Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo) sentenza del 13 novembre 2007,   caso  BOCELLARI E RIZZA  c. Italia (ricorso no  399/02). Violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (equo processo), per la mancanza di pubblicità dell’udienza che dispone le misure di prevenzione.  Dichiara che  la sentenza costituisce di per sé un’equa soddisfazione. Lo Stato convenuto deve versare ai ricorrenti  euro 2.000 per spese legali. (traduzione non ufficiale della sentenza a cura dell’avv. Maurizio de Stefano).

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo) sentenza del 13 novembre 2007,  caso  BOCELLARI E RIZZA c. Italia (ricorso no  399/02). Violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (equo processo), per la mancanza di pubblicità dell’udienza che dispone le misure di prevenzione.  Dichiara che  la sentenza costituisce di per sé un’equa soddisfazione. Lo Stato convenuto deve versare ai ricorrenti  euro 2.000 per spese legali. (traduzione non ufficiale della sentenza a cura dell’avv. Maurizio de Stefano).

 

Massima:(Le persone soggette alla giurisdizione coinvolte in un procedimento d'applicazione delle misure di prevenzione devono per lo meno vedersi offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza dinanzi alle camere specializzate dei tribunali e delle corti d'appello).

 

CONSIGLIO D’EUROPA

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

SECONDA SEZIONE

CASO BOCELLARI E RIZZA c. ITALIA

(Ricorso n. 399/02)

SENTENZA

STRASBURGO

13 novembre 2007

 

Nel caso Bocellari e Rizza c. Italia,

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (seconda   sezione), riunita in una Camera composta da  :

   Signora         F. Tulkens, presidente,
     Signori A.B. Baka,
             I. Cabral Barreto,
             M. Ugrekhelidze,
             V. Zagrebelsky,
     Signora         A. Mularoni,
     Signor D. Popovic, giudici,
[a1]e dalla Signora S. Dollé cancelliere di sezione,

Dopo averla deliberata in Camera di consiglio il 16 ottobre 2007,

     Pronuncia la seguente sentenza, adottata in questa data:

PROCEDURA

1§.  All’origine del  caso vi è un ricorso (n. 399/02) diretto contro la Repubblica Italiana  di cui due  cittadini di questo Stato, Sig. Gianfranco Bocellari e Signora Wilma Rizza (“i ricorrenti”) hanno  adito la Corte il 17 dicembre 2001  ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione di Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (“la Convenzione”).

2§.  I ricorrenti sono rappresentati dall’Avv. Maurizio de Stefano, avvocato in Roma. Il Governo italiano (« il Governo ») è rappresentato dal suo Agente, Sig. Ivo. M. Braguglia, e dal suo Cogente aggiunto, Sig. Nicola. Lettieri.

3§. I ricorrenti deducevano la mancanza di pubblicità della procedura per l'applicazione delle misure di prevenzione al primo ricorrente, sospettato di appartenere ad un'associazione di stampo mafioso, che aveva comportato la confisca dei loro beni.

4§. Con una decisione del 16 marzo 2006, la Corte ha dichiarato ricevibile il ricorso.

. 5§. Sia  i ricorrenti che il Governo hanno depositato osservazioni scritte sul merito del caso (articolo 59 § 1 del regolamento).

 

IN FATTO

 

.I. LE CIRCOSTANZE DELLA FATTISPECIE

 

6.§ I ricorrenti sono nati a Milano nel  1960 e risiedono a  Milano.

 

La procedura penale promossa contro il primo ricorrente

 

7§. Nel 1997, alcuni procedimenti penali furono avviati contro il primo ricorrente, avvocato specializzato nel campo del diritto penale, per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti, usura e riciclaggio di denaro.

 8§. Il 20 maggio 1997, il giudice delle indagini preliminari di Milano ordinò la detenzione cautelare del ricorrente. Il ricorrente fu arrestato lo stesso giorno. Il 4 marzo 1998, fu rinviato a giudizio dinanzi al tribunale di Milano. Con una sentenza del 30 settembre 2000, il tribunale di Milano assolse il ricorrente quanto ai capi d’accusa d'usura e riciclaggio di denaro e lo condannò per i restanti  capi d’accusa ad una pena di otto anni ed otto mesi di reclusione. Il ricorrente propose  appello. Con una sentenza del 20 dicembre 2001, la Corte d'appello di Milano assolse il ricorrente  dai reati per cui era stato accusato, "per non aver commesso il  fatto". Il 17 settembre 2002, il ricorso per cassazione presentato dal rappresentante della Procura fu respinto e la sentenza   del 20 dicembre 2001 diventò definitiva.

 

Il sequestro e la confisca dei beni dei ricorrenti

 

9§. Parallelamente, a causa dei sospetti che pesavano sul ricorrente e che facevano pensare che egli fosse membro di un'organizzazione criminale finalizzata allo spaccio di stupefacenti, il 2 marzo 1999, il  Procuratore della Repubblica  di Milano iniziò una procedura in vista dell'applicazione delle misure di prevenzione stabilite dalla legge n. 575 del 1965, come modificata dalla legge n. 646 del 13 settembre 1982. Il Pubblico Ministero chiese anche il sequestro preventivo di alcuni beni di cui il ricorrente disponeva.

10§. Con un'ordinanza in data 10 marzo 1999, la camera del tribunale di Milano specializzata nell'applicazione delle misure di prevenzione ordinò il sequestro di numerosi beni, in particolare molti conti e titoli bancari, di cui i due ricorrenti erano titolari, automobili di lusso, di cui una appartenente  alla madre del ricorrente, e tre immobili che appartenevano  alla ricorrente, tra cui figurava la casa familiare della coppia. Infine, il tribunale ordinò il sequestro di un libretto di deposito bancario di cui era titolare la figlia minore dei ricorrenti.

11§. Il tribunale precisò che  occorreva fissare un'udienza alla quale il ricorrente aveva il diritto di partecipare. Inoltre, il tribunale invitò ad intervenire nella procedura, come terze persone  colpite  dal provvedimento, la ricorrente, in nome proprio e per conto della sua figlia, e la madre del ricorrente. Gli interessati avevano la facoltà di presentare osservazioni per difendere i loro interessi.

12§. Successivamente, la procedura dinanzi alla camera specializzata per l'applicazione delle misure di prevenzione si svolse in camera del consiglio. I due ricorrenti, rappresentati da un avvocato di loro scelta, parteciparono alla procedura.

13§ L'udienza fu fissata per il 4 giugno 1999. In tale data, i ricorrenti chiesero un rinvio per prendere conoscenza degli atti depositati presso la cancelleria del  Pubblico Ministero e per preparare la loro difesa. L'udienza fu rinviata al 17 settembre 1999. In tale data, i ricorrenti chiesero nuovamente un rinvio per preparare la loro difesa. Il tribunale rinviò l'udienza al 12 novembre 1999. Peraltro, il termine per depositare le memorie difensive ed i documenti pertinenti fu fissato per l'11 ottobre 1999. In tale data, i ricorrenti depositarono una memoria così come  molti documenti riguardanti le loro attività professionali, ed il Pubblico Ministero depositò i verbali di alcune intercettazioni telefoniche e dell’interrogatorio di un detenuto ascoltato come "persona informata sui fatti".

14§. Durante l'udienza del 12 novembre 1999, il Pubblico Ministero depositò quattro faldoni  di documenti riguardanti il  procedimento penale a carico del primo ricorrente. I ricorrenti vi si opposero. Il tribunale respinse l'opposizione dei ricorrenti, poiché una grande parte dei documenti era stata già acquisita al fascicolo dalla difesa dei ricorrenti ed era già conosciuta di quest'ultimi.

15§. Con un decreto  dello stesso giorno, la camera del tribunale di Milano specializzata nell'applicazione delle misure di prevenzione decise di sottoporre il primo ricorrente alla misura della Sorveglianza Speciale di Pubblica Sicurezza con obbligo del soggiorno nel comune di Milano per una durata di cinque anni. La camera ordinò inoltre la confisca dei beni dei ricorrenti precedentemente sequestrati.

16§. Il tribunale reputò necessario esaminare i fatti che erano  oggetto del  procedimento penale pendente a carico del ricorrente, al fine di  stabilire l'esistenza di seri indizi  circa la sua appartenenza ad un'associazione di stampo  mafioso che poteva giustificare l'applicazione delle misure di prevenzione. Affermò che, alla luce dei numerosi indizi a carico del ricorrente, si poteva constatare la partecipazione del ricorrente alle attività dell'associazione a delinquere  ed il pericolo sociale che presentava.

17§. Il tribunale sottolineò che il ricorrente aveva disponibilità finanziarie sproporzionate rispetto alle sue attività professionali ed ai redditi dichiarati.

18§. Esso (Il Tribunale n.d.t.) osservò che era difficile ricostruire la cronologia delle diverse attività professionali svolte  dal ricorrente e da sua moglie. In ogni caso, affermò che  vi era stata un' "interposizione fittizia" e che la ricorrente era soltanto la titolare apparente  degli immobili e dei conti bancari sequestrati, appartenendo  effettivamente questi beni al ricorrente."

19§. Il ricorrente propose  appello contro il decreto  del  12 novembre 1999. Egli affermò che il tribunale non aveva debitamente accertato l'origine illegittima dei beni confiscati, che   aveva commesso errori di fatto e che la pericolosità sociale non era provata.

 20§. Con un decreto del  23 ottobre 2000, pronunciato in camera di consiglio alla  presenza dei due ricorrenti, la camera competente della Corte d'appello di Milano modificò parzialmente il decreto  in data 12 novembre 1999. In particolare, ridusse a quattro anni la misura della Sorveglianza Speciale di Pubblica Sicurezza  e dell’ obbligo del soggiorno nel comune nel comune di Milano del primo ricorrente e revocò la confisca del libretto di deposito bancario appartenente  alla  figlia e della casa familiare, essendo stata questa acquistata  prima della commissione del reato  d'associazione a delinquere.

21§. La Corte d'appello confermò la decisione di primo grado  per il resto. Essa osservò in particolare che la camera specializzata del tribunale di Milano aveva concluso che il ricorrente presentava una pericolosità sociale a causa delle relazioni privilegiate che manteneva con i suoi clienti, membri di un'associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti. Inoltre, in mancanza di documentazione precisa riguardante le sue disponibilità finanziarie, risultava impossibile di valutare i profitti reali che il ricorrente aveva tratto da alcune consulenze in quanto avvocato. Essa osservò che l'articolo 2 ter § 3 della legge n. 575 del 1965 conferiva al tribunale il diritto di ordinare la confisca dei beni sequestrati se la loro provenienza legale non fosse stata dimostrata.

 22§. La giurisdizione d'appello ritenne che la sproporzione che esisteva tra il valore dei beni sequestrati  e l’attività legale esercitata comprovava la provenienza  illecita dei capitali investiti. Poiché gli interessati non avevano fornito elementi suscettibili di provare il contrario, la Corte d'appello considerò che l'allegazione secondo cui  le somme versate per l'acquisto degli immobili  provenivano dall'attività della seconda ricorrente e dall'attività d'avvocato del primo ricorrente, non si fondava su alcun fatto oggettivo ed era poco credibile. Essa aggiunse anche che il 20 settembre 2000, il tribunale di Milano aveva condannato il ricorrente ad una pena di otto anni ed otto mesi di reclusione. Pur sottolineando che questa condanna non aveva acquisito l'autorità della cosa giudicata, la Corte d'appello considerò che comprovava l'importanza degli indizi a carico del ricorrente.

23§. 

Il ricorrente propose il ricorso  in cassazione. Contestò l'interpretazione che la Corte d'appello aveva dato al paragrafo 2 ter § 3 della legge n. 575 del 1965 e dedusse che la confisca aveva colpito senza distinzione tutti i suoi beni immobili e quelli di sua moglie. Allegò infine che la Corte d'appello non aveva provato sul piano della realtà la sua pericolosità.

 24§. Con una sentenza del 28 giugno 2001, il cui testo fu depositato in cancelleria  il 5 settembre 2001, la Corte di cassazione, ritenendo che la Corte d'appello di Milano aveva motivato in modo logico e corretto tutti i punti controversi, rigettò il gravame del ricorrente.

 

.II: IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE

 

25.§ La legge n. 1423 del 27 dicembre 1956 prevede l'applicazione di misure di prevenzione nei confronti di "persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità ". Ai sensi dell'articolo 4 della suddetta legge, il tribunale decide in camera del consiglio dopo avere inteso il pubblico ministero e l'interessato, quest'ultimo  può presentare memorie e farsi rappresentare da un avvocato.

 26§. La legge n. 575 del 31 maggio 1965 ha completato la legge del 1956 con disposizioni dirette contro le persone sospettate di appartenere ad associazioni di stampo mafioso. Ai sensi dell'articolo 2ter di questa legge, nel corso della procedura per l'applicazione delle misure di prevenzione stabilite dalla legge n. 1423,

<<il tribunale, anche d'ufficio, ordina con decreto motivato il sequestro dei beni dei quali la persona nei cui confronti è iniziato il procedimento risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all'attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. )Con l'applicazione della misura di prevenzione il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati dei quali non sia stata dimostrata la legittima provenienza. (…) Il sequestro è revocato dal tribunale quando è respinta la proposta di applicazione della misura di prevenzione o quando risulta che esso ha per oggetto beni di legittima provenienza o dei quali l'indiziato non poteva disporre direttamente o indirettamente.

Se risulta che i beni sequestrati appartengono a terzi, questi sono chiamati dal tribunale, con decreto motivato, ad intervenire nel procedimento e possono, anche con l'assistenza di un difensore, nel termine stabilito dal tribunale, svolgere in camera di consiglio le loro deduzioni e chiedere l'acquisizione di ogni elemento utile ai fini della decisione sulla confisca.>>

 

IN DIRITTO

 

.I. SULLA ALLEGATA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE

 

27§. I ricorrenti si lamentano della mancanza di pubblicità della procedura dinanzi alle camere del tribunale e della Corte d'appello specializzate nell'applicazione delle misure di prevenzione. Essi invocano l'articolo 6 § 1 della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti, si legge come segue:

<< Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (…) da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà (…) delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile (…). La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l'accesso alla sala d'udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità può pregiudicare gli interessi della giustizia.>>.

 

 

.1. Argomentazioni delle parti

 

28§. ricorrenti sostengono che l'assenza di una pubblica udienza non era giustificata nella specie. Fanno valere innanzitutto che nessuna esigenza legata al rispetto della vita privata di persone terze esisteva nella specie, poiché nessun testimone era stato invitato a comparire  nella procedura. Quanto a loro, essi non hanno mai invocato la protezione della loro vita privata dinanzi alle autorità competenti.

 29§. Inoltre, essi sostengono che, contrariamente a ciò che la Corte aveva rilevato nel caso  Varela Assalino (Varela Assalino c. Portogallo (decisione), n. 64336/01, 25 aprile 2002), i fatti della causa non erano affatto accertati  nella specie, ed il caso  non era dedicato esclusivamente a questioni di diritto. Al contrario, durante il  dibattimento in questione, la difesa dei ricorrenti è stata confrontata con gli stessi elementi a carico che formavano l’oggetto del processo penale condotto parallelamente dinanzi al tribunale di Milano e sui quali l'autorità giudiziaria fondò la condanna del primo ricorrente per il reato d'associazione a delinquere.

 30§. Il Governo sottolinea che il diritto fatto valere dai ricorrenti non è un diritto assoluto ai sensi della Convenzione e fa riferimento alle deroghe alla pubblicità dei dibattimenti previste dalla seconda frase dell'articolo 6 § 1 della Convenzione e precisate dalla giurisprudenza della Corte in materia (Schuler-Zgraggen c. Svizzera, sentenza del 24 giugno 1993, serie A n. 263, § 58).

31§. Egli afferma che l'assenza della pubblica udienza è giustificata nella specie dalla natura delle questioni da risolvere. Egli insiste sulla natura altamente  tecnica delle procedure per l'applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, basate principalmente sui documenti e nelle quali il pubblico non può esercitare alcun controllo. Infatti, queste procedure consistono in particolare in indagini finanziarie approfondite, condotte, tramite consulenze contabili complesse presso banche ed altri enti creditizi, allo scopo di ricostruire il patrimonio dell'imputato e determinare così l'eventuale provenienza illegale dei beni.

32§. Il Governo sostiene inoltre che terze persone sono spesso implicate in questo tipo di procedura come prestanomi. Questi terzi non sono coinvolti direttamente nella procedura e sono  invitati a comparire dinanzi all'autorità giudiziaria soltanto in ragione del loro diritto di proprietà formale su uno o più beni.

Ora, la moglie, la figlia minore e la madre del ricorrente sono stati colpiti dalla confisca e sono stati coinvolti, loro malgrado, nella procedura. Il Governo considera che il rispetto della vita privata di queste persone costituisce una valida ragione per limitare la pubblicità dei dibattimenti e sostiene che la protezione di alcune categorie di persone, come i minori, deve essere garantita dallo Stato e può essere oggetto di rinuncia soltanto in situazioni particolari.

33§ Il Governo sottolinea infine che lo svolgimento in camera del consiglio delle procedure per l'applicazione della confisca è espressamente previsto dalla legge n. 1423 del 1956 e non dipende da una decisione discrezionale del tribunale. Egli aggiunge che un'eventuale domanda dei ricorrenti  tendente ad ottenere la pubblicità dei dibattimenti sarebbe stata molto probabilmente respinta ai sensi di questa stessa legge.

 

.2. Valutazione della Corte

 

34§. La Corte ricorda che la pubblicità della procedura degli organi giudiziari di cui all'articolo 6 § 1 protegge le persone soggette alla giurisdizione  contro una giustizia segreta che sfugge al controllo del pubblico (vedere, Riepan c. Austria, n. 35115/97, § 27, CEDU 2000 XII); essa costituisce anche uno dei mezzi per preservare la fiducia nelle  corti e tribunali. Attraverso  la trasparenza che essa conferisce all'amministrazione della giustizia, essa aiuta a realizzare lo scopo dell'articolo 6 § 1: l’equo  processo, la cui garanzia è annoverata tra i principi di ogni società democratica ai sensi della Convenzione (vedere fra molte numerose altre, Tierce ed altri c. San Marino, N. 24954/94, 24971/94 e 24972/94, § 92, CEDU 2000 IX).

 35§. L'articolo 6 § 1 non impedisce tuttavia che le giurisdizioni decidano, viste le particolarità della causa sottoposta al loro esame, di derogare a questo principio: ai sensi  stessi di questa disposizione, "(...) l'accesso della sala d'udienza può essere vietato alla stampa ed al pubblico durante la totalità o una parte del processo nell'interesse della moralità, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando gli interessi dei minatori o la protezione della vita privata delle parti al processo lo esigono, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità sarebbe tale da mettere in pericolo gli interessi della giustizia"; il processo a porte chiuse, totalmente o parzialmente, deve allora essere strettamente imposto dalle circostanze del caso (vedere, ad esempio, mutatis mutandis, la sentenza Diennet c. Francia, del 26 settembre 1995, serie A n. 325-A, § 34).

36§. D'altra parte, la Corte ha giudicato che circostanze eccezionali, che attengono alla natura delle questioni sottoposte al giudice nell'ambito della procedura di cui  trattasi (vedere, mutatis mutandis, la decisione Miller c. Svezia dell'8 febbraio 2005, n. 55853/00, § 29), possono  giustificare una  dispensa da una pubblica udienza (vedere in particolare la sentenza Göç c. Turchia (GC), n. 36590/97, CEDU 2002-V, § 47). Essa considera così, ad esempio, che il contenzioso della sicurezza sociale, molto tecnica, si presta spesso meglio agli  scritti piuttosto che alle difese orali e che, l'organizzazione sistematica dei dibattimenti  potendo  costituire un ostacolo alla particolare diligenza richiesta in materia di sicurezza sociale, è comprensibile che in tale settore le autorità nazionali tengano conto di imperativi d'efficacia e d'economia (vedere, ad esempio, le sentenze Miller e Schuler-Zgraggen summenzionate). Bisogna tuttavia sottolineare che, nella maggior parte dei casi che riguardano una procedura  davanti alle giurisdizioni "civili" che devono  deliberare nel merito nelle quali è arrivata (la Corte n.d.t.) a questa conclusione, il ricorrente aveva avuto la possibilità di sollecitare la tenuta  di una pubblica udienza.

 37§. Come la Corte lo ha affermato nel caso  Martinie (Martinie c. Francia (GC), n. 58675/00, CEDU 2006...), la situazione è diversa allorquando, tanto in appello che in primo grado, una procedura "civile"  sul merito si svolge a porte chiuse ai sensi di una norma generale ed assoluta, senza che la persona soggetta alla giurisdizione abbia la possibilità di sollecitare una pubblica udienza facendo valere le particolarità della sua causa. Una procedura che si svolge in tal modo  non può in linea di principio passare per conforme all'articolo 6 § 1 della Convenzione: salvo circostanze interamente eccezionali, la persona soggetta alla giurisdizione deve almeno avere la possibilità di sollecitare la tenuta di dibattimenti pubblici, potendo allora tuttavia esserle opposte le porte chiuse, a fronte di circostanze della causa e per le ragioni come sopra ricordate (vedere Martinie, summenzionato, § 42).

38§  Nella fattispecie, lo svolgimento in camera del consiglio delle procedure che riguardano l'applicazione delle misure di prevenzione, tanto in primo grado che in appello, è espressamente previsto dall'articolo 4 della legge n. 1423 del 1956 e le parti non hanno la possibilità di richiedere ed ottenere una pubblica udienza. Del resto, il Governo stesso esprime dubbi quanto alle possibilità di successo di un'eventuale istanza di pubblico dibattimento che provenisse dalle parti.

39§. La Corte è sensibile al ragionamento del Governo secondo cui possono a volte entrare in gioco in questo tipo di procedura gli interessi superiori, come la protezione della vita privata di minori o di persone terze indirettamente interessate dal controllo finanziario. D'altra parte, la Corte non dubita che una procedura che tende essenzialmente al controllo delle finanze e dei movimenti di capitali possa presentare un grado elevato di tecnicità. Tuttavia, non occorre perdere di vista la posta in gioco delle procedure di prevenzione e gli effetti che sono suscettibili di produrre sulla situazione personale delle persone coinvolte.

40§. La Corte osserva che questo tipo di procedura riguarda l'applicazione della confisca di beni e di capitali, cosa che direttamente e sostanzialmente coinvolge la situazione patrimoniale della persona soggetta alla giurisdizione. Di fronte a tale posta in gioco, non si potrebbe affermare che il controllo del pubblico non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell'interessato (vedere Martinie, summenzionato, § 43 e, a contrario, Jussila c. Finlandia (GC), n. 73053/01, § 48, CEDU 2006...).

41§. Riassumendo, la Corte giudica essenziale che le persone soggette alla giurisdizione coinvolte in un procedimento d'applicazione delle misure di prevenzione si vedano per lo meno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza dinanzi alle camere specializzate dei tribunali e delle corti d'appello.

Nella fattispecie, i ricorrenti non hanno beneficiato di questa possibilità. Perciò, vi è stata la violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione.

II. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

42§. Ai sensi  dell’articolo 41 della Convenzione,

“Se la  Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte  contraente interessata non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte  lesa”.

.A. Danno

 

43§. I ricorrenti richiedono 90.000 EUR per il danno morale subito a causa della ingiusta confisca dei loro beni. Essi affermano inoltre di essere pronti a rinunciare a questa somma se il Governo si impegna a riformare l'articolo 4 della legge n. 1423 del 1956 prevedendo la pubblicità delle udienze nelle procedure per l'applicazione delle misure di prevenzione.

44§. Il Governo afferma che la constatazione della violazione costituisce di per  sé stessa una riparazione sufficiente.

45§. Per quanto riguarda le misure generali chieste dai ricorrenti, spetta in primo luogo allo Stato in causa, sotto il controllo del Comitato dei ministri, scegliere i mezzi da mettere in essere nel suo ordinamento giuridico interno al fine di  assolvere al suo obbligo alla luce dell'articolo 46 della Convenzione (vedere, tra l'altro, Öcalan c. Turchia (GC), n. 46221/99, § 210, CEDU 2005-IV).

46§. Quanto al pregiudizio morale sofferto  dai ricorrenti, la Corte ritiene che esso si trovi sufficientemente riparato dalla constatazione della violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione alla quale essa (la Corte n.d.t.) giunge (vedere, fra numerose altre, le sentenze Remli c. Francia, del 23 aprile 1996, Raccolta 1996-II, Mantovanelli c. Francia, del 18 marzo 1997, Raccolta n. 1997-II, Kress, summenzionato, Meftah ed altri c. Francia, del 26 luglio 2002 (GC), N. 32911/96, 35237/97 e 34595/97, CEDU 2002-VII, Yvon c. Francia, del 24 aprile 2003, n. 44962/98, CEDU 2003-V e Martinie, summenzionato).

 

B. Spese legali

 

47§. La ricorrente chiede il rimborso delle spese sostenute dinanzi alle giurisdizioni interne nel corso della procedura per l’applicazione della confisca che essa quantifica in 5.000 EUR. Inoltre, i due ricorrenti congiuntamente chiedono 5.000 EUR per le spese della procedura dinanzi alla Corte.

48§. Il Governo afferma  che le somme della procedura nazionale non sono dimostrate. Inoltre, considera eccessivo l’ammontare delle spese legali della procedura dinanzi alla Corte.

49§. La Corte ricorda che, allorquando essa conclude per la violazione della Convenzione, essa può accordare ai ricorrenti il pagamento non solo delle spese legali  che hanno sostenuto davanti ad essa, ma anche quelle sostenute davanti alle giurisdizioni interne per prevenire o far correggere da quest’ultime la predetta violazione (vedere, per esempio, la sentenza  Hertel c. Suisse del 25 agosto  1998, Raccolta 1998-VI), dal momento che la loro necessità è accertata, che i giustificativi necessari sono prodotti e che le somme richieste non sono irragionevoli.

 50§. Essa, considera che non c'è motivo di rimborsare alla ricorrente le spese sostenute dinanzi alle giurisdizioni interne, poiché non sono state affrontate  per rimediare alla violazione constatata. Inoltre, nessun giustificativo è stato prodotto dall'interessata.

 51§. Per quanto riguarda le spese  legali che si riferiscono alla presente procedura, la Corte giudica eccessiva la domanda dei ricorrenti e,  deliberando in equità, decide di assegnare loro, congiuntamente, 2.000 EUR a questo titolo.

 

C. Interessi moratori

 

527§.  La Corte ritiene opportuno ragguagliare il tasso degli interessi moratori al tasso di interesse ufficiale marginale della Banca centrale europea maggiorati di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITA’,

 

.1. Dichiara  che vi è stata violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione;

.2. Dichiara  che la constatazione della violazione fornisce di per sé una equa soddisfazione sufficiente per il danno morale subito dai ricorrenti;

.3. Dichiara

a) che lo Stato convenuto deve versare ai ricorrenti congiuntamente, entro tre mesi a partire dal giorno in cui la sentenza sarà diventata definitiva ai sensi dell'articolo 44 § 2 della Convenzione, 2.000 EUR (due mila euro) per spese legali, oltre a qualunque ammontare che possa essere dovuto a titolo d'imposta;

 b) che a partire dalla scadenza del suddetto termine e fino al pagamento, questo importo sarà da aumentare di un interesse semplice ad un tasso uguale a quello della facilità di prestito marginale della Banca centrale europea applicabile a quel periodo,  aumentato di tre punti di percentuale;

.4. Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il surplus

 

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 13 novembre 2007 a norma dell'articolo 77 §§ 2 e 3 del Regolamento.

S. Dollé Cancelliere

F. Tulkens  Presidente

 

 

 

 

DEUXIÈME SECTION

 

 

 

Testo integrale in francese

 

AFFAIRE BOCELLARI ET RIZZA c. ITALIE

 

Testo integrale in francese

 

(Requête no 399/02)

ARRÊT

STRASBOURG

13 novembre 2007

Cet arrêt deviendra définitif dans les conditions définies à l’article 44 § 2 de la Convention. Il peut subir des retouches de forme.

 En l’affaire Bocellari et Rizza c. Italie,

La Cour européenne des Droits de l’Homme (deuxième section), siégeant en une chambre composée de :[Note2]

          Mme   F. Tulkens, présidente,
          MM.  A.B. Baka,
                   I. Cabral Barreto,
                   M. Ugrekhelidze,
                   V. Zagrebelsky,
          Mme   A. Mularoni,
          M.     D. Popovic, juges,
[a3]et de Mme S. Dollé, greffière de section,

Après en avoir délibéré en chambre du conseil le 16 octobre 2007[Note4],

Rend l’arrêt que voici, adopté à cette date :

PROCÉDURE

1.  A l’origine de l’affaire se trouve une requête (no 399/02) dirigée contre la République italienne et dont deux ressortissants de cet Etat, MM. Gianfranco Bocellari et Mme Wilma Rizza (« les requérants »), ont saisi la Cour le 17 décembre 2001 en vertu de l’article 34 de la Convention de sauvegarde des Droits de l’Homme et des Libertés fondamentales (« la Convention »).

2.  Les requérants sont représentés par Me M. de Stefano, avocat à Rome. Le gouvernement italien (« le Gouvernement ») est représenté par son agent, M. I. M. Braguglia, et par son coagent adjoint, M. N. Lettieri.

3.  Les requérants alléguaient le manque de publicité de la procédure pour l’application des mesures de prévention au premier requérant, suspecté d’appartenir à une association de type mafieux, ayant entrainé la confiscation de leurs biens.

4.  Par une décision du 16 mars 2006[Note5], la Cour a déclaré la requête recevable.

5.  Tant les requérants que le Gouvernement ont déposé des observations écrites sur le fond de l’affaire (article 59 § 1 du règlement).

EN FAIT

I.  LES CIRCONSTANCES DE L’ESPÈCE

6.  Les requérants sont nés en 1960 et résident à Milan.

La procédure pénale menée contre le premier requérant

7.  En 1997, des poursuites furent entamées contre le premier requérant, avocat spécialisé en droit pénal, pour association de malfaiteurs visant le trafic de stupéfiants, usure et blanchissement d’argent.

8.  Le 20 mai 1997, le juge des investigations préliminaires de Milan ordonna le placement du requérant en détention provisoire. Le requérant fut arrêté le même jour. Le 4 mars 1998, il fut renvoyé en jugement devant le tribunal de Milan. Par un jugement du 30 septembre 2000, le tribunal de Milan relaxa le requérant quant aux chefs d’accusation d’usure et blanchissement d’argent et le condamna pour le restant des chefs d’accusation à une peine de huit ans et huit mois d’emprisonnement. Le requérant interjeta appel. Par un arrêt du 20 décembre 2001, la cour d’appel de Milan acquitta le requérant car il n’avait pas commis les infractions qui lui étaient reprochées (« per non aver commesso il fatto »). Le 17 septembre 2002, le pourvoi en cassation présenté par le représentant du parquet fut rejeté et l’arrêt du 20 décembre 2001 devint définitif.

La saisie et la confiscation des biens des requérants

9.  Parallèlement, en raison des soupçons qui pesaient sur le requérant et qui donnaient à penser qu’il était membre d’une organisation criminelle visant le trafic de stupéfiants, le 2 mars 1999, le parquet de Milan entama une procédure en vue de l’application des mesures de prévention établies par la loi no 575 de 1965, telle que modifiée par la loi no 646 du 13 septembre 1982. Le parquet demanda également la saisie anticipée de certains biens dont le requérant disposait.

10.  Par une ordonnance du 10 mars 1999, la chambre du tribunal de Milan spécialisée dans l’application des mesures de prévention ordonna la saisie de nombreux biens, notamment plusieurs comptes et titres bancaires, dont les deux requérants étaient titulaires, des voitures de luxe, dont l’une appartenant à la mère du requérant, et trois immeubles appartenant à la requérante, parmi lesquels figurait la maison familiale du couple. Enfin, le tribunal ordonna la saisie d’un livret bancaire dont était titulaire la fille mineure des requérants.

11.  Le tribunal précisa qu’il y avait lieu de fixer une audience à laquelle le requérant avait le droit de participer. En outre, le tribunal invita à intervenir dans la procédure, en tant que tierces personnes touchées par la mesure, la requérante, en son nom propre et pour le compte de sa fille, et la mère du requérant. Les intéressées avaient la faculté de présenter des observations pour défendre leurs intérêts.

12.  Par la suite, la procédure devant la chambre spécialisée dans l’application des mesures de prévention se déroula en chambre du conseil. Les deux requérants, représentés par un avocat de leur choix, participèrent à la procédure.

13.  L’audience fut fixée au 4 juin 1999. Le jour venu, les requérants demandèrent un ajournement afin de prendre connaissance des actes déposés auprès du greffe du parquet et de préparer leur défense. L’audience fut renvoyée au 17 septembre 1999. Le jour venu, les requérants demandèrent à nouveau un ajournement afin d’organiser leur défense. Le tribunal renvoya l’audience au 12 novembre 1999. Par ailleurs, le délai pour déposer les mémoires de défense et les documents pertinents fut fixé au 11 octobre 1999. Le jour venu, les requérants déposèrent un mémoire ainsi que plusieurs documents concernant leurs activités professionnelles, et le parquet déposa les procès-verbaux de certaines interceptions téléphoniques et de l’interrogatoire d’un détenu entendu comme personne ayant connaissance de faits utiles pour les investigations (« persona informata sui fatti »).

14.  Lors de l’audience du 12 novembre 1999, le parquet déposa quatre chemises de documents concernant la procédure pénale contre le premier requérant. Les requérants s’y opposèrent. Le tribunal rejeta l’opposition des requérants, au motif qu’une grande partie des documents avait déjà été versée au dossier par la défense des requérants et était déjà connue de ces derniers.

15.  Par une ordonnance du même jour, la chambre du tribunal de Milan spécialisée dans l’application des mesures de prévention décida de soumettre le premier requérant à la mesure de la liberté sous contrôle de police et ordonna son assignation à résidence dans la commune de Milan pour une durée de cinq ans. La chambre ordonna en outre la confiscation des biens des requérants précédemment saisis.

16.  Le tribunal estima nécessaire d’examiner les faits faisant l’objet de la procédure pénale en cours contre le requérant, afin d’établir l’existence d’indices sérieux de son appartenance à une association de type mafieux pouvant justifier l’application de mesures de prévention. Il affirma que, à la lumière des nombreux indices à la charge du requérant, il y avait lieu de constater la participation du requérant aux activités de l’association de malfaiteurs et le danger social qu’il présentait.

17.  Le tribunal souligna que le requérant avait des moyens financiers disproportionnés par rapport à ses activités professionnelles et aux revenus déclarés.

18.  Il observa qu’il était difficile de reconstituer la chronologie des différentes activités professionnelles menées par le requérant et son épouse. En tout état de cause, il affirma qu’une « interposition de personne » (« interposizione fittizia ») avait eu lieu et que la requérante n’était que titulaire apparente des immeubles et des comptes bancaires saisis, ces biens appartenant en réalité au requérant.

19.  Le requérant interjeta appel contre l’ordonnance du 12 novembre 1999. Il allégua que le tribunal n’avait pas dûment établi la provenance illégitime des biens confisqués, qu’il avait commis des erreurs de fait et que la dangerosité sociale n’était pas prouvée.

20.  Par une ordonnance du 23 octobre 2000, prononcée en chambre du conseil en présence des deux requérants, la chambre compétente de la cour d’appel de Milan modifia partiellement l’ordonnance du 12 novembre 1999. En particulier, elle réduisit à quatre ans la mesure de la liberté sous contrôle de police et de l’assignation à résidence dans la commune de Milan du premier requérant et révoqua la confiscation du livret bancaire appartenant à la fille des requérants et de la maison familiale, celle-ci ayant été acquise avant la commission du délit d’association de malfaiteurs.

21.  La cour d’appel confirma la décision de première instance pour le reste. Elle observa notamment que la chambre spécialisée du tribunal de Milan avait conclu que le requérant présentait un danger social en raison des rapports privilégiés qu’il entretenait avec ses clients, membres d’une association de malfaiteurs visant le trafic de stupéfiants. De plus, faute de documentation précise concernant ses moyens financiers, il s’avérait impossible d’évaluer les profits réels que le requérant avait tirés de certaines consultations en tant qu’avocat. Elle observa que l’article 2 ter § 3 de la loi no 575 de 1965 donnait au tribunal le droit d’ordonner la confiscation des biens saisis si leur provenance légale n’avait pas été démontrée.

22.  La juridiction d’appel estima que la disproportion existant entre la valeur des biens saisis et les activités légales exercées prouvait l’origine illicite des fonds employés. Les intéressés n’ayant pas fourni d’éléments susceptibles de prouver le contraire, la cour d’appel considéra que l’allégation selon laquelle les sommes versées pour l’achat des immeubles provenaient de l’activité de la deuxième requérante et de l’activité d’avocat du premier requérant, ne se fondait sur aucun fait objectif et était peu crédible. Elle ajouta également que le 20 septembre 2000, le tribunal de Milan avait condamné le requérant à une peine de huit ans et huit mois d’emprisonnement. Tout en soulignant que cette condamnation n’avait pas acquis l’autorité de la chose jugée, la cour d’appel considéra qu’elle prouvait l’importance des indices à la charge du requérant.

23.  Le requérant se pourvut en cassation. Il contesta l’interprétation que la cour d’appel avait donnée au paragraphe 2 ter § 3 de la loi no 575 de 1965 et allégua que la confiscation avait frappé sans distinction tous ses biens immobiliers et ceux de son épouse. Il allégua enfin que la cour d’appel n’avait pas prouvé la réalité de sa dangerosité.

24.  Par un arrêt du 28 juin 2001, dont le texte fut déposé au greffe le 5 septembre 2001, la Cour de cassation, estimant que la cour d’appel de Milan avait motivé d’une façon logique et correcte tous les points controversés, débouta le requérant de son pourvoi.

II.  LE DROIT INTERNE PERTINENT

25.  La loi no 1423 du 27 décembre 1956 prévoit l’application de mesures de prévention à l’encontre de « personnes dangereuses pour la sécurité et pour la moralité publiques ». Au sens de l’article 4 de ladite loi, le tribunal décide en chambre du conseil après avoir entendu le ministère public et l’intéressé, ce dernier pouvant présenter des mémoires et se faire représenter par un avocat.

26.  La loi no 575 du 31 mai 1965 a complété la loi de 1956 par des dispositions dirigées contre les personnes soupçonnées d’appartenir à des associations de type mafieux. Conformément à l’article 2ter de cette loi, au cours de la procédure pour l’application des mesures de prévention établies par la loi no 1423,

« le tribunal, même d’office, ordonne par décision motivée la saisie des biens dont la personne contre laquelle la procédure a été engagée dispose directement ou indirectement, quand il y a lieu d’estimer, sur la base d’indices suffisants, tels que la disproportion considérable entre le train de vie et les revenus apparents ou déclarés, que ces biens constituent le profit d’activités illicites ou son remploi. Avec l’application de la mesure de prévention, le tribunal ordonne la confiscation des biens saisis dont la provenance légitime n’a pas été démontrée. (...) La saisie est révoquée par le tribunal lorsque la demande d’application de la mesure de prévention est rejetée ou lorsque la provenance légitime des biens est démontrée.

S’il ressort que les biens saisis appartiennent à des tiers, ces derniers sont invités par le tribunal à intervenir dans la procédure et peuvent, même avec l’assistance d’un avocat, présenter en chambre du conseil leurs observations et demander à verser au dossier tout élément utile aux fins de la décision de confiscation.  »

EN DROIT

I.  SUR LA VIOLATION ALLÉGUÉE DE L’ARTICLE 6 § 1 DE LA CONVENTION

27.  Les requérants se plaignent du manque de publicité de la procédure devant les chambres du tribunal et de la cour d’appel spécialisées dans l’application des mesures de prévention. Ils invoquent l’article 6 § 1 de la Convention qui, dans ses parties pertinentes, se lit comme suit :

« Toute personne a droit à ce que sa cause soit entendue équitablement, publiquement (...), par un tribunal indépendant et impartial, établi par la loi, qui décidera (...) des contestations sur ses droits et obligations de caractère civil (...). Le jugement doit être rendu publiquement, mais l’accès de la salle d’audience peut être interdit à la presse et au public pendant la totalité ou une partie du procès dans l’intérêt de la moralité, de l’ordre public ou de la sécurité nationale dans une société démocratique, lorsque les intérêts des mineurs ou la protection de la vie privée des parties au procès l’exigent, ou dans la mesure jugée strictement nécessaire par le tribunal, lorsque dans des circonstances spéciales la publicité serait de nature à porter atteinte aux intérêts de la justice ».

1.  Arguments des parties

28.  Les requérants soutiennent que l’absence d’une audience publique n’était pas justifiée en l’espèce. Ils font valoir tout d’abord qu’aucune exigence liée au respect de la vie privée de tierces personnes ne subsistait en l’espèce, puisqu’aucun témoin n’avait été invité à comparaître dans la procédure. Quant à eux, ils n’ont jamais invoqué la protection de leur vie privée devant les autorités compétentes.

29.  En outre, ils soutiennent que, contrairement à ce que la Cour avait relevé dans l’affaire Varela Assalino (Varela Assalino c. Portugal (déc.), no 64336/01, 25 avril 2002), les faits de la cause n’étaient guère établis en l’espèce, et l’affaire n’était pas consacrée exclusivement à des questions de droit. Bien au contraire, pendant les débats litigieux, la défense des requérants a été confrontée aux mêmes éléments à charge qui faisaient l’objet du procès pénal mené parallèlement devant le tribunal de Milan et sur lesquels l’autorité judiciaire appuya la condamnation du premier requérant pour le délit d’association de malfaiteurs.

30.  Le Gouvernement souligne que le droit invoqué par les requérants n’est pas un droit absolu au sens de la Convention et fait référence aux dérogations à la publicité des débats prévues par la deuxième phrase de l’article 6 § 1 de la Convention et précisées par la jurisprudence de la Cour en la matière (Schuler-Zgraggen c. Suisse, arrêt du 24 juin 1993, série A no 263, § 58).

31.  Il affirme que l’absence d’audience publique est justifiée en l’espèce par la nature des questions à trancher. Il insiste sur la nature hautement technique des procédures pour l’application des mesures de prévention patrimoniales, basées essentiellement sur des documents et dans lesquelles le public ne peut exercer aucun contrôle. En effet, ces procédures consistent notamment en des enquêtes financières approfondies, menées, par le biais d’expertises comptables complexes auprès de banques et d’autres établissements de crédit, dans le but de reconstituer le patrimoine du prévenu et déterminer ainsi l’éventuelle origine illégale des biens.

32.  Le Gouvernement soutient ensuite que des tierces personnes sont souvent impliquées dans ce type de procédure en tant que prête-noms. Ces tiers ne sont pas mis en cause directement dans la procédure et sont invités à comparaître devant l’autorité judiciaire seulement en raison de leur droit de propriété formel sur un ou plusieurs biens.

Or, l’épouse, la fille mineure et la mère du requérant ont été touchées par la confiscation et ont été mêlées, malgré elles, à la procédure. Le Gouvernement considère que le respect de la vie privée de ces personnes constitue une raison valable pour limiter la publicité des débats et soutient que la protection de certaines catégories de personnes, tels que les mineurs, doit être assurée par l’Etat et ne peut faire l’objet de renonciation que dans des situations particulières.

33.  Le Gouvernement souligne enfin que le déroulement en chambre du conseil des procédures pour l’application de la confiscation est expressément prévu par la loi no 1423 de 1956 et ne relève pas d’une décision discrétionnaire du tribunal. Il ajoute qu’une éventuelle demande des requérants tendant à obtenir la publicité des débats aurait été très probablement rejetée au sens de cette même loi.

2.  Appréciation de la Cour

34.  La Cour rappelle que la publicité de la procédure des organes judiciaires visés à l’article 6 § 1 protège les justiciables contre une justice secrète échappant au contrôle du public (voir, Riepan c. Autriche, no 35115/97, § 27, CEDH 2000-XII) ; elle constitue aussi l’un des moyens de préserver la confiance dans les cours et tribunaux. Par la transparence qu’elle donne à l’administration de la justice, elle aide à réaliser le but de l’article 6 § 1 : le procès équitable, dont la garantie compte parmi les principes de toute société démocratique au sens de la Convention (voir parmi de très nombreux autres, Tierce et autres c. Saint-Marin, nos 24954/94, 24971/94 et 24972/94, § 92, CEDH 2000-IX).

35.  L’article 6 § 1 ne fait cependant pas obstacle à ce que les juridictions décident, au vu des particularités de la cause soumise à leur examen, de déroger à ce principe : aux termes mêmes de cette disposition, « (...) l’accès de la salle d’audience peut être interdit à la presse et au public pendant la totalité ou une partie du procès dans l’intérêt de la moralité, de l’ordre public ou de la sécurité nationale dans une société démocratique, lorsque les intérêts des mineurs ou la protection de la vie privée des parties au procès l’exigent, ou dans la mesure jugée strictement nécessaire par le tribunal, lorsque dans des circonstances spéciales la publicité serait de nature à porter atteinte aux intérêts de la justice » ; le huis clos, qu’il soit total ou partiel, doit alors être strictement commandé par les circonstances de l’affaire (voir, par exemple, mutatis mutandis, l’arrêt Diennet c. France, du 26 septembre 1995, Série A no 325-A, § 34).

36.  Par ailleurs, la Cour a jugé que des circonstances exceptionnelles, tenant à la nature des questions soumises au juge dans le cadre de la procédure dont il s’agit (voir, mutatis mutandis, l’arrêt Miller c. Suède du 8 février 2005, no 55853/00, § 29), peuvent justifier de se dispenser d’une audience publique (voir en particulier l’arrêt Göç c. Turquie [GC], n36590/97, CEDH 2002-V, § 47). Elle considère ainsi, par exemple, que le contentieux de la sécurité sociale, hautement technique, se prête souvent mieux à des écritures qu’à des plaidoiries et que, l’organisation systématique de débats pouvant constituer un obstacle à la particulière diligence requise en matière de sécurité sociale, il est compréhensible que dans un tel domaine les autorités nationales tiennent compte d’impératifs d’efficacité et d’économie (voir, par exemple, les arrêts Miller et Schuler-Zgraggen précités). Il y a lieu cependant de souligner que, dans la plupart des affaires concernant une procédure devant des juridictions « civiles » statuant au fond dans lesquelles elle est arrivée à cette conclusion, le requérant avait eu la possibilité de solliciter la tenue d’une audience publique.

37.  Comme la Cour l’a affirmé dans l’affaire Martinie(Martinie c. France [GC], no 58675/00, CEDH 2006-...), la situation est différente lorsque, tant en appel qu’en première instance, une procédure « civile » au fond se déroule à huis clos en vertu d’une règle générale et absolue, sans que le justiciable ait la possibilité de solliciter une audience publique en faisant valoir les particularités de sa cause. Une procédure se déroulant ainsi ne saurait en principe passer pour conforme à l’article 6 § 1 de la Convention : sauf circonstances tout à fait exceptionnelles, le justiciable doit au moins avoir la possibilité de solliciter la tenue de débats publics, le huis clos pouvant alors cependant lui être opposé, au regard des circonstances de la cause et pour les motifs rappelés plus haut (voir Martinie, précité, § 42).

38.  En l’espèce, le déroulement en chambre du conseil des procédures visant l’application des mesures de prévention, tant en première instance qu’en appel, est expressément prévu par l’article 4 de la loi no 1423 de 1956 et les parties n’ont pas la possibilité de demander et d’obtenir une audience publique. D’ailleurs, le Gouvernement lui-même exprime des doutes quant aux chances de succès d’une éventuelle demande de débats publics provenant des parties.

39.  La Cour est sensible au raisonnement du Gouvernement selon lequel des intérêts supérieurs, tels que la protection de la vie privée de mineurs ou de tierces personnes indirectement concernées par le contrôle financier, peuvent parfois entrer en jeu dans ce type de procédure. Par ailleurs, la Cour ne doute pas qu’une procédure tendant pour l’essentiel au contrôle des finances et des mouvements de capitaux puisse présenter un degré élevé de technicité. Cependant, il ne faut pas perdre de vue l’enjeu des procédures de prévention et les effets qu’elles sont susceptibles de produire sur la situation personnelle des personnes impliquées.

40.  La Cour observe que ce genre de procédure vise l’application de la confiscation de biens et de capitaux, ce qui met directement et substantiellement en cause la situation patrimoniale du justiciable. Face à un tel enjeu, on ne saurait affirmer que le contrôle du public ne soit pas une condition nécessaire à la garantie du respect des droits de l’intéressé (voir Martinie, précité, § 43 et, à contrario, Jussila c. Finlande [GC], no 73053/01, § 48, CEDH 2006-...).

41.  En résumé, la Cour juge essentiel que les justiciables impliqués dans une procédure d’application des mesures de prévention se voient pour le moins offrir la possibilité de solliciter une audience publique devant les chambres spécialisées des tribunaux et des cours d’appel.

En l’espèce, les requérants n’ont pas bénéficié de cette possibilité. Partant, il y a eu violation de l’article 6 § 1 de la Convention.

II.  SUR L’APPLICATION DE L’ARTICLE 41 DE LA CONVENTION

42.  Aux termes de l’article 41 de la Convention,

« Si la Cour déclare qu’il y a eu violation de la Convention ou de ses Protocoles, et si le droit interne de la Haute Partie contractante ne permet d’effacer qu’imparfaitement les conséquences de cette violation, la Cour accorde à la partie lésée, s’il y a lieu, une satisfaction équitable. »

A.  Dommage

43.  Les requérants réclament 90 000 EUR pour le dommage moral subi du fait de la confiscation injuste de leurs biens.

Ils affirment ensuite être prêts à renoncer à cette somme si le Gouvernement s’engage à réformer l’article 4 de la loi no 1423 de 1956 en prévoyant la publicité des audiences dans les procédures pour l’application des mesures de prévention.

44.  Le Gouvernement affirme que le constat de violation constitue en soi une réparation suffisante.

45.  En ce qui concerne les mesures générales demandées par les requérants, il appartient en premier lieu à l’Etat en cause, sous le contrôle du Comité des Ministres, de choisir les moyens à mettre en œuvre dans son ordre juridique interne pour s’acquitter de son obligation au regard de l’article 46 de la Convention (voir, entre autres, Öcalan c. Turquie [GC], no 46221/99, § 210, CEDH 2005-IV).

46.  Quant au préjudice moral subi par les requérants, la Cour estime qu’il se trouve suffisamment réparé par le constat de violation de l’article 6 § 1 de la Convention auquel elle parvient (voir, parmi de nombreux autres, les arrêts Remli c. France, du 23 avril 1996, Recueil 1996-II, Mantovanelli c. France, du 18 mars 1997, Recueil no 1997-II, Kress, précité, Meftah et autres c. France, du 26 juillet 2002 [GC], nos 32911/96, 35237/97 et 34595/97, CEDH 2002-VII, Yvon c. France, du 24 avril 2003, no 44962/98, CEDH 2003-V et Martinie, précité).

B.  Frais et dépens

47.  La requérante réclame le remboursement des frais encourus devant les juridictions internes lors de la procédure pour l’application de la confiscation, qu’elle chiffre à 5 000 EUR. En outre, les deux requérants conjointement demandent 5 000 EUR pour les frais de la procédure devant la Cour.

48.  Le Gouvernement affirme que les frais de la procédure nationale n’ont pas été étayés. En outre, il considère excessif le montant des frais et dépens encourus dans la procédure devant la Cour.

49.  La Cour rappelle que, lorsqu’elle conclut à la violation de la Convention, elle peut accorder aux requérants le paiement non seulement des frais et dépens qu’ils ont engagés devant elle, mais aussi de ceux exposés devant les juridictions internes pour prévenir ou faire corriger par celles-ci ladite violation (voir, par exemple, l’arrêt Hertel c. Suisse du 25 août 1998, Recueil 1998-VI), dès lors que leur nécessité est établie, que les justificatifs requis sont produits et que les sommes réclamées ne sont pas déraisonnables.

50.  Elle considère qu’il n’y a pas lieu de rembourser à la requérante les frais encourus devant les juridictions internes, car ils n’ont pas été exposés pour remédier à la violation constatée. De plus, aucun justificatif n’a été produit par l’intéressée.

51.  Pour ce qui est des frais et dépens se rapportant à la présente procédure, la Cour juge excessive la demande des requérants et, statuant en équité, décide de leur allouer, conjointement, 2 000 EUR à ce titre.

C.  Intérêts moratoires

52.  La Cour juge approprié de baser le taux des intérêts moratoires sur le taux d’intérêt de la facilité de prêt marginal de la Banque centrale européenne majoré de trois points de pourcentage.

PAR CES MOTIFS, LA COUR, À L’UNANIMITÉ,[Note6]

1.  Dit qu’il y a eu violation de l’article 6 § 1 de la Convention ;

 

2.  Dit que le constat de violation fournit en soi une satisfaction équitable suffisante pour le dommage moral subi par les requérants ;

 

3.  Dit[Note7]

a)  que l’Etat défendeur doit verser aux requérants conjointement, dans les trois mois à compter du jour où l’arrêt sera devenu définitif conformément à l’article 44 § 2 de la Convention[Note8], 2 000 EUR (deux mille euros) pour frais et dépens, plus tout montant pouvant être dû à titre d’impôt ;

b)  qu’à compter de l’expiration dudit délai et jusqu’au versement, ce montant sera à majorer d’un intérêt simple à un taux égal à celui de la facilité de prêt marginal de la Banque centrale européenne applicable pendant cette période, augmenté de trois points de pourcentage ;

 

3.  Rejette la demande de satisfaction équitable pour le surplus.

Fait en français, puis communiqué par écrit le 13 novembre 2007 en application de l’article 77 §§ 2 et 3 du règlement.

            S. Dollé                                                                  F. Tulkens
             Greffière                                                                      Président[Note9]e

 

 


 

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