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LA FAMIGLIA E LA TUTELA DEGLI INCAPACI (di Francesca Ceroni) CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE UFFICIO DEL MASSIMARIO

SOMMARIO: 1. Matrimonio. – 1.1. Il matrimonio tra persone dello stesso sesso. – 1.2. Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio in ipotesi di “prolungata convivenza”. – 2. La crisi del matrimonio. – 2.1. L’assegnazione della casa familiare. – 2.2. Il preliminare stipulato da un coniuge e la sentenza ex art. 2932 cod. civ. – 2.3. L’immobile adibito a residenza della famiglia di fatto. – 2.4. Il mantenimento della prole. – 2.5. I diritti dell’ex coniuge superstite. – 2.6 Gli accordi prematrimoniali in vista del divorzio. – 3. Le questioni processuali. – 3.1. La rappresentanza dei figli minori e l’amministrazione dei loro beni. – 3.2. Il disconoscimento di paternità. – 3.3. La dichiarazione giudiziale di paternità. – 3.4. Decadenza dalla potestà ed impugnazione del decreto di adozione. – 3.5. La cessazione della convivenza. – 3.6. I procedimenti di separazione e divorzio. – 4. La validità delle direttive anticipate di trattamento sanitario.

 

1. Matrimonio. – 1.1. Il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
In tema di matrimonio, la Suprema Corte per la prima volta affronta la specifica questione del c.d. “matrimonio gay”, esprimendosi con la sentenza Sez. 1, n. 4184 (Rv. 621779) sulla seguente fattispecie.

Due cittadini italiani dello stesso sesso contraggono matrimonio all’estero e chiedono al sindaco del comune della loro residenza la trascrizione dell’atto del predetto matrimonio. Il sindaco, interpellato quale ufficiale del Governo, rifiuta la trascrizione richiesta, ai sensi del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 18, essendo detto atto di matrimonio, formato all’estero, non suscettibile di trascrizione perché contrario all’ordine pubblico. Avverso il provvedimento di rifiuto della trascrizione gli sposi propongono ricorso al Tribunale ordinario di Latina che – in contraddittorio con il Sindaco del Comune di Latina e con il Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale – respinge il ricorso; questi, di conseguenza, adiscono con reclamo la corte territoriale, che, tuttavia, conferma la decisione dei giudici di prime cure, utilizzando un argomento fondamentale: l’atto di matrimonio non poteva essere trascritto «perché non presenta uno dei requisiti essenziali per la sua configurabilità come matrimonio nell’ordinamento interno: la diversità di sesso tra i coniugi».

La Corte di cassazione, chiamata, quindi, a decidere se due cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all’estero, siano, o no, titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano, pur confermando il dispositivo del giudice di merito che ne ha negato la trascrivibilità, ha escluso che il matrimonio fra persone dello stesso sesso non sia configurabile come matrimonio, in quanto anche ai sensi dell’art. 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come evolutivamente interpretato dalla Corte di Strasburgo (sentenza del 24 giugno 2010, Schalk e Kopf c. Austria), la diversità di sesso dei nubendi non costituisce presupposto “naturalistico” di “esistenza” del matrimonio. La Corte con la decisione indicata ha, quindi, concluso che «il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all’estero, non è inesistente per l’ordinamento italiano, ma soltanto inidoneo a produrre effetti giuridici».

La Corte, inoltre, pur affermando che le persone dello stesso sesso conviventi in stabile relazione di fatto sono titolari del diritto alla «vita familiare» ex art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e che, quindi, nell’esercizio di tale diritto inviolabile possono adire il giudice per rivendicare, in specifiche situazioni correlate ad altri diritti fondamentali, un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata, ha, tuttavia, affermato che il diritto fondamentale di contrarre matrimonio non è riconosciuto dalla nostra Costituzione a due persone dello stesso sesso e che l’art. 2 Cost. neppure vincola il legislatore a garantire tale diritto quale forma esclusiva del riconoscimento giuridico dell’unione omosessuale, mentre garantisce il «diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia», il quale comporta che i componenti della “coppia omosessuale” hanno il diritto di chiedere, a tutela di specifiche situazioni e in relazione ad ipotesi particolari, un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla “coppia coniugata”.

1.2. Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio in ipotesi di “prolungata convivenza”. In tema di delibazione delle sentenze del tribunale ecclesiastico è insorto contrasto all’interno della Prima Sezione civile.

Infatti, la Sez. 1, n. 9844 (Rv. 623199) e la Sez. 1, n. 8926 (Rv. 622851) hanno ritenuto l’una ostativa e l’altra irrilevante la prolungata convivenza dei coniugi, ai fini della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno.

In un recente passato, la sentenza n. 1343 del 2011 (Rv. 616119), che la citata ordinanza n. 9844 ha mostrato di condividere nel suo percorso ermeneutico, aveva affermato che è «ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario la convivenza prolungata dai coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio, in quanto essa è espressiva di una volontà di accettazione del rapporto che ne è seguito, con cui è incompatibile, quindi, l’esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione, altrimenti riconosciuta dalla legge». Il collegio, in questa seconda decisione, ha implementato la struttura argomentativa precedente, sottolineando che ciò che importa, ed è ostativo alla delibazione, non è la mera durata del matrimonio-atto, ma la reale durata del matrimonio - rapporto, fondato sulla convivenza tra i coniugi, in quanto l’ordine pubblico interno matrimoniale evidenzia un palese favor per la validità del matrimonio, quale fonte del rapporto familiare incidente sulla persona e oggetto di rilievo e tutela costituzionali (cfr. Sez. Un., n. 19809 del 2008, Rv. 604842-3).

Deve, in proposito, aggiungersi che, sulla stessa linea interpretativa, già la Sez. 1, n. 1780 (non massimata) aveva chiarito che «il limite di ordine pubblico postula che non di mera coabitazione materiale sotto lo stesso tetto si sia trattato – che nulla aggiungerebbe ad una situazione di mera apparenza del vincolo – bensì di vera e propria convivenza significativa di un’instaurata affectio familiae, nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci – per l’appunto, come tra (veri) coniugi (art. 143 cod. civ.) – tale da dimostrare l’instaurazione di un matrimonio-rapporto duraturo e radicato, nonostante il vizio genetico del matrimonio-atto».

2. La crisi del matrimonio. –
2.1. L’assegnazione della casa familiare.

Riguardo all’assegnazione della casa familiare, con le pronunzie Sez. 3, n. 2103 (Rv. 621670) e n. 14177 (Rv. 623723) la Cassazione, in continuità con l’orientamento nel tempo consolidatosi (v. Sez. Un., n. 13603 del 2004, Rv. 575657), relativamente alla fattispecie, assai ricorrente, di comodato di un immobile stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare, ha chiarito non solo che il vincolo di destinazione appare idoneo a conferire all’uso, cui la cosa è destinata, il carattere di elemento idoneo ad individuare il termine implicito della durata del rapporto, rientrando tale ipotesi nella previsione dell’art. 1809, primo comma, cod. civ., ma anche che, una volta cessata la convivenza ed in mancanza di un provvedimento giudiziale di assegnazione del bene, questo deve essere restituito al comodante, essendo venuto meno lo scopo cui il contratto era finalizzato (Rv. 621670), puntualizzando successivamente pure che il giudice della separazione «è tenuto a verificare che la concessione in comodato del bene sia stata effettuata nella prospettiva della sua utilizzazione quale casa familiare» (Rv. 623723).

Con riferimento a questa delicata fattispecie, la sentenza Sez. 1, n. 16769 (Rv. 624104) precisa ulteriormente che il provvedimento giudiziale di assegnazione non modifica né la natura, né il contenuto del titolo di godimento dell’immobile, essendo unicamente finalizzato ad escludere uno dei coniugi dalla utilizzazione in atto e a “concentrare” il godimento del bene in favore della persona dell’assegnatario. Conclude, quindi, la Corte che la specificità della destinazione impressa, per effetto della concorde volontà delle parti, è incompatibile con un godimento contrassegnato dalla provvisorietà, che legittima la cessazione ad nutum, cosicché, in caso di godimento concesso a tempo indeterminato, questo permarrà anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno.

Precisa, poi, la decisione Sez. 1, n. 4555 (Rv. 622183), con riferimento alla necessità che permanga la convivenza tra il figlio maggiorenne ed il nucleo familiare, ai fini dell’assegnazione dell’abitazione, che la nozione di convivenza “rilevante” comporta la stabile dimora presso l’abitazione di uno dei genitori, con eventuali, sporadici allontanamenti per brevi periodi, e con esclusione, quindi, della ipotesi di saltuario ritorno presso detta abitazione per i fine settimana, ipotesi nella quale si configura invece un rapporto di mera ospitalità. La Corte, nell’occasione, chiarisce che pur dovendo sussistere un collegamento stabile con l’abitazione del genitore, tuttavia la coabitazione può non essere quotidiana, essendo tale concetto compatibile con l’assenza del figlio anche per periodi non brevi per motivi di studio o di lavoro, purché egli vi faccia ritorno regolarmente appena possibile; quest’ultimo criterio, precisa, deve coniugarsi con quello della prevalenza temporale dell’effettiva presenza, in relazione ad una determinata unità di tempo (anno, semestre, mese).

Sempre con riferimento alle ricadute del dato temporale sul complesso degli elementi necessari per disporre l’assegnazione ovvero la revoca dell’assegnazione della casa familiare, la Sez. 1, n. 14348 (Rv. 624027) ritiene che anche l’allontanamento sistematico da questa del genitore assegnatario (nella specie per cinque giorni alla settimana) non integra la condizione essenziale per la revoca predetta, non essendo connotato dal carattere di stabilità.

Riguardo, poi, all’opponibilità a terzi dell’assegnazione della casa familiare, la Corte nel 2012 diverge da un suo precedente orientamento consacrato anche a Sezioni Unite (sent. n. 11096 del 2002), per il quale «ai sensi dell’art. 6, comma 6, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (nel testo sostituito dall’art. 11 della legge 6 marzo 1987, n. 74), applicabile anche in tema di separazione personale, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorché non trascritto, al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell’assegnazione, ovvero – ma solo ove il titolo sia stato in precedenza trascritto – anche oltre i nove anni», ed afferma, al contrario, con la decisione della Sez. 3, n. 12466 (Rv. 623486), che «l’assegnazione al coniuge affidatario dei figli, in sede di separazione, del godimento dell’immobile di proprietà esclusiva dell’altro non impedisce al creditore di quest’ultimo di pignorarlo e di determinarne la vendita coattiva». Cfr. pure, in argomento, il cap. V, § 2.

2.2. Il preliminare stipulato da parte di un coniuge e la sentenza ex art. 2932 cod. civ. Con sentenza della Sez. 2, n. 12923 (Rv. 623429), il giudice di legittimità ha affermato il seguente principio: «per l’esecuzione in forma specifica, a norma dell’art. 2932 cod. civ., di un preliminare di vendita di un bene immobile rientrante nella comunione legale dei coniugi, non è necessaria la sottoscrizione di entrambi i promittenti venditori, ma è sufficiente il consenso del coniuge non stipulante, traducendosi la mancanza di detto consenso in un vizio di annullabilità, da far valere, ai sensi dell’art. 184 cod. civ., nel rispetto del principio generale della buona fede e dell’affidamento, entro il termine di un anno, decorrente dalla conoscenza dell’atto o dalla trascrizione».

Inoltre, Sez. 3, n. 12466 (Rv. 623485), in applicazione degli insegnamenti di Sez. Un., n. 17952 del 2007 (Rv. 598342) e Sez. 3, n. 4907 del 2011 (Rv. 616869), ha ritenuto che, nel caso in cui l’immobile sia coattivamente trasferito ex art. 2932 cod. civ. dopo la separazione, questo non cade in comunione legale e ciò in quanto lo scioglimento della comunione legale dei beni fra coniugi si verifica, con effetto ex nunc, dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione ovvero dell’omologazione degli accordi di separazione consensuale, mentre la sentenza di esecuzione in forma coattiva dell’obbligo di contrarre, ex art. 2932 cod. civ., produce gli effetti del contratto definitivo, che è destinata a surrogare, solo con il passaggio in giudicato e, pertanto, l’effetto acquisitivo del diritto di proprietà sull’immobile si verifica in un momento in cui la comunione legale è già sciolta, di talché di quel diritto è titolare, in via esclusiva, il promissario acquirente.

2.3. L’immobile adibito a residenza della famiglia di fatto. La Corte con sentenza Sez. 2, n. 9786 (Rv. 622725), rispondendo al quesito di diritto: «se, secondo l’art. 1140 cod. civ., la convivenza more uxorio, generatrice della costituzione di una famiglia di fatto, protrattasi per oltre venti anni, determina in capo al convivente superstite non proprietario dell’abitazione una relazione di detenzione con il bene e non pone di per sé in essere un potere sulla cosa che possa essere configurato come possesso autonomo sullo stesso bene e quindi valido all’acquisto della proprietà per usucapione», afferma che il convivente more uxorio del soggetto possessore dell’immobile in cui risiede la famiglia di fatto, in ragione di tale sola convivenza, pur qualificata dalla stabilità della relazione e protetta dall’ordinamento, non è compossessore con quello, ma detentore autonomo dell’immobile stesso, che, dunque, non può usucapire.

2.4. Il mantenimento della prole. In tema di mantenimento della prole, la Corte con la decisione della Sez. 1, n. 9372 (Rv. 623108) si esprime per la prima volta sulla questione relativa all’ammissibilità o meno della “forfetizzazione” delle spese straordinarie, da includersi “cumulativamente” nell’ammontare dell’assegno di mantenimento posto a carico di uno dei genitori e la risolve negativamente sul rilievo della impossibilità di fissare forfettariamente e in via aprioristica ciò che per sua natura è imponderabile e imprevedibile; la Corte, inoltre, nega che si possa introdurre, nell’individuazione del contributo in favore della prole, «una sorta di alea», in quanto incompatibile con «i principî che regolano la materia».

Con riferimento alla violazione dell’obbligo di mantenimento, la Sez. 1, n. 5652 (Rv. 622137-622138) afferma, pur nell’ambito di un giudizio per il riconoscimento della paternità naturale, la configurabilità di un’autonoma azione volta al risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., ammettendo, in modo assai significativo, la risarcibilità del danno conseguente alla violazione dei doveri di “cura” del genitore (il quale nella specie si era per lunghi anni disinteressato al figlio) e accogliendo la pretesa risarcitoria originata dal pregiudizio di «natura esistenziale», derivante dalla «volontaria, grave e reiterata sottrazione agli obblighi tutti derivanti dal rapporto di filiazione» e riconoscendo in conclusione la risarcibilità della «lesione dei fondamentali diritti della persona inerenti la qualità di figlio».

2.5. I diritti dell’ex coniuge superstite. Con riferimento al trattamento economico del coniuge divorziato, nel corso del 2012 la Corte di legittimità rivede il proprio orientamento, ribadito più volte anche recentemente (diff. Sez. 1, n. 13108 del 2010, Rv. 613506; n. 16744 del 2011, Rv. 619161), e con la sentenza della Sez. L, n. 3635 (Rv. 621939) afferma che l’erogazione dell’assegno divorzile una tantum, sia esso rappresentato da una mera somma, anche rateizzata, ovvero dal trasferimento di un altro bene o diritto, laddove idoneo a definire stabilmente i rapporti economici tra le parti, è incompatibile con ulteriori prestazioni aggiuntive, ivi compresi trattamenti pensionistici; mentre per l’orientamento pregresso menzionato era irrilevante la modalità solutoria del debito pattuita fra le parti, consentendo espressamente l’art. 5, ottavo comma, della legge 1° dicembre 1970, n
898, la forma una tantum in via alternativa all’ordinaria corresponsione periodica.

2.6. Gli accordi prematrimoniali in vista del divorzio. In linea con «un sistema normativo ormai orientato a riconoscere sempre più spazi di autonomia ai coniugi nel determinare i propri rapporti economici, anche successivi alla crisi coniugale», la Cassazione con la decisione n. 23713 (in corso di mass.) inquadra in un contratto atipico con condizione sospensiva lecita, espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 1322, secondo comma, cod. civ., l’impegno negoziale assunto dai nubendi in caso di “fallimento” del matrimonio (la moglie si impegnava a trasferire al marito un immobile di sua proprietà, quale indennizzo delle spese sostenute per la ristrutturazione di altro immobile, pure di sua proprietà, adibito a casa coniugale, mentre il marito, a sua volta, si impegnava a cedere alla moglie un titolo BOT di lire 20.000.000).

La Corte, tuttavia, non esprime un giudizio di validità, nel nostro ordinamento, dei patti prematrimoniali in vista del divorzio, molto frequenti in altri Stati ed, in particolare in quelli di cultura anglosassone, ma inquadra l’accordo negoziale dei nubendi in un «vero e proprio contratto caratterizzato da prestazioni e controprestazioni tra loro proporzionali (…) libera espressione della loro autonomia negoziale, estraneo peraltro alla categoria degli accordi prematrimoniali (ovvero effettuati in sede di separazione consensuale) in vista del divorzio, che intendono regolare l’intero assetto economico tra i coniugi o un profilo rilevante (come la corresponsione di assegno), con possibili arricchimenti e impoverimenti». Il fallimento del matrimonio, pertanto, non è «causa genetica dell’accordo, ma è degradato a mero “evento condizionale”» ed è questa, in buona sostanza, la ragione fondamentale per la quale la Corte appone il crisma della legalità alla vicenda al suo esame.

3. Le questioni processuali. –
3.1. La rappresentanza dei figli minori e l’amministrazione dei loro beni.

Con sentenza della Sez. 2, n. 13520 (Rv. 623633), in continuità con una risalente decisione (n. 8177 del 1996, Rv. 499531) la Corte afferma che «la competenza ad autorizzare la vendita di immobili ereditati dal minore soggetto alla potestà dei genitori appartiene al giudice tutelare del luogo di residenza del primo, a norma dell’art. 320, terzo comma, cod. civ., unicamente per quei beni che, provenendo da una successione ereditaria, si possono considerare acquisiti al suo patrimonio. Ne consegue che, ai sensi del primo comma dell’art. 747 cod. proc. civ., la competenza spetta, sentito il giudice tutelare, al tribunale del luogo di apertura della successione, ove il procedimento dell’acquisto iure hereditario non si sia ancora esaurito per essere pendente la procedura di accettazione con beneficio di inventario, in quanto, in tale ipotesi, l’indagine del giudice non è circoscritta soltanto alla tutela del minore, ai sensi dell’art. 320 cod. civ., ma si estende a quella degli altri soggetti interessati alla liquidazione dell’eredità, così evitandosi una disparità di trattamento fra minori in potestate e minori sotto tutela, con riguardo alla diversa competenza a provvedere per i primi (giudice tutelare ai sensi dell’art. 320 cod. civ.) e i secondi (tribunale quale giudice delle successioni, in base all’art. 747 cod. proc. civ.)».

Ancora in conformità con un orientamento consolidato, anche questo risalente (v. Sez. Un., n. 4573 del 1983, Rv. 429449; Sez. 2, n. 1546 del 1974, Rv. 369682; Sez. 2, n. 8484 del 1999, Rv. 529213), la decisione della Sez. 2, n. 743 (Rv. 621236) considera l’autorizzazione del giudice tutelare ex art. 320 cod. civ. necessaria per promuovere giudizi relativi ad atti di amministrazione straordinaria, che possono cioè arrecare pregiudizio o diminuzione del patrimonio e non anche per gli atti diretti al miglioramento e alla conservazione dei beni che fanno già parte del patrimonio del soggetto incapace. Precisa, in proposito, che si atteggiano ad atti di ordinaria amministrazione, per i quali non è necessaria la predetta autorizzazione, tanto l’azione di rivendica finalizzata ad accrescere o a tutelare in senso migliorativo il patrimonio dell’incapace, quanto l’assunzione di una posizione processuale assimilabile a quella di un convenuto, come l’intervento volontario in giudizio per contrastare la domanda dell’attore di riconoscimento di un diritto di proprietà, giacché il provvedimento del giudice tutelare è richiesto solo quando il minore assuma la veste di attore in primo grado, ma non per le difese e gli atti diretti a resistere all’azione avversaria.

Sempre in tema di rappresentanza dei figli minori e di amministrazione dei loro beni, la Sez. 1, n. 3393 (Rv. 621500) affronta per la prima volta la questione se l’art. 320 cod. civ. sia derogato o meno dall’art. 159 cod. postale, e, quindi, se sia necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare ai fini della riscossione dei capitali per i buoni fruttiferi recanti indicazione del nome del genitore quale rappresentante. La Corte nega la configurabilità di una deroga, evidenziando come l’art. 159 cod. postale non disciplini l’ipotesi della indicazione del rappresentante del minore sul titolo, dovendo, pertanto, applicarsi la regola generale costituita dall’art. 320 cod. civ.

Infine, in tema di competenza per le cause relative alle gestioni tutelari e patrimoniali, la Sez. 6-1, n. 7621 (Rv. 622577), con riferimento alla portata dell’art. 24 cod. proc. civ., consapevole dell’orientamento risalente (Sez. 1, n. 3322 del 1960, Rv. 882656; n. 1588 del 1962, Rv. 252537) fondato sulla prevalenza del forum domicilii, condiviso da larga parte della dottrina, afferma, al contrario, il principio per il quale «l’art. 24 cod. proc. civ. nel designare la competenza del “giudice di esercizio della tutela”, intende riferirsi al giudice presso il quale la tutela risulti formalmente aperta ed al quale il tutore debba presentare il rendiconto, ovvero, in caso di omissione, possa procedersi ai sensi dell’art. 386, terzo comma, cod. civ.; infatti, il termine “tutela” rinvia ad una precisa nozione giuridica, che include il complesso delle attività svolte, nell’interesse della persona ad essa soggetta, non solo dal tutore, ma soprattutto dall’autorità giudiziaria».

3.2. Il disconoscimento di paternità. In tema di disconoscimento della paternità, la Corte nel 2012 si pronuncia – Sez. 1, n. 11644 (Rv. 623190) – su un tema che ha suscitato vivo interesse nell’opinione pubblica ed un vivace dibattito sia in giurisprudenza che in dottrina, ponendo un principio, in una materia assai delicata come quella della filiazione scaturita da inseminazione artificiale, per il quale la disciplina contenuta nell’art. 235 cod. civ. è applicabile anche a filiazioni ottenute con questa particolare tecnica di concepimento, superando così il divieto generalizzato di disconoscimento posto dal precedente risalente di Sez. 1, n. 2315 del 1999 (Rv. 524915), che, sul presupposto dell’estraneità della procreazione assistita all’adulterio (infatti la procreazione «esigeva indefettibilmente la congiunzione carnale fra uomo e donna») escludeva la diretta riferibilità di tale disciplina al caso d’inseminazione artificiale; la recente decisione della Corte, al contrario, introduce «una specifica eccezione in tema di legittimazione ad agire ai sensi dell’art. 235 cod. civ., escludendola nelle sole ipotesi in cui, anche per facta concludentia sia desumibile il consenso del coniuge, che tale azione intenda esperire, al ricorso al metodo di fecondazione assistita. Infatti, il quadro normativo, a seguito dell’introduzione della l. n. 40 del 2004, per come formulata e per come interpretabile alla luce delle sempre più incisiva affermazione del principio del favor veritatis,si è arricchito di una nuova ipotesi, per certi versi tipica, di disconoscimento, che si aggiunge a quelle previste dall’art. 235 cod. civ., e che si fonda – stante la non piena assimilabilità dell’inseminazione artificiale alle previsioni di tale norma, come evidenziato dal giudice di legittimità con la richiamata decisione n. 2315 del 1999 – sulla esigenza di affermare la primazia del favor veritatis. Tale soluzione, a ben vedere, si colloca – sotto il profilo soggettivo – nell’ambito dell’ampliamento della sfera delle persone legittimate all’esercizio dell’azione di disconoscimento, nel senso che, una volta escluso il principio dell’incompatibilità fra fecondazione artificiale e disconoscimento, non sembra possano sussistere limiti per l’esercizio di tale azione da parte del figlio, certamente estraneo al consenso eventualmente prestato dal genitore e portatore di un interesse alla verità biologica che, per le ragioni indicate, deve considerarsi meritevole di tutela». La conseguenza sotto il profilo processuale «stante l’identità di ratio e, comunque, per evidenti ragioni sistematiche» è l’applicabilità dell’ipotesi di decadenza prevista dall’art. 244 cod. civ., il cui termine inizierà a decorrere «al momento in cui si sia acquisita la certezza del ricorso a tale metodo di procreazione».

Con riferimento a quest’ultimo profilo, la Sez. 1, n. 9380 (Rv. 623202) ha, altresì, ritenuto che «l’onere di provare la tempestiva conoscenza della causa d’incapacità procreativa nel termine decadenziale, previsto dall’art. 235, n. 3, cod. civ., non può essere sostituito da un mero riscontro diagnostico dell’impotenza generativa eseguito nell’anno antecedente l’azione, poiché tale riscontro riguarda i presupposti del fondamento dell’incompatibilità genetica tra padre e figlio legittimo e non la tempestiva conoscenza del presupposto legittimante»; la Corte afferma, quindi, il principio dell’insufficienza dell’indagine tecnica di natura clinica, in quanto non è oggetto di prova una condizione patologica, ma il momento positivo dell’intervenuta consapevolezza di tale condizione, con la conseguenza che l’interessato non potrà concentrarsi unicamente sulla prova della condizione soggettiva predetta, non offrendo tale accertamento la certezza, in mancanza di qualunque altro elemento integrativo, del “tempo” della conoscenza di detta condizione, né potrebbe farsi gravare su controparte l’onere della prova contraria dell’intervenuta conoscenza pregressa.

Ancora in tema di disconoscimento della paternità, la sentenza della Sez. 1, n. 9379 (Rv. 623110), per la prima volta, pone il principio per il quale la nullità del matrimonio non rende priva di oggetto l’azione di disconoscimento della paternità di cui all’art. 235 cod. civ., poiché la retroattività della relativa pronunzia non fa venir meno la presunzione legale di paternità di cui all’art. 231 cod. civ., a norma della quale il marito della madre è padre del figlio da essa concepito durante il matrimonio.

3.3. La dichiarazione giudiziale di paternità.
La Corte con la decisione Sez. 1, n. 12549 (Rv. 623469) risolve la questione processuale, non infrequente nel delicato contenzioso di competenza del tribunale per i minorenni, circa l’eventuale «graduatoria fra i due distinti valori rispettivamente afferenti “al diritto all’identità biologica” e “al diritto del cadavere”»; la Corte, infatti, nei giudizi diretti ad ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti di una persona deceduta esclude la necessità di consenso dei congiunti per l’espletamento della consulenza tecnica sul DNA di questa, non essendo configurabile un loro diritto soggettivo sul corpo di quest’ultima, in quanto non è previsto da alcuna disposizione normativa il loro consenso per accertamenti da eseguire per finalità di giustizia.

3.4. Decadenza dalla potestà e impugnazione del decreto di adozione.
Principio importante in tema di dichiarazione di decadenza dalla potestà è posto da Sez. 1, n. 6051 (Rv. 622309), che, con l’occasione, definisce compiutamente l’architettura dell’art. 30 Cost., sui doveri e diritti dei genitori, declinato nei procedimenti de potestate. La Corte ritiene, in proposito, la dichiarazione di decadenza dalla potestà genitoriale non ostativa all’impugnazione del provvedimento di adozione in casi particolari, consapevolmente discostandosi da un precedente orientamento contrario interpretato da Sez. 1, n. 9689 del 2002 (Rv. 555513), di cui mostra non condividere gli argomenti di fondo, in quanto non sono «desumibili dalla normativa vigente, interpretata nel suo complesso, elementi idonei a confortare la detta limitazione». In motivazione puntualizza che «sia l’art. 313 cod. civ., richiamato dall’art. 56 della legge 4 maggio 1983, n.184, riferendosi all’adozione di maggiorenni, ovviamente non prevede la legittimazione ad impugnare dei “genitori”, sia questi ultimi in quanto titolari di un’autonomia valutativa in ordine all’individuazione delle soluzioni di maggior utilità per il minore, hanno una posizione processuale propria, che mal si concilia con limitazioni imposte al potere d’impugnazione».

La Corte ancora valuta irrilevante la distinzione tra l’esercizio dell’azione iure proprio e quella in nomine minoris, precisando che i rappresentanti non si limitano ad esprimere e rappresentare la volontà di un soggetto incapace, bensì esercitano la potestà genitoriale in base ad una propria valutazione circa l’utilità e la convenienza per il minore dell’atto da compiere. Detta limitazione, inoltre, risulterebbe priva di ragionevolezza anche sotto il profilo della non “definitività”, essendo comunque la decadenza suscettibile, in ogni tempo, di revoca.

3.5. La cessazione della convivenza.
Nell’ambito di un giudizio per l’affidamento ed il mantenimento del figlio naturale, Sez. 1, n. 7905 (Rv. 622604), a fronte della pronunzia del giudice di merito che aveva dichiarato l’azione inammissibile, sul rilievo della convivenza tra i genitori ancora in atto al momento della proposizione del ricorso, afferma che la cessazione della convivenza fra i genitori naturali non è presupposto processuale, trattandosi invece di una condizione dell’azione. Essa, infatti, non incide sulla esistenza o validità del rapporto giuridico processuale (come si verifica, ad esempio, in mancanza o nullità della domanda giudiziale, oppure nell’ipotesi in cui la domanda sia rivolta a giudice incompetente), ma incide sul diritto ad ottenere una sentenza favorevole. Essendo, quindi, «una condizione dell’azione (condizione della sentenza positiva di accoglimento), è necessario che sussista non nel momento in cui viene introdotto il giudizio, ma nel momento in cui la lite viene decisa. Pertanto detta condizione può venire ad esistenza, senza alcun pregiudizio per l’attore, anche in corso di causa».

3.6. I procedimenti di separazione e divorzio.
Con ordinanza interlocutoria n. 9846, la Prima Sezione ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto in seno alle sezioni semplici circa la questione della esecutività immediata, o no, dei decreti di modifica delle condizioni di divorzio. Un primo orientamento, espresso da Sez. 1, n. 9373 del 2011 (Rv. 617868), ritiene, infatti, che rimangano estranei alla disciplina dell’art. 4, comma 11 (ora 14) della legge n. 898 del 1970 i procedimenti di modifica del regime di divorzio di cui all’art. 9 della legge richiamata e di modifica delle condizioni di separazione di cui all’art. 710 cod. proc. civ., ai quali, pertanto, non si applicherebbe la previsione di esecutorietà delle sentenze di primo grado, in quanto disciplinati dal rito camerale di cui agli art. 737 e segg. cod. proc. civ., rito richiamato espressamente dagli art. 9 e 710 citati, con la conseguenza che, ai fini della esecutività, sarebbe necessario o lo spirare del termine per proporre reclamo, ovvero, se vi sono ragioni d’urgenza, l’ordine del giudice, atteso il disposto dell’art. 741 cod. proc. civ.

L’art. 4 della legge n. 898 del 1970, per il quale la sentenza di primo grado per la parte relativa ai provvedimenti di natura economica è provvisoriamente esecutiva (previsione anteriore alla generalizzata esecutorietà delle sentenze di primo grado, introdotta dalla legge n. 353 del 1990), troverebbe, quindi, applicazione esclusivamente nei confronti dei procedimenti per la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Diverso percorso ermeneutico esprime la più recente sentenza Sez. 3, n. 4376 (Rv. 621722), sostenendo che «il provvedimento che modifica le condizioni di separazione tra i coniugi, pronunciato ai sensi dell’art. 710 cod. proc. civ., è immediatamente esecutivo, in quanto ad esso non si applica il differimento dell’efficacia esecutiva previsto in via generale dall’art. 741 cod. proc.
civ. per gli altri provvedimenti camerali» ed osservando che il richiamo dell’art. 710 cod. proc. civ. alle norme del procedimento camerale è effettuato in modo selettivo, senza implicare quindi un richiamo integrale della disciplina di tale ultimo procedimento. La questione rimessa evidenzia la necessità di coordinamento sistematico con la generale previsione di esecutorietà posta dall’art. 282 cod. proc. civ. e di coerenza interna dei procedimenti speciali in materia di separazione e divorzio, trattandosi di posizioni soggettive direttamente o indirettamente riconducibili a diritti fondamentali della persona, i quali non possono rimanere ineseguiti per un tempo troppo lungo senza che il loro titolare subisca pregiudizi irreversibili.

In applicazione del principio della libertà delle forme propria del rito camerale, Sez. 1, n. 5876 (Rv. 622135) afferma che «nel rito camerale previsto dall’art. 4, comma 12, della legge 1 dicembre 1970 n.898, l’allegazione di documenti può eseguirsi anche oltre i termini fissati a tal fine, ma a condizione che sia rispettato il diritto dell’altra parte a interloquire sulla loro tardiva produzione»;
così come, con riferimento al reclamo, avverso i provvedimenti di modifica delle condizioni del divorzio resi ai sensi dell’art. 9, primo comma, della legge n. 898 del 1970, la Sez. 1, n. 3924 (Rv.621505) ritiene possano essere allegati fatti nuovi.

Ancora con riferimento ai giudizi di separazione o di divorzio dei genitori, Sez. 1, n. 4296 (Rv. 622073) ammette l’intervento del figlio maggiorenne per far valere un diritto relativo all’oggetto della controversia (nella specie rimborso per quanto versato dal genitore convivente per il mantenimento) o eventualmente in via adesiva, trattandosi di posizioni giuridiche meritevoli di tutela ed intimamente connesse, che comportano la legittimazione ad agire.

Infine, la Sez. 1, n. 3378 (Rv.621571), ripresa successivamente da Sez. 1, n. 12989 (Rv. 623519), ribadisce il principio già affermato dalla Sez. 1, n. 4795 del 2005 (Rv. 584023-4), per il quale «la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha causa petendi e petitum diversi da quelli della domanda di nullità del matrimonio concordatario, investendo il matrimonio e non l’atto con il quale è stato costituito il vincolo tra i coniugi» ed aggiunge che «il riconoscimento degli effetti civili della sentenza di nullità del matrimonio concordatario pronunciata dai tribunali ecclesiastici non è precluso dalla preventiva instaurazione di un giudizio di separazione personale tra gli stessi coniugi dinanzi al giudice dello Stato italiano».


4. La validità delle direttive anticipate di trattamento sanitario.
Con pronunzia Sez. 1, n. 23707 (in corso di massimazione), la Corte di legittimità, decidendo su una controversia insorta in seguito ad una istanza di nomina di amministratore di sostegno da parte di soggetto nel pieno delle facoltà fisiche e psichiche in previsione di una propria futura ed eventuale incapacità, conferma l’assunto dei giudici di merito circa la necessità dell’attualità dello stato d’incapacità del designante per consentire l’attivazione della procedura e l’ingresso dell’istituto.
Tuttavia, pur premettendo l’estraneità al thema decidendum, ha per la prima volta affrontato la questione della natura e degli effetti delle direttive anticipate di trattamento sanitario, in quanto il ricorrente, in una scrittura privata allegata all’istanza, aveva indicato i trattamenti terapeutici, ai quali escludeva di voler essere sottoposto in futuro, quali la rianimazione cardiopolmonare, la dialisi, la trasfusione, la terapia antibiotica, la ventilazione o alimentazione forzata artificiale in caso di malattia allo stato terminale o lesione cerebrale irreversibile e invalidante, mentre in tale evenienza chiedeva assumersi cure dirette ad alleviare il dolore, compreso l’uso di oppiacei, anche se comportanti l’anticipo del fine vita.

Il Collegio ha, quindi, rilevato come «il nostro legislatore diversamente da quello di altri Stati europei – Francia, Germania, Austria e Spagna – non è ancora intervenuto» ed ha chiarito che «l’intervento dell’amministratore di sostegno designato, pur con i limiti operanti in materia di diritti personalissimi, è vincolato alle indicazioni manifestate nella condizione di capacità dal soggetto» ed «ha il potere ed il dovere di esternarle, senza che si ponga la necessità di ricostruire la volontà attraverso atti e/o fatti compiuti in stato di capacità». La Corte argomenta tale esito interpretativo, facendo un sintetico giro d’orizzonte «sul coacervo delle fonti giuridiche interne e sovranazionali» in materia e richiamando, in particolare, l’art. 408 cod. civ., il quale prevede che la scelta dell’amministratore di sostegno avvenga con «esclusivo riguardo alla cura e agli interessi della persona» ed il successivo art. 410 cod. civ., che impone al predetto di agire tenendo conto dei bisogni e delle «aspirazioni» del beneficiario, a maggior ragione se questi le abbia già dichiarate con l’atto di designazione proprio in previsione della sua futura incapacità.
L’atto di designazione, quindi, chiosa il Supremo Collegio «1. - vincolerà l’amministratore di sostegno, seppur i suoi poteri non sono prestabiliti ma sono fissati dal giudice tutelare nell’esercizio del suo potere decisionale, nel perseguire la finalità della “cura” necessaria a garantire la protezione del beneficiario e nell’attuarne le “aspirazioni”, laddove ne venga in rilievo il diritto alla salute, prestando il consenso o il dissenso informato agli atti di cura che impongono trattamenti sanitari; 2.- orienterà l’intervento del sanitario; 3.- ne imporrà la delibazione da parte del giudice nell’esercizio dei suoi poteri, segnatamente nell’attribuzione di quelli da affidare all’amministratore di sostegno, ovvero in sede d’autorizzazione agli interventi che incidono sulla salvaguardia della salute del beneficiato in caso di sua incapacità».

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE UFFICIO DEL M ASSIMARIO Rassegna della giurisprudenza di legittimità Gli orientamenti delle Sezioni Civili Anno 2012 La giurisprudenza delle Sezioni Civili Anno 2012 ˜ Volume I ˜ DIRETTORE: Roberto Triola VICE-DIRETTORE: Ulpiano Morcavallo hanno collaborato alla redazione: AUTORI: Maria Acierno, Francesco Buffa, Eduardo Campese, Enrico Carbone, Francesca Ceroni, Antonio Corbo, Lorenzo Delli Priscoli, Annamaria Fasano, Massimo Ferro, Giuseppe Fuochi Tinarelli, Loredana Nazzicone, Marco Rossetti, Antonio Scarpa. COORDINAMENTO: Loredana Nazzicone ORGANIZZAZIONE: Renato Delfini