Skip to main content

Sulla mediazione meglio conciliare che scioperare

Sulla mediazione meglio conciliare che scioperare - come avvocato formato al negoziato e alla mediazione ritengo che il Dlgs 28/10 possa essere una opportunità per cittadini e professionisti, ma che nel suo impianto presenti alcuni nodi critici che andrebbero sciolti, cosa che certamente non si otterrà con un’altra astensione o manifestazione di piazza. Bisogna invece negoziare con la politica senza la presunzione di sovvertirne la volontà ex cathedra, ma facendo invece ascolto attivo delle ragioni addotte a cura dell' Avv. Giuseppe M. Valenti

Sulla mediazione meglio conciliare che scioperare - come avvocato formato al negoziato e alla mediazione ritengo che il Dlgs 28/10 possa essere una opportunità per cittadini e professionisti, ma che nel suo impianto presenti alcuni nodi critici che andrebbero sciolti, cosa che certamente non si otterrà con un’altra astensione o manifestazione di piazza. Bisogna invece negoziare con la politica senza la presunzione di sovvertirne la volontà ex cathedra, ma facendo invece ascolto attivo delle ragioni addotte a cura dell' Avv. Giuseppe M. Valenti

Alcuni anni fa, mentre navigavo nel golfo di Gaeta, volò in pozzetto un mezzo cefalo. Quel chilo e due che restava del pesce continuava ad agitarsi e boccheggiare furiosamente sul paiolo insanguinato. Il randista lo guardò e disse: “ ’sto disgraziato è morto e non lo sa”.

Devo ad Ester Perifano, o meglio al suo editoriale sulla mediazione per Guida al diritto, il riaffiorare di questo episodio anni 80. La sua avvocatura, o meglio, l’universo giuridico che lei crede di rappresentare, è il cefalo che si agita senza pace benché tranciato a metà dall’inesorabile sopraggiungere dei pesci serra, muore ugualmente dissanguato e soffocato, e per di più sporca il pozzetto. Il problema qui non è, come direbbe Pelù, che pesce grande mangia pesce piccolo, bensì che il riscaldamento del mare ha aumentato la velocità di accrescimento e di conseguenza il numero dei temibili serra, i quali ormai insidiano i cefali anche sotto costa.

Fuor di metafora, lo sviluppo degli A.D.R. è epifania di mutamenti epocali, di tipo tettonico, e non isolata forzatura o incrinatura contingente del cristallino universo giuspositivista in cui siamo cresciuti: sicché possiamo adattarci alla mutazione ambientale e trasformarla in un vantaggio competitivo (pesce serra), oppure subirla come se nulla fosse mutato e schiattare (cefalo).

Dopo i trattati di Nizza e Amsterdam e vieppiù con l’affermarsi del principio di sussidiarietà, nel contesto dell’Unione Europea lo Stato nazionale ha cessato di essere una fonte normativa sovrana ed esclusiva, facendo così venir meno non solo la giustificazione storica e sistematica dell’ordinamento kelseniano e quindi del monopolio giurisdizionale quale potere statale attuativo della norma nel caso concreto (cfr. per tutti Picardi “Extrastatualità della giurisdizione”, in Studi in onore di A. Attardi, 2008), ma addirittura la concezione stessa del giudizio e del processo come strumento di tutela tipica e principale, se non esclusiva, degli interessi giuridicamente rilevanti. In questo senso andrebbe letto il crescente interesse delle istituzioni europee per i cosiddetti ADR, e in particolare per lo strumento della mediazione, che nel nostro paese ha trovato attuazione con il Dlgs 28/10.
Quest’ultimo presenta certo luci ed ombre, dovute soprattutto a una lettura riduttiva dell’istituto in chiave ancillare e deflattiva della giurisdizione, anziché in quella più corretta di altro modo per conseguire un ordine giuridico stabile.

Giudizio civile e mediazione, sentenza e accordo conciliativo hanno infatti il medesimo fine ultimo e rispondono a una medesima esigenza: l’equo contemperamento degli interessi delle parti, cioè la pace sociale. Con la differenza che nel giudizio tale equo contemperamento è rappresentato dalla ricerca di conformità a una norma (legale o convenzionale) data in astratto, mentre nella mediazione lo si raggiunge attraverso la composizione dei concreti interessi consensualmente ritenuti dalle parti meritevoli di tutela. Abbiamo quindi semplicemente due forme dell’ordine giuridico: un ordine dato (legge che si traduce in sentenza) e un ordine negoziato (mediazione o negoziato diretto che si traducono in accordo).
Tuttavia, perfino la legislazione processuale ha sempre più spesso mutuato o fatto ricorso a modelli negoziali, si veda per esempio il nuovo concordato preventivo, o l’accordo di ristrutturazione ex art. 182 bis L.F., richiedendo quindi anche all’avvocato che difenda in sede giudiziale la conoscenza dell’ordine negoziato, dei suoi principi e delle sue tecniche.
La normativa attuale, poi, secondo cui una parte quantitativamente elevata di questioni è soggetta a tentativo obbligatorio di conciliazione, ha sollevato una sorta di guerra di religione, ma se da un lato negoziato e mediazione, fondati sulla consensualità, appaiono antinomici con l’obbligatorietà del tentativo, dall’altro non peregrina appare l’obiezione degli estensori del decreto delegato, secondo cui senza tale obbligatorietà la mediazione sarebbe rimasta del tutto marginale in un contesto in cui si usa sottoporre a processo anche le più banali contese di cortile o le contravvenzioni da parcometro scaduto. In altre parole, secondo i fautori dell’obbligatorietà, essa sarebbe l’unico mezzo idoneo a indurre in tempi ragionevolmente rapidi la società e i professionisti ad assimilare la cultura degli ADR.
L’argomento è tanto valido sul piano politico quanto irrilevante su quello dello stretto diritto, se non nel contesto di una norma transitoria che preveda ab ovo una scadenza per la fine del regime di tentativo obbligatorio (tre anni sarebbero sufficienti), affiancando ulteriori incentivi alla risoluzione stragiudiziale delle controversie.
In tale direzione va l’idea, sostenuta anche dall’Unione Camere Civili, dall’Unione Triveneta dei Consigli degli Ordini forensi e dall’AIAF, di equiparare a scrittura privata autenticata suscettibile di omologazione la conciliazione avvenuta direttamente tra parti assistite da avvocati che sottoscrivano l’accordo conciliativo, in modo da promuovere la cultura della conciliazione tra i professionisti e al contempo far intervenire il conciliatore terzo solo quando necessario alla miglior riuscita del tentativo, limitando così al massimo gli oneri conseguenti.
In ogni caso, proprio il fatto che la disciplina della mediazione vada considerata un segnale di espansione dell’ordine negoziato rispetto al tradizionale primato dell’ordine dato, rende inattuali e perciò velleitarie le considerazioni di Ester Perifano e delle altre cassandre forensi, almeno quanto la pretesa di Wallace di strappare la Scozia a re Edoardo. Il nemico non è l’estemporaneo capriccio di un ministro o la pressione di una lobby occulta o l’irrituale iniziativa di alcuni presidenti di ordini forensi, ma una svolta irreversibile della storia, che nessuno, nemmeno la Corte Costituzionale, può impedire, perché si è già realizzata in un contesto ove essa non ha giurisdizione. Sul piano dottrinario la svolta è che il principio di legalità non può essere un valore assoluto, ma va coniugato col principio di realtà; sul piano operativo questo si traduce con la coscienza che la società civile del terzo millennio chiede alle professioni economico giuridiche (avvocati, giudici, notai, commercialisti, consulenti del lavoro) soluzioni concretamente praticabili in tempi ragionevoli, non elzeviri che “restaurando l’ordine giuridico violato” restino poi precetti di carta. Possiamo anche uccidere nella culla la media conciliazione obbligatoria, ma subito dopo dovremo scegliere tra ripensare la giurisdizione sui diritti disponibili in termini ben più radicali di quanto non abbia saputo immaginare il pensiero federalista o quello corporativo, oppure lasciar sprofondare la giustizia civile nella sommarizzazione o nel marasma.

Per chi non l’avesse compreso, come Perifano, questo è il sangue che sporcherà il pozzetto. Ella intanto, non so se per demagogia o ideologia, con le sue litanie di bis-pensiero (peraltro non unanimemente condivise dalla parte più responsabile di ANF) si è meritatamente conquistata un posto di rilievo nel Presidium di quel Comitato Centrale dei Conservatori Patetici che sono gli attuali vertici dell’avvocatura italiana. Vertici talmente lontani dalla loro base da non saper contare quanti avvocati chiedono di essere accreditati come mediatori o frequentano i corsi di formazione alla mediazione, e talmente spocchiosi e irresponsabili da voler dire loro: siete dei sicofanti, degli avvocaticchi che, siccome non sanno fare i processi, si arrangiano con le mediazioni.

Invece sapete che c’è di nuovo? Che i cefaloni siete voi: Perifano, De Tilla, e quant’altri hanno divorziato dal principio di realtà, cioè dal buon senso. Quel buon senso secondo cui perfino un accordo non particolarmente favorevole è preferibile a una vittoriosa sentenza, epifania di quel precetto evangelico secondo cui la legge è data all’uomo e non l’uomo alla legge. Mitizzare la legge è appunto il peccato di giacobini (cfr. P. Grossi) e farisei: sepolcri imbiancati, come li chiamava il Galileo, che infatti indicava nella riconciliazione lo strumento principe per la pacificazione.
Ma anche senza scomodare Gesù Cristo si può comprendere che, per perseguire efficacemente in concreto la pace sociale in luogo della restaurazione formale di un ordine giuridico astratto, è indispensabile e ineludibile che negoziato e tecniche negoziali diventino materie trattate in modo sistematico tanto nel corso degli studi forensi che nell’ambito della formazione permanente dei professionisti già esercenti.

Senza un adeguato riattrezzamento culturale e tecnico dei professionisti legali, infatti, sarebbe velleitario aspettarsi un qualche risultato dalla mediazione: chiunque abbia pratica esperienza di negoziato e conciliazione sa che senza e contro gli avvocati non si fanno conciliazioni stabili, e sotto questo profilo non si può sottacere che alcune norme della recente legislazione appaiano addirittura presupporre nell’avvocato un ostacolo alla mediazione.
D’altro canto per quanto anzidetto assumere una posizione di totale rifiuto e delegittimazione della normativa in tema di mediazione rischia di essere contro l’interesse degli stessi avvocati tanto sotto il profilo concettuale che sotto quello pratico: sotto il primo perché si accentua e agevola il tentativo di rinchiudere l’avvocato nel ghetto del processo, lasciando tutte le attività stragiudiziali nel limbo di una generica e indifferenziata “consulenza” esercitabile da chicchessia; sotto il secondo perché è comprensibile che con una platea di 200.000 avvocati e il processo civile al collasso ci sia una certa quota di avvocatura che guarda con attenzione, se non con favore, a strumenti che consentano di dare ulteriori risposte alla domanda di tutela dei cittadini.
Perciò l’iniziativa della “cabina di regia” promossa da alcuni presidenti di ordini maggiori, per quanto irrituale e criticabile sotto il profilo metodologico, sul piano dei contenuti esprime però la necessità concreta, sentita da una parte significativa, se non maggioritaria, dell’avvocatura di base, di uscire dalle secche in cui l’hanno infilata i suoi vertici, e segnatamente De Tilla e Perifano, che hanno scatenato una guerra di religione non solo impossibile da vincere, ma le cui giustificazioni e la sua prosecuzione a oltranza assomigliano sempre più agli ossimori di 1984: “La pace è guerra", "La libertà è schiavitù", "L'ignoranza è forza"… De Tilla as Grande Fratello e Perifano as ministero della verità? Che cauchemar!

Comprendo la posizione del primo: in fondo è a fine mandato, e deve farsi offrire una collocazione post OUA.

Invece, se Ester Perifano aspirasse al ruolo di delfino dovrebbe dismettere quanto prima l’abito di Jeannette, senza ingessarsi in posizioni tanto incompatibili con la funzione di sintesi politica propria dell’organismo, quanto difficili da rinnegare.

L’aspirazione della base a sviluppare soluzioni praticabili, piuttosto che enunciare proclami estremistici e velleitari del tipo “spezzeremo le reni ad Alfano” è la nemesi di una leadership autocratica quanto istrionica, dietro i cui fuochi d’artificio non c’è alcuna analisi, nessun progetto strategico o di riforma di lungo periodo: solo strepito e furore, che non vuol dire niente (Shakespeare) o, as you like it, solo chiacchiere e distintivo (Al Capone). Da questo punto di vista la vituperata “cabina di regia” ha solo supplito a un deficit di ascolto e sintesi politica, e quindi di rappresentanza, dell’OUA. Ma di questo rischio io e non solo io avevo avvertito tempestivamente il Presidente De Coccio. In altre parole, non c’è bisogno di cancellare o stravolgere l’Organismo, basta arginare il presidente, o defenestrarlo se insiste a guidare senza freni verso il baratro. Come ribelle senza causa non è credibile.

Invece come avvocato formato al negoziato e alla mediazione ritengo che il Dlgs 28/10 possa essere una opportunità per cittadini e professionisti, ma che nel suo impianto presenti alcuni nodi critici che andrebbero sciolti, cosa che certamente non si otterrà con un’altra astensione o manifestazione di piazza. Bisogna invece negoziare con la politica senza la presunzione di sovvertirne la volontà ex cathedra, ma facendo invece ascolto attivo delle ragioni addotte.
Quest’ultimo clima mi è parso di cogliere nel corso dell’audizione alla Commissione Giustizia del Senato sui DDL di modifica della mediazione tenutasi il 16.06.2011.
Nonostante alcune dissonanze davvero jazz, a mio avviso sarebbe possibile comporre il dissidio sulla mediazione con otto modifiche essenziali:
a) Transitorietà del regime di obbligatorietà del tentativo;
b) In tal caso assistenza legale necessaria durante la mediazione, ma anche la possibilità per la parte di rinunziarvi nelle controversie di valore più modesto, principio peraltro già previsto per i giudizi di minore entità, e correlativo adeguamento delle norme sul gratuito patrocinio;
c) Introduzione della negoziazione diretta assistita da avvocati, con accordo omologabile come titolo esecutivo;
d) Individuazione di un modo di coniugare l’autonomia negoziale della conciliazione con esigenze di competenza territoriale, assegnando alla parte agente ampia libertà di scelta dell’organismo di mediazione, ma dando a quella chiamata la possibilità di non allontanarsi, se lo ritiene, dal suo territorio;
e) Precisazione che il procedimento e l’omologa si può svolgere anche in sede decentrata o concordata tra le parti;
e) Inutilizzabilità nel successivo eventuale giudizio di notizie, atti e documenti dedotti in mediazione è assoluta per le parti da cui essi non provengono;
f) Soppressione dell’articolo 13 del Dlgs 28/10 e quindi della proposta ultimativa a iniziativa del mediatore e la sua influenza sulle spese di giudizio;
g) Previsione della possibilità che l’attestazione dell’informativa sia contenuta nel mandato difensivo o altro atto d’incarico;
h) Previsione di sospensione del giudizio onde svolgere la mediazione a richiesta della parte cui sia stata omessa o resa insufficiente informazione sulla procedura di mediazione, senza conseguenze sulla validità o efficacia del mandato difensivo.
Avv. Giuseppe M. Valenti

 

Documento pubblicato su ForoEuropeo - il portale del giurista - www.foroeuropeo.it