oltre ad aver fatto erroneamente riferimento ad un non meglio precisato contributo di mantenimento, in luogo dell'assegno divorzile, che costituiva oggetto della domanda proposta da essa ricorrente, ha omesso di pronunciare su tutti i motivi dedotti nell'atto di appello, senza neppure dichiarare l'eventuale assorbimento di alcune questioni. 6.1. - Al di là dell'indicazione della terminologia tecnicamente più corretta, l'accenno all'espressione impropriamente utilizzata nella sentenza impugnata non si è infatti tradotto nella formulazione di una specifica censura in ordine all'inter-pretazione della domanda fornita dalla Corte territoriale, il cui operato sarebbe stato peraltro sindacabile in sede di legittimità esclusivamente sotto il profilo della correttezza e logicità della motivazione, e non già per violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., ravvisabile unicamente nell'ipotesi in cui il ricorrente lamenti l'omesso esame di una domanda o la pronuncia su una domanda non proposta (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 3, 18 maggio 2012, n. 7932;
Cass., Sez. lav., 24 luglio 2008, n. 20373; Cass., Sez. 1, 7 luglio 2006, n. 15603).
La ricorrente, d'altronde, non si duole dell'errata individuazione dell'oggetto della domanda, che la sentenza impugnata sembra aver correttamente inteso, indipendentemente dall'inesatta individuazione del presupposto necessario per il suo accoglimento, ma solo del mancato esame delle questioni prospettate con alcuni dei motivi di gravame. La censura non risulta tuttavia accompagnata da una specifica indicazione delle doglianze proposte con l'atto di appello, indispensabile per consentire di verificarne il contenuto e di valutare la decisività delle questioni sollevate dalla parte e non trattate nella sentenza impugnata, non essendo questa Corte tenuta a rintracciare al di fuori del contesto del ricorso le ragioni che dovrebbero sostenerlo, ma potendo al più cercarvi riscontro negli atti processuali, a condizione che le stesse siano state puntualmente formulate nel ricorso (cfr. Cass., Sez. lav., 17 agosto 2012, n. 14561; Cass., Sez. 2, 2 dicembre 2005, n. 26234; Cass., Sez. 3, 23 febbraio 2004, n. 3547; 11 gennaio 2002, n. 317).
7. - La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dai motivi accolti, con il conseguente rinvio della causa alla Corte d'Appello di Milano, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi tre motivi di ricorso, dichiara inammissibile il sesto motivo, cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Corte di Appello di Milano, anche per la liquidazione delle spese processuali. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 19 marzo 2013.
Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2013