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presenza del Pubblico Ministero

2 Maggio 2010 - Il procedimento disciplinare - la presenza del Pubblico Ministero - Il giusto processo ed il giudizio disciplinare - Il potere di normazione secondaria del C.N.F., vincolante per gli appartenenti all’ordine professionale. - Le novità introdotte dalla cassazione (da gli oratori del giorno Ottobre 2009 a cura del Dr.)

2 Maggio 2010 - Il procedimento disciplinare - la presenza del Pubblico Ministero - Il giusto processo ed il giudizio disciplinare - Il potere di normazione secondaria del C.N.F., vincolante per gli appartenenti all’ordine professionale. - Le novità introdotte dalla cassazione (da gli oratori del giorno Ottobre 2009 a cura del Dr.)

Nel procedimento disciplinare il P.M. c’è

Il procedimento disciplinare è attualmente regolato da disposizioni contenute nel titolo quarto e quindi del R.D.I. 27.11.1933 n. 1578 e nel titolo secondo R.D. 22.1.1934 n. 37,
il semplice dato della risalenza del regime delle corporazioni, la disorganicità e confusione sistematica dell’apparato normativo imporrebbero per se solo una serie rimeditazione della vigente normativa disciplinare.
Ciò è stato fatto attraverso il contributo della giurisprudenza, che ha cercato, come è stato correttamente rilevato, di interpretare le disposizioni esistenti, dettando anche criteri sussidiari, con richiamo alle norme del procedimento civile e, in alcuni casi, a quelle del processo penale.

Norme analitiche e confusione giurisprudenziale
Ma proprio pere tale ragione e per la considerazione che anche la giurisprudenza talora è stata causa di confusione (si veda la questione della prescrizione, con le due pronunce, una differente dall’altra, in poco tempo, e da ultimo la sentenza sull’impugnabilità della delibera che dispone l’apertura del procedimento disciplinare) che deve essere rivista l’intera struttura del procedimento disciplinare per verificarne la sua rispondenza ai principi del giusto processo (il contraddittorio tra le parti, le condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale).
L’Art. 38 della l. 1578/33 – il primo articolo del procedimento disciplinare – individua l’oggetto della tutela in una gamma di condotte – in nessun modo specificate – ricollegabili ad abusi o mancanze nell’esercizio della professione ovvero a comportamenti non conformi alla dignità ed al decoro professionale.
Esso costituisce il fondamento della potestà disciplinare, poiché rappresenta la base legislativa che ancora tale potestà alle associazioni professionali, sotto la vigilanza dello Stato.
Tale vigilanza lo Stato svolge mediante il pubblico ministero.
Lo Stato – il quale tramite il Ministero della Giustizia non a caso esercita vigilanza sugli Ordini degli Avvocati (art. 15 R.D.L. 1578/1933) – dovrà essere posto, nei passaggi fondamentali riguardanti lo status professionale degli avvocati, in grado di prevenire possibili violazioni della legge che regolano l’esercizio della professione di avvocato.

Lo stato vigila sulla professione Forense

Espressione evidente di tale interrelazione tra associazione professionale e Stato è la necessità di notificare al Pubblico Ministero l’avvio del procedimento di cancellazione dall’Albo.
Ciò deriva, come evidente dal fatto che in materia incidentale sui diritti di libertà del singolo (avvocato e suo cliente), e in particolare incidente sul bene primario del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. è essenziale il controllo dell’organo che esprime l’interesse generale della comunità, organo appunto individuato nel pubblico ministero.
Trattasi di necessità che deriva della scelta di attribuire il potere di tenuta degli albi ad organismi non inseriti nello “Statuto -amministrazione” ma rappresentativi “dell’ordine forense”.
Comunicare, quindi, l’avvio del procedimento di cancellazione dall’Albo al Pubblico Ministero è giustamente obbligatorio, poiché attraverso tale adempimento si acquisisce al procedimento l’interesse pubblico di cui è tipicamente titolare esso Pubblico Ministero ai sensi dell’art. 73, comma1, della legge sull0ordinamento giudiziario, R.D. 30.1.1941 (vegliare “sull’osservanza della legge”)
Mi sono chiesto ed è legittimo chiedersi la ragione dell’attribuzione e del mantenimento in capo al pubblico ministero di una siffatta funzione, specie se si considerala caratterizzazione prevalentemente penalistica dell’organo.
La risposta deve essere ricercata in tutte quelle congerie di disposizioni che devolvono al pubblico ministero funzioni altre rispetto a quelle tipiche di titolare dell’accusa nel procedimento penale.
In genere, i compiti del P.M., soprattutto nel processo civile, hanno una notevole incidenza e danno all’organo un’impronta di terzietà che connota

IL SIGNIFICATO PUBBLICISTICO DELLA FUNZIONE.

L’interesse pubblico tutelato dal P.M.
La dottrina giusprocessualistica civilistica osserva, infatti, che il Pubblico Ministero non agisce ed interviene nel processo civile a tutela di un interesse concreto, corrispondente a specifiche articolazioni della pubblica amministrazione.
La sua presenza nel processo esprime una esigenza di tutela del più generale interesse all’attuazione ed alla esatta applicazione della legge, alla realizzazione dell’ordinamento giuridico, interesse rispetto al quale non è ragionevolmente possibile individuare un titolare.
In sostanza il Pubblico Ministero è un organo giudiziario che consente al giudice di provvedere al di là della domanda e delle difese delle parti PRIVATE interessate, ai fini del rispetto dei limiti posti, per ragioni di pubblico interesse, al diritto del privato ed alla sua disponibilità.
Il Pubblico Ministero è di conseguenza parte processuale, ma non parte sostanziale stante la sua estraneità al rapporto sostanziale ed all’interesse concreto dedotti in giudizio.
La funzione del Pubblico Ministero nel processo civile tutela di interessi generali, che si pongono al di sopra di quelli delle parti e costituiscono patrimonio non di un ente o i un apparato ma della collettività, è quindi, nel nuovo assetto costituzionale, la ragione primaria del suo ruolo nell’ordinamento professionale degli avvocati.
Tale posizione è riconosciuta esplicitamente, a livello normativo, dall’art. 73 ord. Giud., dove al comma 2 afferma che il Pubblico Ministero ha azione diretta per fare eseguire ed osservare le leggi di ordine pubblico e che interessano i diritti dello Stato.
In forza di questa disposizione è stata affermata una generale e diretta attribuzione al Pubblico Ministero del potere di azione nelle materie nelle quali l’interesse pubblico appaia particolarmente rilevante alla stregua di una considerazione globale dell’ordinamento, sia pure in mancanza di una specifica normativa al riguardo.

Il potere di normazione secondaria del C.N.F., vincolante per gli appartenenti all’ordine professionale.
Nella ricostruzione esegetica di tale potere è stato giustamente osservato che la potestà sanzionatoria, attribuita dalla legge, implica la potestà di precisare le regole di condotta la cui violazione importi una sanzione: non può infatti essere applicata una sanzione se non sia individuata la specifica trasgressione al comportamento che avrebbe dovuto essere rispettato (cosi cass. Un. 12 dicembre 1955, n. 12723, nelle quale si precisa che: compete agli ordini professionali emanare le regole di deontologia vincolanti per i propri iscritti, quale espressione di autogoverno della professione e di autodisciplina dei comportamenti degli iscritti: la violazione delle norme di etica professionale cosi stabilite, aventi valore di norme intere dell’ordinamento particolare della categoria, dà luogo ad illecito disciplinare; che può essere sanzionato al fine di ricondurre i destinatari delle norme all’osservanza dei doveri che la categoria si è imposti).
In ragione di tali principi ed in attuazione di Direttive europee, coerenti con la suddetta affermazione, al CNF ha provveduto alla tipicizzazione degli illeciti ed ha realizzato il codice deontologico forense, individuando le fattispecie più ricorrenti.
Il codice deontologico ha consentito (e consente) agli ordini professionali di formulare le incolpazioni inquadrando le condotte in fattispecie specifiche, e quindi richiamando sia nelle incolpazioni che nelle decisioni tali norme del codice deontologico.
Di conseguenza, il ruolo del p.m. nel procedimento disciplinare, sia pure nel più ampio perimetro di rappresentante dello Stato-comunità in quanto portatore di interessi generali, assume una specifica ed ulteriore caratterizzazione, quale tutore delle norme che regolamentano lo status degli appartenenti alla associazione professionale e da questa provenienti.

Il P.M. è organo imparziale

La funzione propulsiva e requirente nelle procedure più rilevanti, interne alla categoria, è demandata ad un organo pubblico, esterno alla medesima categoria, privo di funzioni di rappresentanza della stessa, a testimonianza dell’interesse generale immanente alle stesse e – se mi si consente – della imparzialità dell’organismo, a cui si fa carico di esprimere i valori condivisi che sono alla base della vita professionale dell’associazione di categoria.
Sulla base di queste premesse l’analisi dell’attuale struttura del procedimento disciplinare evidenzia lacune e vistose contraddizioni.
Innanzitutto la natura anfibia degli organi disciplinari (organo amministrativo è il Consiglio dell’Ordine; organo giurisdizionale il CNF): come si spiegano i compiti e la presenza del p.m. – organo sicuramente giudiziario – avanti al Consiglio dell’Ordine, organo amministrativo, che in primo grado svolge una funzione tipicamente amministrativa.
Tale contraddizione è oggi resa più evidente a seguito della Sentenza della Cassazione a SS.UU. dell’11 novembre 208 n. 29294/2008 depositata il 15 dicembre 2008, che ha ritenuto ammissibile il ricorso al CNF (organo giurisdizionale) contro la deliberazione del Consiglio dell’Ordine di dare inizio al procedimento disciplinare, cosai spezzettando e frustrando la fase endoprocedimentale, propedeutica ala giudizio pronunciando all’esito del procedimento amministrativo.
La Cassazione ritiene ammissibile il ricorso contro l’atto introduttivo del giudizio disciplinare con l’argomento che qualunque fase procedimentale incide conclusivamente sulla posizione dell’incolpato, per cui sarebbero consentite singole impugnazioni.

Il giusto processo ed il giudizio disciplinare
Inoltre, nella sentenza si una esplicita presa di posizione a favore dell’applicazione dei principi del giusto processo al procedimento amministrativo davanti al Consiglio dell’Ordine locale.
La decisione della corte di cassazione dà spazio a problematiche già presenti nell’ordinamento disciplinare riguardanti soprattutto la natura dell’azione disciplinare.
Come è noto la fase preliminare del procedimento disciplinare (che va dalla notizia del presunto illecito alla delibera di apertura del procedimento disciplinare o all’eventuale archiviazione) non è regolata dalla normativa disciplinare.
Lo sforzo applicativo ed interpretativo ha reso possibile acquisire alcune regole fondamentali.
In sostanza, nella dinamica del procedimento, il segmento di azione sopra evidenziato viene concettualmente ricompreso nel concetto di fase conoscitiva, prodromica al procedimento disciplinare, che non entra nel giudizio di merito, finalizzata alla verifica della sussistenza dei fatti riferiti al professionista e ad una delibazione della loro eventuale rilevanza in campo disciplinare.
Esso non costituisce atto istruttorio e non presuppone alcuna preventiva contestazione dei fatti addebitati al professionista.
In questa fase, il Consiglio dell’ordine forense può decidere di archiviare immediatamente la procedura se l’addebito risulta irrilevante od infondato.
Altrimenti è obbligato ad esercitare l’azione disciplinare con l’apertura del procedimento.

Di norma manca l’organo inquirente
In questi termini si rileva l’intrinseca contraddizione del procedimento, poiché è lo stesso organo che pronuncerà il giudizio che delibera di aprire il procedimento disciplinare o di archiviare.
Anche se le varie pronunce sul tema, richiamano costantemente per il procedimento di primo grado il principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., ci si dimentica, che il processo richiedere un organo che esercita l’azione ed un che decide.
Ebbene nel procedimento disciplinare, manca un organo inquirente e la fase corrispondente e priva di regolamentazione.
Il P.M. in questa materia non è titolare di una vera e propria azione ma nella sostanza viene equiparato a qualsiasi esponente.
Ciò pone un problema di allineamento con il testo normativo, in quanto non si riesce a cogliere il significato e la portata dell’art. 38, nella parte in cui si dispone che il procedimento disciplinare è iniziato d’ufficio o su richiesta del Pubblico Ministero… ovvero su ricorso dell’interessato.
La lettura combinata dell’intero testo dovrebbe indurre a ritenere che la richiesta del P.M. equivale ad esercizio dell’azione disciplinare ed essa obbliga il Consiglio ad iniziare il procedimento disciplinare (art. 38, 1° e 3° co.).
Nella prassi cosi non è.
La fase preliminare viene svolta da un membro del Consiglio Forense, all’uopo nominato relatore, da parte del Presidente del Consiglio (art. 47, 23° co., r.d. 37/1934).
In ogni caso, l’omesso svolgimento delle indagini nella fase preliminare non determina l’invalidità del procedimento disciplinare, in quanto tale attività viene ritenuta opportuna ma non obbligatoria, traendo spunto dal disposto dell’art. 47, 2° co., r.d. 37/1934.

Le novità introdotte dalla cassazione

Anche, qui, il ruolo del P.M. , nella prospettiva dell’assoluta discrezionalità del delegato del Consiglio dell’Ordine circa la necessità dell’istruttoria, si riduce da mera comparsa, poiché la norma richiamata limita la partecipazione dello stesso P.M. alla possibilità di depositare le proprie deduzioni, per le quali, se disattese, si trova nell’impossibilità di proporre alcuna istanza di riesame ad un organo diverso. Secondo la prassi, dell’archiviazione viene data comunicazione anche all’esponente.
Tuttavia, l’esponente, ovvero colui che abbia ritenuto di subire un danno dal comportamento deontologicamente scorretto dell’avvocato, non può in alcun modo opporsi all’archiviazione del procedimento disciplinare cosi come non vi si può opporre il Pubblico Ministero, al quale comunque no è data comunicazione alcuna, anche quando la segnalazione è da lui proveniente.
Lo sviluppo endo – procedimentale sopra esposto è stato pesantemente scalfitto dalla pronuncia della Cassazione sopra indicata.


La Cassazione ha infatti affermato che:
-le regole del giusto processo sono applicabili al procedimento disciplinare di 1° grado;
non vi è potere insindacabile di ordine alla decisione sull’esercizio dell’azione disciplinare.
La combinazione di due suddetti principi ha come corollario che anche la decisione di archiviazione debba poter essere suscettibile di rivalutazione nell’ambito del sistema delle impugnazioni, pena la produzione di un vulnus all’intero sistema in conseguenza della grave asimmetria determinata dai diversi effetti conseguenti alla decisione sull’esercizio dell’azione disciplinare, sistema, comunque, che la Cassazione in qualche scalfisce, ponendo l’esigenza dell’applicazione delle regole del giusto processo, che si distanziano principalmente nella netta distinzione tra organo dell’azione disciplinare e organo della decisione.
Certo, il procedimento archiviato può essere riaperto in qualsiasi momento, qualora emergano elementi nuovi, volti a sostenerlo e fermo restando la decorrenza della prescrizione.

L’avvocato condannato in sede penale e l’obbligo di azione disciplinare

In particolare, il procedimenti disciplinare archiviato deve essere riaperto, qualora, successivamente all’intervenuta archiviazione, il procedimento disciplinare debba essere aperto d’ufficio ai sensi dell’art. 44, r.d. 1578/1933.
Questo è l’unico caso di automatismo nell’apertura del procedimento disciplinare, imposto dalla legge, ed è dipendente dalla sottrazione dell’avvocato a procedimento penale.
Infatti, il richiamato art. 44 R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, prevede che “l’avvocato che sia stato sottoposto a procedimento penale è sottoposto anche a procedimento disciplinare per il fatto che ha formato oggetto dell’imputazione”.
Tale norma è espressamente del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti di avvocati sottoposti a procedimento penale, principio che deve ritenersi applicabile, a fortori, nei confronti del professionista definitivamente condannato all’esito di un procedimento penale aperto nei suoi confronti.
Tale meccanismo procedimentale, in presenza di una sentenza di condanna passata in giudicato, proietta i suoi effetti sulla decisione poiché, secondo quanto previsto dal comma 1 bis dell’art. 653 c.p.p.; introdotto dall’art.1 della L. 27 marzo 2001, n. 97, la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto accertamento della sussistenza del fatto, della sua illecita penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.
In questo ambito il P.M.; può agire in funzione sollecitatoria, ricavabile dalla lettura sistematica dell’insieme delle disposizioni relative al ruolo del P.M. nel procedimento disciplinare (art. 38, comma 3°del già citato R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578 sul potere del P.M. rispetto cui il professionista è iscritto;art. 50 dello stesso R.D.L. che prevede il potere di impugnativa del P.M. avverso le decisioni disciplinari dei Consigli dell’Ordine; art. 47 1° comma e 48, 1° comma del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37 che prevedono rispettivamente l’immediata comunicazione e la notifica della citazione al P.M. relativamente ai procedimenti disciplinari che siano stati iniziati; art. 47 1° comma numero 5) che prevede la possibilità per il P.M. di prendere visione degli atti del procedimento, proporre deduzioni e indicare testimoni) esercitando un potere “propulsivo” finalizzato all’inizio ovvero alla sollecita conclusione del procedimento ed alla applicazione della sanzione disciplinare.

Alcune disfasie nella funzione del P.M. all’interno del procedimento disciplinare

In questi casi, appare evidente che l’archiviazione predisciplinare, sia del tutto esclusa, in quanto l’obbligatorietà del procedimento disciplinare postula la necessità che la verifica della fondatezza dell’illecito contestato si svolga nel corso del procedimento, con la possibilità per il P.M. di impugnare la eventuale pronuncia di assoluzione.
La soluzione qui prospettata, imposta da esigenze di coordinamento della normativa professionale con quella del processo penale, dimostra, ancora una volta il rischio di confusione e, quindi, l’esigenza di una revisione strutturale del procedimento disciplinare.
La soluzione appare – come si diceva – ancora più confusa e contraddittoria, se si considera che ora, dopo la citata sentenza della Cassazione a sezioni Unite, la delibera di inizio del procedimento disciplinare è immediatamente impugnabile mentre l’archiviazione, che definisce la fase preliminare (al pari della deliberazione di inizio del procedimento disciplinare, trasmessa al P.M.;) non è comunicata al Pubblico Ministero, che comunque, anche da lui conosciuta, non può impugnare, perché nessun procedimento ha avuto inizio.
È evidente, a questo punto, una chiara asimmetria nelle distinte facoltà riconosciute all’iscritto all’ordine e alla parte pubblica, che non può non avere riflessi costituzionali sul piano dell’uguaglianza.
Il p.m., di fronte ad una richiesta di giudizio disciplinare da lui promossa, conclusioni con archiviazione, non ha alcun potere di impugnativa.
L’associato invece può immediatamente impugnare l’atto di inizio del procedimento disciplinare, cosi impedendo il passaggio alla fase procedimentale.
Il disallineamento delle asizioni, determina una situazione di oggettiva disparità che comunque pregiudica l’esercizio delle funzioni di controllo e vigilanza totalmente frustrante qui considerata.
Senza contare che l’attuale dinamica del procedimento disciplinare degli avvocati isola, in relazione a tale profilo, la categoria professionale delle categorie similari, quale quella dei notai, dove, il magistero disciplinare di primo grado, pur collocato nell’ambito della giurisdizione interna alla categoria, distingue i titolari dell’azione (che comprende, fra gli altri, anche il consiglio notarile), l’organo della decisione (il CORDI), composto dai notai eletti nell’ambito del distretto e presieduto da un magistrato, e l’organo di secondo grado (la Corte di Appello).
Come si vede, il concetto di giusto processo postula necessariamente una netta distinzione tra organo dell’azione ed organo della decisione.
D’altronde, la consapevolezza della inammissibilità circa l’assenza di controllo sull’archiviazione è alla base della proposta di modifica elaborata dal CNF che nel progetto di riforma sancisce al punto 3 dell’art. 9 – che regola l’apertura del procedimento disciplinare – l’obbligo della comunicazione del provvedimento di archiviazione al PM ove da quest’organo sia pervenuta la notizia di illecito disciplinare.

La presenza del p.m. diventa più incisiva nella fase dibattimentale e decisionale.

Se viene disposto il rinvio a giudizio, infatti, il Presidente del Consiglio forense notifica all’incolpato la data di fissazione del dibattimento, concedendogli un termine di comparizione non inferiore a 10 giorni, che può essere prorogato, su richiesta dell’interessato, per giustificati motivi.
Il provvedimento deve necessariamente essere notificato anche al Pubblico Ministero (art. 48 r.d. 37/1934), che potrà intervenire nel procedimento con gli stessi poteri della parte privata, e quindi potrà presentare testimoni e depositare documenti.
L’udienza dibattimentale è presieduta dal Presidente del Consiglio forense e non è pubblica (art. 42, 1° co., r.d. 37/1934).
Al procedimento ha facoltà di partecipare il Pubblico Ministero, ma non l’esponente, se non in qualità di testimone o per altre esigenze istruttorie.
Ciò dà luogo ad una situazione particolare, nella quale l’esponente, che non è parte del procedimento, chiede al p.m. di farsi portare nel procedimento delle proprie ragioni.
In questo caso, l’esponente ha un funzione solamente sollecitatoria, rimanendo rimessa ogni valutazione sui modi e sui contenuti della partecipazione alla esclusiva responsabilità del p.m.
La decisione disciplinare diviene pubblica attraversa il deposito nella segreteria del Consiglio Forense che ha deliberato e con la notificazione all’incolpato ed Al Pubblico Ministero presso il Tribunale in cui ha sede il Consiglio dell’Ordine forense, la quale deve avvenire entro 15 giorni dal deposito del dispositivo in segreteria (art. 50, r.d. 1578/1933).

Una norma remota che subordina il P.M. al Ministro delle Giustizia

Entro 10 giorni dalla notifica del provvedimento disciplinare il Pubblico Ministero deve a sua volta trasmettere il provvedimento, esprimendo su di esso parere motivato, al Pubblico Ministero presso la Corte d’Appello, al quale unicamente spetta i diritti di proporre l’impugnazione.
La duplicazione delle competenze tra P.M. presso il Tribunale e P.M. presso la Corte di Appello non ha oggi regione di esistere.
Si giustificava, storicamente, con la dipendenza gerarchica del P.M. dal Ministero e perciò il P.M. inferiore doveva relazionare a quello superiore, la cui posizione di vertice lo rendeva diretto interlocutore del Ministro.
Nel nuovo aspetto costituzionale il rapporto tra Ministro e P.M. è di natura funzionale.
La collaborazione all’esercizio della funzione di vigilanza e controllo del p.m. sull’ordine professionale è slegata da alcun vincolo gerarchico con il ministro e con gli uffici di procura superiori ed è assoluta in forza della natura dell’organo: neutro ed imparziale che agisce per sollecitare la verifica della legalità da parte dell’organo giudicante e per la tutela degli interessi dello Stato – comunità, delle persone giuridiche, degli enti e degli incapaci.
La supervisione della procura generale della corte di appello potrebbe continuare a permanere se vista nell’ottica di assicurare uniformità di indirizzi nelle valutazioni disciplinari dei distinti consigli locali presenti nel distretto.
Ma tale funzione è assicurata dalla funzione giurisdizionale del CNF.
Pertanto, anche sotto tale profilo la competenza della procura generale appare priva di significato e rimane come il risultato di una posizione legata ai ruoli e rapporti, nel nuovo sistema costituzionale del tutto superati.
La funzione requirente della Procura Generale della Cassazione davanti CNF è corretta e va mantenuta in ragione della unicità e centralità della funzione giurisdizionale e per assicurare la necessaria simmetria con l’analoga (ma più penetrativa) funzione che la medesima Procura svolge la Sezione disciplinare del CSM.

La conclusione con “parole sante”

In conclusione, ritengo che l’attuale normativa sul procedimento disciplinare, per quanto lacunosa ed in più tratti problematica, se applicata con la necessaria consapevolezza dell’importanza del compito, può risultare efficace solo se si ha chiara LA RESPONSABILITA’, che ciascuno, nei diversi ruoli, è chiamato ad esercitare.
La responsabilità nell’affermazione dei valori etici e deontologici della professione è CONCETTO CHE COINVOLGE TUTTI, e questo NON IMPLICA IL PUNIRE FINE A SE STESSO MA VUOLE FAR CAPIRE, DARE SOSTEGNO, AIUTO E CONDIVISIONE, PER INCORAGGIARE UNA CAMBIAMENTO DI COMPORTAMENTO che serva a rafforzare nella società civile i valori di una professione che da sempre è un pilastro nel riconoscimento e nella tutela dei diritti della persona.